Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Nella pacifica Europa diventa sempre più feroce lo scontro imperialistico. Spacciato dai media come un ritiro della Troika, il nuovo programma di controlli pluridecennali su una Grecia col debito pubblico ormai al 180% del PIL, configura il serio rischio di uno spopolamento del Paese, di un genocidio. Anche il fatto che il prossimo governo greco non sarà più composto dai boy scout di Tsipras o di Varoufakis ma da fascisti, diventa un dettaglio trascurabile. L’Unione Europea ed i suoi media ci propongono infatti un modello di narrazione pura, che ignora totalmente fatti ed evidenze: la Grecia ha fatto i compiti e quindi può non stare più dietro la lavagna e tornarsene al suo banco; il suo caso viene persino presentato dai media come un esempio edificante per gli altri scolaretti discoli come l’Italia. Ma nemmeno la Scuola funziona più così.
In Italia si manifesta intanto un’emergenza-infrastrutture (un’emergenza vera, stavolta) nei confronti della quale l’UE ha già annunciato che non farà concessioni sugli eventuali sforamenti di bilancio. La deflazione e i tagli di bilancio stanno accelerando la “meridionalizzazione”, il degrado urbano del Nord, con la sola eccezione della città-vetrina, Milano.
Nel 2011 Genova fu già oggetto di un disastro, un’inondazione, che all’epoca poté essere digerita da gran parte dell’opinione pubblica come il consueto effetto di negligenze ed inefficienze. In un’intervista a Sky l’attore genovese Paolo Villaggio elesse come responsabile del disastro la cultura “sudista e borbonica” che invadeva un Nord che si illudeva di essere “anglosassone”. Nel 2011 tutto poteva ancora essere “razionalizzato” negli storici canoni dell’autorazzismo.
Paolo Villaggio ha rappresentato una svista tipica del clima degli anni ’60. Raccontando in modo iperbolico il darwinismo sociale e l’epopea dei perdenti della lotta per la vita, Villaggio proponeva un’antiretorica che veniva percepita, e percepita da lui stesso, come di “sinistra” (“a sinistra del Partito Comunista Cinese”). Oggi invece il darwinismo sociale viene sempre più considerato come un paravento ideologico della squallida realtà dell’assistenzialismo per ricchi. L’indignazione collettiva contro la gestione privata assistita dal denaro pubblico, ha dovuto essere cavalcata dal governo e lo ha costretto ad infilarsi in un tortuoso percorso inverso alla privatizzazione con strumenti finanziari e giuridici del tutto inadeguati e, soprattutto, con la presenza di un potere giudiziario dimostratosi del tutto inaffidabile quando si tratti di toccare gli interessi dei grandi gruppi privati.
La famiglia Benetton non ha dietro di sé una Philip Morris con i suoi agganci nella NATO e nella CIA, quindi non ha goduto del tutto delle protezioni mediatiche che hanno consentito di celebrare la scomparsa del “salvatore” Marchionne senza neppure ricordarsi che oggi tutti gli stabilimenti italiani della FCA sono in cassa integrazione. I Benetton sono così stati individuati anche da un parte dei media mainstream come una sorta di esempio paradigmatico dell’assistenzialismo per ricchi.
Dopo il disastro accaduto a Genova il governo non poteva neppure provare a far finta di credere alla proposta di Autostrade per l’Italia di una ricostruzione del nuovo ponte in otto mesi, quando ce ne vorranno forse di più per rimuovere i resti di quello attuale. Pier Carlo Padoan aveva ancora davanti a sé come faro per la risoluzione dei problemi di bilancio la via delle privatizzazioni. Oggi la Lega e i 5 Stelle, in conflitto con la loro stessa ideologia, si trovano obbligati a percorrere la via opposta; e per loro non è solo questione di assecondare l’indignazione popolare, ma di inserirsi in un generale regolamento di conti all’interno dell’establishment di cui ci sono vari segnali; non ancora notizie chiare però, poiché i media sono ancora saldamente in mano alla lobby della deflazione.
Non sappiamo come andrà a finire, ma intanto il fatto che la revoca della concessione ad ASPI prefigurasse una possibile nazionalizzazione, ha scatenato un putiferio. Già nella Lega, Giorgetti si è detto contrario all'ipotesi, ma poi il mainstream mediatico ha dato il suo meglio. Professori ed economisti delle Università più prestigiose o più improbabili del mondo intero, giornalisti ed esperti, editorialisti e commentatori hanno attaccato da video e giornali l'ipotesi come folle, antistorica, superata, controproducente, lanciandosi in ragionamenti e dimostrazioni davvero convincenti:
- la nazionalizzazione farebbe perdere credibilità e gli investitori non verrebbero più a investire in Italia; l'Italia sarebbe retrocessa al livello del Venezuela e dell'Argentina (quindi un ponte che crolla facendo una strage provocata dai privati non fa perdere credibilità all'Italia, la nazionalizzazione sì);
- il disastro di Genova non dimostra la cialtroneria criminale dei privati ma, ancora una volta, l'inefficienza burocratica della pubblica amministrazione, che avrebbe dovuto controllare i privati e non l'ha fatto; quindi un'amministrazione pubblica considerata incapace di gestire alcunché, dovrebbe essere però in grado di controllare rigorosamente i privati, ma senza esagerare, altrimenti perdiamo di credibilità.
