Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
La Legge non è nata per regolare la società ma perché qualcuno potesse detenere il privilegio di essere al di sopra delle regole. Gli occhi storti e la bilancia truccata non sono quindi deviazioni ma vocazioni della Giustizia.
Le eurocrazie possono vantare una totale immunità giudiziaria, ciò in nome della loro autonomia dai singoli Stati. Ma se ciò spiegherebbe il motivo per cui le varie magistrature nazionali non possono procedere nei loro confronti, non chiarisce assolutamente perché non possa farlo una Corte di Giustizia europea. Al contrario, i ceti politici nazionali possono diventare un regolare bersaglio della magistratura. Non appena in corsa per il ruolo di segretario del PD, Nicola Zingaretti si è ritrovato sotto inchiesta per finanziamento illecito. Ovviamente un giornale “amico” come il settimanale “l’Espresso” è corso a riferire la notizia.
La lettura unilaterale della Legge individua la corruzione sempre e solo nel passaggio di denaro. Le “porte girevoli” tra incarichi pubblici ed incarichi privati sfuggono invece al giudizio, sebbene il nesso tra un certo comportamento nel pubblico ed il successivo “premio” nel privato risulti sin troppo evidente.
L’accusa rivolta a Zingaretti non è grave e probabilmente si sgonfierà ma, intanto, è servita ad abituare la pubblica opinione all’idea che anche il neo-segretario del PD possa diventare uno dei tanti indagati cronici della nostra scena politica; oltretutto il passato di amministratore di Zingaretti potrà offrire infiniti spunti per inchieste giudiziarie. L’atteggiamento feticistico che il politicorretto impone nei confronti della magistratura, impedisce di cogliere la tempestività intimidatoria di certe iniziative giudiziarie. I politici si accontentano della gratificazione di darsi reciprocamente del corrotto e, ancora una volta, l’auto-delegittimazione della politica che ne deriva, suggerisce che sia il governo “tecnico” la soluzione necessaria e inevitabile ai mali della Nazione. Qual è il motivo per cui la lobby della deflazione non ritiene di considerarsi soddisfatta della collaborazione di una politica così prona?
La risposta sta nella delicatezza e fragilità del meccanismo deflazionistico, che va continuamente rinforzato e puntellato. Oltre i “Bocconiani” ed i pseudo-liberisti puri e duri dell’Istituto Bruno Leoni, vi sono anche economisti “critici”, pronti a contestare all’attuale governo di non aver messo in campo vere politiche “anticicliche”. In questa idea del “ciclo economico” l’economia dimostra i propri limiti come scienza, al di là del fatto che venga interpretata in modo critico. Anche tra i “critici” il mainstream riesce a far breccia, insinuando l’idea che la deflazione sia un effetto di debolezze strutturali del sistema economico. Il fatto che la deflazione costituisca uno specifico interesse dei grandi gruppi finanziari, con l’annesso lobbying che ciò comporta, è una percezione ancora estranea alla scienza economica “critica”. Basterebbe invece considerare quanto hanno fruttato agli “investitori istituzionali” dieci anni di stagnazione italiana, per farsi venire qualche dubbio. È chiaro che questa pacchia può durare soltanto se c’è una costante opera di lobbying che si incarichi di far apparire l’interesse di una parte come necessità ineluttabile.
Una lunga stagnazione economica può essere mantenuta soltanto con una serie di shock deflazionistici, cioè di energiche compressioni della domanda e di veri e propri sabotaggi del sistema economico, oltre che dei suoi supporti istituzionali e logistici. Già dall’epoca di Gentiloni i governi politici non osavano più varare “riforme strutturali”; e senza “riforme strutturali” qualunque sistema economico rischia di imbroccare la propria strada per rimettersi in piedi. L’effetto deflazionistico delle “riforme strutturali” consiste anche nel caos che determinano nella Pubblica Amministrazione e nella Scuola, cioè i supporti istituzionali di qualsiasi attività economica.
La sudditanza ideologica dell’attuale governo alla lobby della deflazione la si è potuta constatare quando anche l’ultimo ministro dell’Istruzione, Bussetti, ha avvertito il bisogno di correre ad avallare i protocolli del lobbying OCSE che imperano nel suo ministero, scompaginando le regole in modo da impedire che il sistema si riassesti. Le riforme e le ordinanze ministeriali sono polpette avvelenate lanciate ad un corpo docente del tutto privo di sospetti circa il loro vero scopo. Del resto Pierluigi Bersani nel 2013 aveva dichiarato che la vera riforma della Scuola sarebbe di lasciarla in pace per qualche anno (e quell’attimo di lucidità deve essergli costato la Presidenza del Consiglio).
Allo stesso modo, le “riforme del lavoro”, le precarizzazioni, contribuiscono non solo ad abbassare i salari, ma sono anche un disastro per la produttività, quindi l’effetto deflazionistico risulta massimizzato. La dicotomia tra precarizzazione e produttività è stata formalizzata anche dalla giurisprudenza, poiché numerose sentenze, anche della Cassazione, hanno confermato che il lavoratore a tempo determinato non ha alcun diritto ad accedere ai premi di produzione.
Il sedicente “liberismo” (in realtà interventismo statale per favorire deflazione e finanziarizzazione) non prevede e non tollera che l’economia reale possa essere lasciata in pace a lungo senza gli opportuni shock deflattivi che rimettano in campo i potentati finanziari, i grandi “prestatori” che vengono a “salvare” gli Stati. Si tratta del solito schema per il quale una fasulla super-emergenza deve necessariamente giustificare un supergoverno “tecnico” che possa dedicarsi indisturbato e nel plauso mediatico al drastico taglio del welfare e dei redditi da lavoro e da pensione.
