In uno dei suoi discorsi elettorali, Berlusconi ha parlato della crisi
che sta arrivando dagli Stati Uniti ed ha proposto come soluzione
"lavorare di più", tanto per cominciare una ulteriore
defiscalizzazione degli straordinari che rischia di portare la giornata
lavorativa a quattordici ore, e le morti sul lavoro a cifre ora
inimmaginabili. Un ambiente politico sempre pronto a gettarsi sulle
gaffe di Berlusconi, ha accettato senza protestare l'assurdità
insita nel suo discorso: visto che gli Stati Uniti ci hanno messo nei
guai, allora continuiamo a fare quello che ci dicono.
C'è la tentazione da parte di molti critici del sedicente
"liberismo", di considerare l'incombente crisi economica come un
imminente Giorno del Giudizio, un'occasione per una collettiva presa di
coscienza che consenta di superare almeno gli aspetti più biechi
dell'attuale assetto economico mondiale. Il punto è però
che l'economia costituisce un'astrazione, un concetto di sintesi,
mentre gli affari sono cose concrete, che portano nomi, cognomi,
indirizzi e numeri di telefono.
L'affarismo non si fa fermare dalla crisi economica in sé,
perché ogni affare mobilita denaro; un denaro che è in
grado di produrre, attraverso i media, anche una realtà virtuale
pronta a giustificare ulteriori incursioni affaristiche nella spesa
pubblica.
Non è un caso quindi che le cosche affaristiche anglo-americane,
che ci hanno condotto alla situazione attuale, vengano ancora una volta
riconosciute come la leadership che ci dovrebbe guidare tra i marosi
dell'inflazione, della depressione, della miseria e della
disoccupazione. Ognuno di questi mali può essere occasione di
nuovo sfruttamento e nuovo business, e l'opinione pubblica può
essere ogni volta convinta che la migliore soluzione del male è
di affidarsi a chi l'ha provocato.
L'attuale dibattito sulla crisi deve anche mettere sull'avviso coloro
che si illudono che il raggiungimento della verità sull'11
settembre possa distruggere il mito su cui si fonda l'attuale sistema
di dominio sovra-nazionale. La cosa più probabile è
invece che una caduta della versione ufficiale sull'11 settembre venga
salutata dai media come un'ennesima vittoria della democrazia
americana. Allo stesso modo in cui la scoperta che Saddam Hussein non
possedeva armi di distruzione di massa, non ha delegittimato
l'invasione dell'Iraq, così la scoperta che Bin Laden non
c'entra nulla con l'11 settembre, non servirebbe a delegittimare
l'attuale occupazione dell'Afghanistan. Il dominio coloniale sugli
Iracheni e sugli Afgani non ha nessuna difficoltà ad essere
giustificato dai media con la necessità di educare alla
democrazia delle popolazioni che, senza la illuminata guida
dell'Occidente, ritornerebbero all'originario oscurantismo.
Persino la rivelazione che oggi è la NATO in prima persona a
gestire in Afghanistan il traffico di droga ed in Campania il traffico
di rifiuti tossici, in sé non cambierebbe nulla. Una rivelazione
del genere farebbe la fine di quelle sulle torture nella prigione di
Abu Ghraib: gli Stati Uniti dimostrano ancora una volta di essere
capaci di superare i propri errori.
La stessa NATO venti anni fa si giustificava come alleanza necessaria a
fronteggiare la minaccia sovietica, ma ora che questa minaccia non
c'è più, nemmeno la cosiddetta "sinistra radicale" si
azzarda a proporre l'uscita dell'Italia dalla NATO, e ciò per
puro timore delle accuse di antiamericanismo, che comporterebbero una
vera e propria morte civile.
In realtà l'11 settembre non è stato un mito fondante, ma
una messinscena funzionale ad uno scopo specifico del momento,
cioè consentire alla cosca Bush-Cheney-Rumsfeld di mettere le
mani sul denaro pubblico americano, superando ogni opposizione delle
altre cosche. Il vero mito fondante del dominio coloniale non sta in
questo o quell'episodio, ma in una ideologia onnipresente che non
concede mai pause né sconti: il razzismo.
Nella puntata di Report di domenica 16 marzo 2008, la comunicazione
razzistica ha raggiunto livelli di sofisticazione tali da far passare
Goebbels per un dilettante. Immagini iconografiche di un Robert Kennedy
mistico e ispirato hanno preceduto il solito servizio sullo sfacelo
amministrativo e antropologico di Napoli. L'accostamento del tutto
arbitrario tra una evocazione mitologica ed una rappresentazione
tendenziosa di dettagli grotteschi, costituisce un messaggio
subliminale di razzismo, tanto più efficace perché si
imprime nella mente come immagine invece che come concetto. Persone che
rifiuterebbero la superiorità e l'inferiorità razziale
come idee, poi le condividono come presunti "dati di fatto",
proprio perché credono di "vederle" quotidianamente nella
rappresentazione mediatica.
Se si va ad analizzare tutta la comunicazione politica di Walter
Veltroni, essa si riduce a mero culto della superiorità razziale
delle èlite americane; ma non potrebbero risultare credibili i
miti di superiorità senza l'analoga rappresentazione
dell'inferiorità, perciò il culto americanistico risulta
inscindibile dal razzismo antimeridionale. Il cosiddetto
"Occidente" è appunto una gerarchia razziale, che ha al suo
vertice gli anglo-americani ed alla sua base i popoli
meridionali. Il razzismo funziona sempre in modo bilaterale,
perciò se ci si sente superiori a qualcuno, è automatico
che poi ci si possa sentire anche inferiori a qualcun altro. Se, ad
esempio, si è antimeridionali, è molto difficile che non
si sia parallelamente dediti al culto della superiorità
anglosassone. Nel "Mein Kampf", Hitler parlava in termini
celebrativi degli Anglosassoni e, al tempo stesso, descriveva gli
Italiani meridionali come una specie degenerata e inferiore: le stesse
tesi di Milena Gabanelli, ma espresse in modo meno insinuante.
Il razzismo non regola soltanto i rapporti etnici e nazionali, ma anche
e soprattutto quelli di classe. Le classi vengono cioè fatte
percepire inconsciamente come razze, ed i mitici "imprenditori" - che
poi non "imprendono" nulla, ma si limitano a "prendere" il denaro
pubblico - si propongono non come un gruppo sociale, ma come una razza
superiore, dotata di capacità miracolistiche. Bakunin ha messo
più volte in evidenza la immediata disponibilità delle
borghesie nazionali al collaborazionismo con la colonizzazione
straniera; ciò è logico se si considera che i cosiddetti
"imprenditori" non si sentono in relazione sociale col resto della
popolazione, ma percepiscono se stessi come una razza a parte.
Il razzismo costituisce quindi una falsa coscienza generalizzata, a cui
l'affarismo può sempre fare appello. La superiorità
"occidentale" è data per scontata, quindi non si sospetta
mai che dietro la rappresentazione razzistica che i media costruiscono
contro altri popoli, possa esservi ogni volta un fine affaristico.
Anche quando ciò viene dimostrato per il passato, questa
esperienza non viene mai utilizzata come cautela per i messaggi
mediatici del presente. Il rapporto con i media rimane ingenuo,
cioè non li si coglie per quello che sono: un'arma di
distruzione di
massa.
20 marzo 2008