Gli eventi hanno comunque radicalizzato la situazione e per il governo si chiude la possibilità di una tattica attendista nella speranza che l’euro salti da solo il prossimo anno. La propaganda del PD si ostina a cercar di far credere che dall’altra parte del tavolo vi siano degli interlocutori credibili con cui trattare una gestione razionale dell’esistente e che solo il governo attuale sia il perturbatore. Questa fiaba del “se mi comporto bene, tutti mi vorranno bene”, suscita oggi non solo incredulità ma anche insofferenza e ciò ha costituito sinora una grossa risorsa per il governo, il quale ha potuto accreditarsi presso l’opinione pubblica con l’alone di un maggiore realismo. Ma anche questa rendita di posizione si va esaurendo.
La narrazione ufficiale sul “crollo” della lira turca mostra le tipiche stimmate, il marchio inconfondibile, della lobby della deflazione, cioè la lobby della difesa del valore dei crediti: il marchio del catastrofismo e del moralismo. I “Mercati” sarebbero “spaventati” dal possibile “contagio” sulle Borse e sulle banche europee e, ovviamente, dagli effetti sull’Italia. La “colpa” è dell’autocrate Erdogan che, oltre che cattivo, è anche pazzo, infatti grida al “complotto” e invoca Allah. Il mainstream compatto invoca invece l’arrivo in Turchia del Fondo Monetario Internazionale, cioè proprio la centrale della lobby della deflazione. Ma guarda la strana coincidenza.
Certo che anche se nel ruolo del “villain” Erdogan è perfetto, tanto allarmismo ugualmente non ha fondamento. Liretta o non liretta, la Turchia ha pur sempre un tasso di incremento del PIL di circa il 7% annuo, per cui gli operatori economici turchi alla fine i soldi per pagare i loro debiti con i fornitori e prestatori esteri li troveranno. Il fatto che i creditori ci rimettano qualcosa non sarebbe una tragedia se lo strapotere, anche mediatico, della lobby della deflazione non fosse lì a denunciare la lesa maestà e ad imporre una stretta sulle economie emergenti, appunto per evitare che i tassi di sviluppo eccessivi compromettano i cambi e, conseguentemente, il valore dei crediti.
Il cialtrone Trump intanto ha aumentato i dazi sulle merci turche dimostrando di sospettare che la “liretta” serva ad Erdogan proprio per invadergli il mercato più di quanto non abbia già fatto finora. Al consumatore americano l’industria turca offriva infatti, a soli trecento dollari, delizie irresistibili come pistole semiautomatiche con caricatori che non finiscono mai.
I media si chiedono a cosa preluda questo scontro epocale tra USA e Turchia. Ad un clamoroso cambio di alleanze da parte di Erdogan? O ad un colpo di stato militare (vero, stavolta) che abbatta Erdogan?
Tutto è possibile ma, conoscendo ormai il “CialTrump style”, può darsi anche che preluda ad un incontro di riconciliazione tra il presidente USA e quello turco, con tanto di pose da amiconi e di pacche sulle spalle. Quel che è certo è che i dazi di CialTrump costituiscono in questa circostanza un aiuto indiretto al FMI ed alla lobby della deflazione e quindi anche alla da lui tanto vilipesa Unione Europea.
Non che tutta l’opinione pubblica si sia bevuta l’ennesima emergenza e la storiella che l’euro sarebbe un ombrello che terrebbe al riparo da questi accidenti finanziari. Gran parte dell’opinione pubblica sa, o intuisce, che gli annunci e le boutade che spara a giorni alterni questo governo non hanno nulla a che fare con lo spread; e sa anche che lo spread aumenterà man mano che si avvicina la fine del “Quantitative Easing” della BCE. Che lo spread possa acquietarsi non più per il “Quantitative Easing” ma per un “Narrative Easing” del governo, è una balla a cui crede solo qualche elettore del PD.
