Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Al regista ed all’interprete del film “Berlinguer, la grande ambizione”, Nanni Moretti ha rivolto la seguente battuta: “Secondo me se Andrea Segre ed Elio Germano avessero avuto vent’anni nel 1973, avrebbero odiato il compromesso storico”. Ma, prima di amare o odiare il compromesso storico, sarebbe stato utile capire di cosa si trattava, poiché a tutt’oggi non è affatto chiaro.
La linea del cosiddetto compromesso storico fu tracciata da Enrico Berlinguer nel 1973 in tre articoli consecutivi e complementari sulla rivista “Rinascita”; articoli che partivano da un’analisi della vicenda del golpe in Cile. Nel primo articolo Berlinguer affermava: “Anzitutto, gli eventi cileni estendono la consapevolezza, contro ogni illusione, che i caratteri dell’imperialismo, e di quello nord-americano in particolare, restano la sopraffazione e la jugulazione economica e politica, lo spirito di aggressione e di conquista, la tendenza a opprimere i popoli e a privarli della loro indipendenza, libertà e unità ogni qualvolta le circostanze concrete e i rapporti di forza lo consentano.” Dall’analisi di Berlinguer risulta quindi che l’ostacolo principale da superare per ogni politica socialista è la sopraffazione imperialista, in particolare quella statunitense, che si esercita sia con l’aggressione diretta, sia facendo da sponda all’eversione interna.
Nel secondo articolo Berlinguer prospettava la soluzione al problema di come contrastare l’ingerenza imperialista: “Ecco perché noi parliamo non di una «alternativa di sinistra» ma di una «alternativa democratica» e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico.”
Insomma, secondo il Berlinguer del 1973, per non soccombere all’aggressione imperialista il movimento progressista avrebbe dovuto allargare il più possibile la sua base sociale e politica; ciò, in un paese come l’Italia, comportava un’intesa anche con le masse cattoliche; ovvero, in termini più espliciti, con il partito della Democrazia Cristiana. Ma se avete capito che il cosiddetto compromesso storico consisteva in un antimperialismo iper-prudente e basato su una politica di gradualità e di alleanze, preparatevi ad una delusione.
Non erano passati neppure tre anni dalle sue riflessioni sulla tragedia cilena e Berlinguer, in un’intervista sul “Corriere della sera” del giugno 1976, affermava: “Io penso che, non appartenendo l’Italia al Patto di Varsavia, da questo punto di vista c’è l’assoluta certezza che possiamo procedere lungo la via italiana al socialismo senza alcun condizionamento. Ma questo non vuol dire che nel blocco occidentale non esistano problemi: tanto è vero che noi ci vediamo costretti a rivendicare all’interno del Patto Atlantico, patto che pur non mettiamo in discussione, il diritto dell’Italia di decidere in modo autonomo del proprio destino”. Il concetto veniva poi ribadito: “Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico «anche» per questo, e non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua, ma vedo che anche di qua ci sono seri tentativi per limitare la nostra autonomia.”
Ricapitolando, in tre anni Berlinguer era passato dal concetto di aggressione imperialista USA a quello molto più blando di “seri tentativi di limitare la nostra autonomia”; comunque Berlinguer si sentiva “più sicuro stando di qua”, perciò egli proponeva di restare nella NATO non soltanto per evitare una destabilizzazione dei processi di distensione, ma perché riscontrava addirittura una garanzia nell’appartenenza dell’Italia alla NATO, tanto da avere più possibilità di costruire il socialismo. Insomma, nel 1976 è sparito l’imperialismo USA; inoltre il braccio USA in Europa, la NATO, pur non essendo immune da critiche, comunque svolgerebbe una funzione di sicurezza per i suoi membri. Ma, visto che nella visione di Berlinguer non c’era più l’aggressione imperialista USA, allora cadeva anche la motivazione da lui addotta nel 1973 per giustificare la politica del compromesso storico del PCI con le “masse cattoliche”, cioè con la DC.
A ben vedere, è stato lo stesso Berlinguer ad uccidere la propria creatura, il compromesso storico con i cattolici, se non nella culla, già mentre questa muoveva i primi passi. Il compromesso storico infatti non era più con la DC ma con la NATO (come si dice: ubi maior minor cessat); dall’accordo col servo, la DC, si passava direttamente alla ricerca di un accordo col padrone, cioè la NATO. Il nemico del 1973 (l’imperialismo americano, quello che aveva ucciso Allende) nel 1976 era diventato un amico, anzi non era più neppure imperialismo ma sicurezza. Quanto ad Allende poi: ma chi lo conosce?
Ma, a questo punto, c’è un’altra domanda: è stato Berlinguer a santificare la NATO, oppure è la NATO ad aver santificato Berlinguer ed oggi a imporcelo come icona del politicamente corretto? La domanda non è astratta o arbitraria; anzi, è strano che certi dettagli stridenti non siano stati sottolineati a suo tempo. Dal rinunciare all’obbiettivo di uscire dalla NATO perché i rapporti di forza interni e internazionali non lo consentono al voler restare nella NATO per la libertà che questa offrirebbe, non c’è una sfumatura, c’è invece un abisso dal punto di vista politico e strategico; che è poi anche l’abisso che intercorre tra il parlare con un minimo di serietà o prenderti per il culo. Ma è ancora più importante notare l’approccio soggettivistico con cui Berlinguer saltava quell’abisso. Nel proporre l’accordo con la DC, Berlinguer aveva rispettato i rituali, ed anche le ipocrisie, del centralismo democratico; invece tre anni dopo, nel caso dell’accettazione della NATO, Berlinguer aggirava le procedure interne e metteva il partito davanti al fatto compiuto con un’intervista al quotidiano mainstream. Risultava anche inedito per il suo ruolo di segretario di partito fare certe dichiarazioni così impegnative usando il verbo coniugato in prima persona: “Io penso che, non appartenendo l’Italia al Patto di Varsavia, da questo punto di vista c’è l’assoluta certezza che possiamo procedere lungo la via italiana al socialismo senza alcun condizionamento” … “Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico” ... “Mi sento più sicuro stando di qua”. Si vede che la NATO, entità divina, infonde il carisma ai suoi apostoli con la discesa dello Spirito Santo.
