Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Una delle ultime decisioni del governo Prodi è stata quella di
inasprire le pene per gli imprenditori responsabili di incidenti sul
lavoro. Non può sfuggire il carattere puramente simbolico e
astratto di questo provvedimento, mentre al contrario rimangono del
tutto non affrontate le cause della mortalità sul lavoro.
Neanche il più acritico degli estimatori delle virtù
della magistratura, può infatti credere seriamente che una
eventuale sentenza di condanna nei confronti di qualche esponente delle
multinazionali possa davvero reggere i tre gradi di giudizio,
poiché qualsiasi Corte avrebbe facile gioco ad arrendersi di
fronte alla pioggia di perizie tecniche a favore degli imputati;
perciò alla fine sarà al massimo qualche artigiano a fare
il capro espiatorio da offrire all'opinione pubblica.
Frattanto la principale causa degli incidenti, cioè la
dilatazione della giornata lavorativa, risulta ancora non toccata e
intoccabile, dato che rimane sacro l'obiettivo della
"flessibilità" del lavoro. Nella ultima legge finanziaria, il
governo Prodi ha previsto ulteriori sgravi fiscali per gli
straordinari, così da portare di fatto la giornata lavorativa
media ad un minimo di dieci o dodici ore, il che equivale a dire che ci
sono altri incidenti mortali già annunciati.
Comunque un sicuro effetto pratico questo provvedimento del governo lo
avrà, cioè consente a tutti i media di rilanciare la
campagna di propaganda tendente a presentare gli imprenditori come le
vittime e gli incompresi della nostra società.
Nella Storia nessun gruppo sociale dominante e nessuna aristocrazia
hanno mai potuto avvalersi di un supporto mitologico paragonabile a
quello di cui si è sempre giovata la imprenditoria cosiddetta
capitalistica. In questo mito, l'imprenditore capitalistico è un
instancabile creatore di ricchezza per se stesso e per tutta la
società, un pioniere che continua a svolgere questo suo
prezioso, insostituibile e provvidenziale compito nonostante che
politici e sindacalisti gli pongano ad ogni passo lacci e lacciuoli.
Come il poliziotto, anche l'imprenditore può sempre dire di
avere le mani legate da tanti malintenzionati che vogliono impedirgli
di fare il proprio dovere.
Anche quella che i media hanno etichettato come "sinistra radicale" si
adatta a questo ruolo di sponda propagandistica del vittimismo
padronale. Nel 2002 un referendum promosso da Rifondazione Comunista
sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, tendente ad allargare il
licenziamento per "giusta causa" alle imprese al di sotto dei quindici
dipendenti, servì solo ad avallare la leggenda secondo cui
l'imprenditore non avrebbe la libertà di licenziare nelle
aziende al di sopra dei quindici addetti. In realtà l'articolo
18 impedisce il licenziamento solo nei casi di discriminazione
sindacale, politica o religiosa, ma non pone nessun limite al
licenziamento per motivi economici; questo è il motivo per il
quale l'articolo 18 non risulta in alcun modo applicabile nelle piccole
imprese, dove l'imprenditore può sempre giustificare anche un
solo licenziamento con la necessità di ridurre i costi.
Storicamente l'imprenditoria capitalistica nasce, si sviluppa e si
mantiene nell'intreccio con la spesa pubblica, la committenza pubblica,
gli appalti pubblici ed i poteri pubblici, ma di tutto ciò
l'opinione pubblica non sa e non deve sapere nulla; può
sì venire a conoscenza di singoli casi, ma non è lecito
nemmeno sospettare che la regola sia proprio questa in ogni caso.
Nel suo libro "Mein Kampf", Hitler replicava a quelli che in Germania
cercavano di avere buoni rapporti con l'Unione Sovietica opponendo loro
questo argomento: che senso ha fare alleanze con un Paese in cui
l'economia pubblica non è ormai in grado di produrre nemmeno un
camion?
Si deve al politologo Giorgio Galli l'iniziativa di aver curato la
ripubblicazione del "Mein Kampf", consentendo così di scoprire
che Hitler era una vera spugna della propaganda anglo-americana, al
punto che oggi, cambiando solo la firma, egli potrebbe fare
tranquillamente l'opinionista del "Corriere della sera" o de "La
Repubblica", senza che nessuno si accorga di nulla; persino le opinioni
di Hitler sugli Ebrei, tolta qualche espressione di ostilità,
potrebbero portare comodamente la firma di un Magdi Allam,
poiché entrambi si riferiscono agli Ebrei come se si trattasse
di un unico soggetto culturale, nazionale e politico.