Il Fondo Monetario Internazionale è un’istituzione benemerita che lavora instancabilmente da settantacinque anni per la salvezza dell’Umanità. Purtroppo le solite menti astiose e sospettose attribuiscono al FMI ogni genere di crimine e nefandezza, accusandolo di essere la maggiore agenzia di lobbying delle multinazionali. Tanta ingenerosità dovrebbe arrendersi di fronte alla constatazione che attualmente la maggiore preoccupazione delle anime belle del FMI è il riscaldamento globale dovuto alle emissioni di CO2. Il FMI ha addirittura svolto un ruolo pionieristico nella segnalazione e nella denuncia di questa emergenza ecologica. È infatti il FMI, dall’alto della sua illuminata preveggenza, a dettare al mondo l’agenda delle emergenze.
Non tutti i climatologi sono d’accordo nel considerare il riscaldamento globale una vera emergenza. Alcuni fanno osservare che i rilevamenti non possono essere ritenuti come attendibili, poiché solo da pochi decenni sono operati con la dovuta accuratezza. Altri ancora ricordano che i cambiamenti climatici, anche drastici, sono frequenti, che ce ne sono stati di rilevanti persino in epoca storica, come nel XIV secolo; quindi non possono essere scientificamente individuati come effetto di attività antropiche.
Comunque stiano le cose, è un fatto che le emissioni di CO2 non possono essere considerate innocue per la salute pubblica, perciò misure per il loro contenimento, o eliminazione, dovrebbero essere bene accette. Il FMI ha escogitato a riguardo una soluzione semplice e geniale: la “carbon tax”, cioè una tassazione delle emissioni di carbonio che disincentivi le tecnologie più inquinanti e incentivi invece il passaggio ad energie e processi produttivi più puliti.
I soliti scontenti fanno notare che la “carbon tax” si risolve in un finanziamento ai ricchi da parte dei poveri. Sono infatti i poveri a servirsi di tecnologie e macchine obsolete e inquinanti, perciò tassare le emissioni di CO2 vuol dire spremere maggiormente chi ha già più difficoltà a mettersi al passo, per finanziare invece coloro che potrebbero già permettersi di farlo senza sforzo. Questo trasferimento di soldi dai poveri ai ricchi però non è un dato che possa scoraggiare le anime belle dell’ecologismo puro e duro; anzi, far sì che i poveri diventino ancora più poveri li renderà meno vulnerabili alle lusinghe corruttrici del consumismo. E poi l’importante è che il pianeta sia salvo.
Sennonché la “carbon tax” comporta anche altri piccoli problemi. I brevetti delle nuove tecnologie “pulite” sono infatti detenuti soprattutto da multinazionali ed ogni provvedimento di “carbon tax” determina un’euforia di Borsa con un immediato aumento del valore azionario delle aziende che sono in possesso di quei brevetti. L’intento del FMI non era sicuramente quello di arricchire ancora di più le multinazionali, ma questa indesiderata e sfortunata circostanza viene cinicamente strumentalizzata dai soliti inguaribili complottisti nutriti dalla cultura del sospetto.
E poi l’aumento del valore azionario delle multinazionali non sarebbe questo gran male, se non fosse per un minuscolo dettaglio. Il dettaglio è che più aumenta il valore dei brevetti, più aumenta il loro costo per chi voglia accedervi. Visti i prezzi proibitivi delle nuove tecnologie, i Paesi più poveri devono persistere ad usare tecnologie obsolete, perciò l’inquinamento aumenta inesorabilmente.
Una soluzione semplice e diretta potrebbe essere quella di “socializzare” le tecnologie più avanzate liberalizzandone i brevetti. Per compensare le multinazionali del loro altruistico sacrificio, i governi potrebbero concedere loro consistenti sgravi fiscali. Sfortunatamente c’è ancora un altro problema, visto che già le multinazionali praticamente non pagano tasse, grazie non solo ai tradizionali paradisi fiscali, ma anche al fatto che oggi tutti gli Stati si stanno trasformando in paradisi fiscali per multinazionali. I governi hanno quindi già rinunciato a qualsiasi potere contrattuale nei confronti delle multinazionali, che non trovano così alcun incoraggiamento per compiere qualche sacrificio. Se hai dei privilegi è impossibile indurti a far sacrifici: ecco perché i sacrifici li devono fare solo i poveri. Il risultato è che ci teniamo sia la “carbon tax” con il suo assistenzialismo per ricchi, sia l’inquinamento da CO2. Sia chiaro che tutto ciò è colpa del destino cinico e baro, non certo del FMI.
Il prestigioso settimanale britannico “The Economist” condivide l’altruistico entusiasmo del FMI per la “carbon tax”, anche se mette in evidenza il grave ostacolo dell’impopolarità di questa tassa. Occorre quindi un apparato pubblicitario per “vendere“ alle masse la ”carbon tax”, rendendola “simpatica” e accattivante, dandole una connotazione di “sinistra”, utilizzando allo scopo un linguaggio e delle icone giovanilistiche e “rivoluzionarie”, sfruttando al meglio il senso di colpa delle vecchie generazioni che lasciano ai giovani solo macerie.
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