L’effetto dei dazi USA contro la Turchia va a favore dell’UE per un altro motivo, in quanto dimostra ancora una volta che la linea commercial-sviluppista di CialTrump procede in modo episodico, senza visione d’insieme ed individuazione delle priorità. Chi puntasse sullo sviluppo e si trovasse per questo in difficoltà con la bilancia dei pagamenti, non avrebbe nessuna certezza di trovare una sponda negli USA. CialTrump non si pone il problema di battere globalmente la lobby della deflazione, ma semplicemente di difendere l’industria americana. Il caso CialTrump rientra quindi nel cosiddetto “eccezionalismo americano”, cioè la consueta pretesa degli USA di non far valere per sé le pratiche di deindustrializzazione che sono imposte agli altri dalla lobby della deflazione.
Sino a una decina di anni fa la lobby della deflazione aveva però dietro di sé l’establishment pressoché compatto, mentre oggi vari pezzi se ne cominciano a dissociare perché hanno paura del FMI. In fondo Paolo Savona e Giovanni Tria sono molto più rappresentativi dell’establishment di uno spiantato come Luigi Marattin.
Occorre infatti tener presente che l’alternativa al governo Conte-Salvini-Di Maio non era un governo col PD, bensì un governo Cottarelli, quindi un governo-ponte verso il commissariamento da parte della Troika, cioè del FMI; cosa che avrebbe non solo impedito all’Italia di prepararsi alla implosione della moneta unica e di approfittare dei vantaggi che ne deriverebbero, ma soprattutto avrebbe determinato una iper-colonizzazione del Paese. Del resto lo ha detto anche Mario Monti in Senato che un governo della Troika sarebbe una cosa “disgustosa” (il termine è suo). D’altra parte il soggetto “Italia” va preso con le molle, perché anche qui la lobby della deflazione ha i suoi adepti; e non è detto che siano quelli che si espongono di più nella difesa dell’euro, come la cosiddetta “sinistra”.
Occorre anche non invertire il rapporto causa-effetto, altrimenti si rischia di credere che la “sinistra” oggi si identifichi con la lobby della deflazione per convinzione ed interesse. In realtà la questione è diversa: il FMI-lobby della deflazione controlla i media mainstream; la “sinistra” da almeno mezzo secolo segue pedissequamente il mainstream; di conseguenza la “sinistra” adotta le posizioni della lobby della deflazione. Se il mainstream cambiasse padrone, allora cambierebbe idea anche la “sinistra”. Ciò non vale solo per il PD ma per la “sinistra” nel suo complesso, comprese le sue articolazioni più estreme. La “sinistra” infatti ha risolto il problema del pericolo di un nuovo stalinismo e di un nuovo dogmatismo interno semplicemente cessando di discutere ed adottando il dogmatismo del potere. La “sinistra” non produce e non esporta più dogmatismo ma lo importa soltanto: una sorta di etero-stalinismo.
E poi la discussione è piena di insidie inventate dal mainstream: e ci sono i “rossobruni”, e ci sono le “fake news”, e ci sono i “no vax”, e ci sono i “complottisti”. Ecco che allora il quotidiano sedicente “comunista” detto il “manifesto” adotta sulla Turchia la stessa identica posizione del mainstream, con un articolo fotocopia de “la Stampa”, descrivendo Erdogan come un pazzoide complottista.
Ancora una volta è necessario non invertire il rapporto causa-effetto. Non è che il “manifesto” segua il mainstream perché è finanziato dai potentati; è che i potentati hanno trovato del tutto logico finanziare un quotidiano accodato al mainstream. La Rossanda è sempre stata la Rossanda.
Ma non è solo Erdogan a prendersi rampogne mainstream sulle colonne del “manifesto”. C’è anche il sandinista Daniel Ortega, che è stato sì eletto, ma è comunque un “autocrate” (magari traviato dalla corrottissima moglie). Ci si narra che Ortega opprime il Nicaragua, che però gli si ribella con i suoi studenti. Gli stessi articoli che si potrebbero leggere sul Corriere della Sera”, solo che il “Corriere” almeno non si dimentica di riferire che dietro le manifestazioni ci sono le ONG.
Se ci si fa caso, tranne che in qualche Paese con abitanti di pura razza ariana, secondo il mainstream i governi sono tutti corrotti. Uno magari pensa che ce l’abbiano con Erdogan perché è mussulmano e con Ortega perché è comunista. No, ce l’hanno con tutti i popoli inferiori, persino con i governi che hanno messo loro. In Ucraina le ONG, dopo aver contribuito al colpo di Stato nazista che ha rovesciato il precedente governo, oggi guidano la rivolta delle masse contro la “corruzione”. In sinergia con lo squadrismo umanitario delle ONG, il FMI terrà bloccati i finanziamenti al governo ucraino finché le nuove leggi anticorruzione non saranno approvate. Di questo passo anche l’Ucraina non sfuggirà al commissariamento.
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