Come per i nostri opinionisti attuali, anche per Hitler solo la magica
mediazione dell'imprenditore privato era in grado di permettere la
transustanziazione delle materie prime in manufatti industriali, quindi
egli spedì, sicuro di sé, le sue truppe verso il fronte
russo, scoprendo troppo tardi che l'economia pubblica sovietica era in
realtà capace di produrre tutti i camion e tutte le armi
che servivano. Negli anni '20 la stampa anglo-americana, e dietro di
lei la stampa internazionale, erano compatte nel descrivere il disastro
incombente dell'economia pubblica dell'Unione Sovietica, e non solo
Hitler, ma persino seri economisti come Keynes prendevano sul serio
queste profezie catastrofiche. Poi, negli anni '30, negli Stati
Uniti il presidente Roosevelt fu invece costretto a porre sotto il
controllo pubblico un'economia privata ormai allo sbando.
D'altra parte, proprio l'esperienza del cosiddetto crollo dell'Unione
Sovietica ha indicato che è dall'interno dell'apparato statale
che sorgono le spinte affaristiche che conducono alla
ri-privatizzazione dell'economia. I funzionari pubblici possono
cioè screditare se stessi in quanto pubblici funzionari, ma solo
per accreditarsi come futuri imprenditori privati o come loro
soci/complici in affari.
È notizia di questi giorni che la guerra in Iraq è
costata agli Stati Uniti tremila miliardi di dollari. Ma questa
è solo una parte della questione, mentre l'altra può
essere così riassunta: l'apparato statale americano ha pagato
tremila miliardi alle ditte private legate a Bush, Cheney e Rumsfeld.
Prima di essere trombato, Rumsfeld ha privatizzato tutta la logistica
delle forze armate statunitensi, creando ad hoc anche delle formazioni
militari private. È quindi dall'interno dell'apparato statale
che possono essere organizzati questi colossali trasferimenti di denaro
pubblico ad aziende private, che sono presentati sotto l'etichetta
propagandistica di "liberismo".
L'affarismo nasce all'interno dei pubblici apparati, ma ha bisogno del
mito propagandistico dell'imprenditore privato per potersi giustificare
ogni volta. Questo è il motivo per il quale la mitologia
imprenditoriale viene costantemente alimentata dai media.
13 marzo 2008
In uno dei suoi discorsi elettorali, Berlusconi ha parlato della crisi
che sta arrivando dagli Stati Uniti ed ha proposto come soluzione
"lavorare di più", tanto per cominciare una ulteriore
defiscalizzazione degli straordinari che rischia di portare la giornata
lavorativa a quattordici ore, e le morti sul lavoro a cifre ora
inimmaginabili. Un ambiente politico sempre pronto a gettarsi sulle
gaffe di Berlusconi, ha accettato senza protestare l'assurdità
insita nel suo discorso: visto che gli Stati Uniti ci hanno messo nei
guai, allora continuiamo a fare quello che ci dicono.
C'è la tentazione da parte di molti critici del sedicente
"liberismo", di considerare l'incombente crisi economica come un
imminente Giorno del Giudizio, un'occasione per una collettiva presa di
coscienza che consenta di superare almeno gli aspetti più biechi
dell'attuale assetto economico mondiale. Il punto è però
che l'economia costituisce un'astrazione, un concetto di sintesi,
mentre gli affari sono cose concrete, che portano nomi, cognomi,
indirizzi e numeri di telefono.
L'affarismo non si fa fermare dalla crisi economica in sé,
perché ogni affare mobilita denaro; un denaro che è in
grado di produrre, attraverso i media, anche una realtà virtuale
pronta a giustificare ulteriori incursioni affaristiche nella spesa
pubblica.
Non è un caso quindi che le cosche affaristiche anglo-americane,
che ci hanno condotto alla situazione attuale, vengano ancora una volta
riconosciute come la leadership che ci dovrebbe guidare tra i marosi
dell'inflazione, della depressione, della miseria e della
disoccupazione. Ognuno di questi mali può essere occasione di
nuovo sfruttamento e nuovo business, e l'opinione pubblica può
essere ogni volta convinta che la migliore soluzione del male è
di affidarsi a chi l'ha provocato.
L'attuale dibattito sulla crisi deve anche mettere sull'avviso coloro
che si illudono che il raggiungimento della verità sull'11
settembre possa distruggere il mito su cui si fonda l'attuale sistema
di dominio sovra-nazionale. La cosa più probabile è
invece che una caduta della versione ufficiale sull'11 settembre venga
salutata dai media come un'ennesima vittoria della democrazia
americana. Allo stesso modo in cui la scoperta che Saddam Hussein non
possedeva armi di distruzione di massa, non ha delegittimato
l'invasione dell'Iraq, così la scoperta che Bin Laden non
c'entra nulla con l'11 settembre, non servirebbe a delegittimare
l'attuale occupazione dell'Afghanistan. Il dominio coloniale sugli
Iracheni e sugli Afgani non ha nessuna difficoltà ad essere
giustificato dai media con la necessità di educare alla
democrazia delle popolazioni che, senza la illuminata guida
dell'Occidente, ritornerebbero all'originario oscurantismo.
Persino la rivelazione che oggi è la NATO in prima persona a
gestire in Afghanistan il traffico di droga ed in Campania il traffico
di rifiuti tossici, in sé non cambierebbe nulla. Una rivelazione
del genere farebbe la fine di quelle sulle torture nella prigione di
Abu Ghraib: gli Stati Uniti dimostrano ancora una volta di essere
capaci di superare i propri errori.
La stessa NATO venti anni fa si giustificava come alleanza necessaria a
fronteggiare la minaccia sovietica, ma ora che questa minaccia non
c'è più, nemmeno la cosiddetta "sinistra radicale" si
azzarda a proporre l'uscita dell'Italia dalla NATO, e ciò per
puro timore delle accuse di antiamericanismo, che comporterebbero una
vera e propria morte civile.
In realtà l'11 settembre non è stato un mito fondante, ma
una messinscena funzionale ad uno scopo specifico del momento,
cioè consentire alla cosca Bush-Cheney-Rumsfeld di mettere le
mani sul denaro pubblico americano, superando ogni opposizione delle
altre cosche. Il vero mito fondante del dominio coloniale non sta in
questo o quell'episodio, ma in una ideologia onnipresente che non
concede mai pause né sconti: il razzismo.
Nella puntata di Report di domenica 16 marzo 2008, la comunicazione
razzistica ha raggiunto livelli di sofisticazione tali da far passare
Goebbels per un dilettante. Immagini iconografiche di un Robert Kennedy
mistico e ispirato hanno preceduto il solito servizio sullo sfacelo
amministrativo e antropologico di Napoli. L'accostamento del tutto
arbitrario tra una evocazione mitologica ed una rappresentazione
tendenziosa di dettagli grotteschi, costituisce un messaggio
subliminale di razzismo, tanto più efficace perché si
imprime nella mente come immagine invece che come concetto. Persone che
rifiuterebbero la superiorità e l'inferiorità razziale
come idee, poi le condividono come presunti "dati di fatto",
proprio perché credono di "vederle" quotidianamente nella
rappresentazione mediatica.
Se si va ad analizzare tutta la comunicazione politica di Walter
Veltroni, essa si riduce a mero culto della superiorità razziale
delle èlite americane; ma non potrebbero risultare credibili i
miti di superiorità senza l'analoga rappresentazione
dell'inferiorità, perciò il culto americanistico risulta
inscindibile dal razzismo antimeridionale. Il cosiddetto
"Occidente" è appunto una gerarchia razziale, che ha al suo
vertice gli anglo-americani ed alla sua base i popoli
meridionali. Il razzismo funziona sempre in modo bilaterale,
perciò se ci si sente superiori a qualcuno, è automatico
che poi ci si possa sentire anche inferiori a qualcun altro. Se, ad
esempio, si è antimeridionali, è molto difficile che non
si sia parallelamente dediti al culto della superiorità
anglosassone. Nel "Mein Kampf", Hitler parlava in termini
celebrativi degli Anglosassoni e, al tempo stesso, descriveva gli
Italiani meridionali come una specie degenerata e inferiore: le stesse
tesi di Milena Gabanelli, ma espresse in modo meno insinuante.
Il razzismo non regola soltanto i rapporti etnici e nazionali, ma anche
e soprattutto quelli di classe. Le classi vengono cioè fatte
percepire inconsciamente come razze, ed i mitici "imprenditori" - che
poi non "imprendono" nulla, ma si limitano a "prendere" il denaro
pubblico - si propongono non come un gruppo sociale, ma come una razza
superiore, dotata di capacità miracolistiche. Bakunin ha messo
più volte in evidenza la immediata disponibilità delle
borghesie nazionali al collaborazionismo con la colonizzazione
straniera; ciò è logico se si considera che i cosiddetti
"imprenditori" non si sentono in relazione sociale col resto della
popolazione, ma percepiscono se stessi come una razza a parte.
Il razzismo costituisce quindi una falsa coscienza generalizzata, a cui
l'affarismo può sempre fare appello. La superiorità
"occidentale" è data per scontata, quindi non si sospetta
mai che dietro la rappresentazione razzistica che i media costruiscono
contro altri popoli, possa esservi ogni volta un fine affaristico.
Anche quando ciò viene dimostrato per il passato, questa
esperienza non viene mai utilizzata come cautela per i messaggi
mediatici del presente. Il rapporto con i media rimane ingenuo,
cioè non li si coglie per quello che sono: un'arma di
distruzione di
massa.
20 marzo 2008
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