Il gossip ha attribuito le sortite di Elon Musk contro i magistrati italiani alla sua infatuazione per Giorgia Meloni. Perché no? In fondo sono entrambi personaggi costruiti su archetipi fiabeschi. Lei è la Cenerentola della Garbatella, perseguitata dalla sorellastra invidiosa Elly Schlein, ma che riesce comunque a farsi invitare al Gran Ballo dove tocca il cuore dei potenti e magari trova pure il Principe Azzurro. Elon Musk può rivestire i panni del Principe Azzurro, ma vanta soprattutto una carriera da ibrido mitologico: come padrone di Tesla dà vita e forma ad uno dei feticci preferiti dal politicamente corretto in vena di emergenzialismo climatico, cioè l’auto elettrica; come padrone di “X” cavalca il politicamente scorretto seminando battute impertinenti quanto irrilevanti, ma che sono comunque sufficienti a gratificare quella parte di opinione pubblica che crede di potersi opporre alle oligarchie facendo il tifo per qualche oligarca più scavezzacollo. Pur essendo un personaggio mediaticamente controverso, la miliardariolatria in versione Musk trionfa nel talk-show, riuscendo a mettere d’accordo il diavolo e l’acqua santa, infatti Marco Travaglio e Italo Bocchino concordano nel definire Musk un “genio”. Il concetto di genialità risulta piuttosto dilatabile, tanto che, volendo, potrebbe essere applicato persino ad Antonio Tajani.
In una cosa però Musk è sicuramente bravo, cioè nel percepire sussidi governativi, quindi a farsi assistere dal contribuente. Musk ci tiene a precisare che incassa meno sussidi governativi della multinazionale Boeing (quella non la batte nessuno), ma neanche lui scherza. Nonostante le scarse performance di vendita e pur avendo più volte sfiorato la bancarotta, Tesla ha una capitalizzazione di Borsa comparabile con quella dei maggiori gruppi automobilistici come Toyota, e ciò lo si deve appunto ai sussidi governativi che eccitano i sedicenti “investitori”. Anche l’altra creatura di Musk, SpaceX, prospera con gli appalti delle agenzie governative come Pentagono e NASA, le stesse agenzie che hanno creato le tecnologie che i vari Musk, Bill Gates, Steve Jobs, Mark Zuckerberg hanno commercializzato, spacciandole come proprie invenzioni ad un’opinione pubblica credulona. Ma soprattutto Musk per le sue imprese spaziali percepisce miliardi in finanziamenti pubblici, dati non in cambio di prestazioni ma così sulla fiducia, per incoraggiamento. In chiave di strumentale polemica elettorale la CNN ha rinfacciato a Musk i dati ufficiali che certificano la sua dipendenza dal contribuente povero, dato che i ricchi come lui pagano pochissime tasse, e Trump promette di fargliene pagare meno ancora. La CNN però si è guardata bene dal trarre le logiche conclusioni riguardo a tutto questo assistenzialismo per ricchi, e cioè che i mitici “capitalisti privati” sono in realtà dei boiardi del denaro pubblico, che fanno da sponda esterna a lobby d’affari che occupano istituzioni solo formalmente pubbliche.
Ci sono purtroppo settori strutturalmente deficitari e quindi talmente dipendenti dal denaro pubblico che reggervi la mistificazione del capitalismo privato non è per niente facile. Per l’energia nucleare infatti non si è riusciti ancora a confezionare per i media qualche icona pseudo-imprenditoriale “privata” paragonabile a Musk. Giorgia Meloni cerca di rilanciare il nucleare aggrappandosi ai soliti trucchi retorici, come il rivendicare un approccio “pragmatico” nei confronti degli “ideologi”. Pragmatica com’è, Giorgia evita però di dire dove prendere la caterva di miliardi necessaria ad avviare la produzione di energia nucleare.
Il lobbying nucleare cerca di creare una suggestione evocando fantasmatiche figure di capitalisti privati che sarebbero pronti ad investire nel nucleare. La “startup” Newcleo viene promossa con gli stessi trucchi retorici meloniani sulla necessità di infrangere i tabù ideologici antinucleari; ma poi, quando si tratta di esibire quanto si è effettivamente in grado di investire, si balbetta la cifra di quattrocento milioni, che per il nucleare è come dire niente. La parola “startup” (nuova impresa) già di per sé sa di presa per i fondelli, ma comunque un po’ di finzione di investimento privato è utile per conferire un alibi ad un settore che ha anzitutto bisogno di non spaventare il contribuente, non facendogli capire che alla fine sarà sempre lui a pagare il conto e non il mitico “mercato”. Ecco allora che Newcleo viene accreditata chiamandola a fare da partner privato addirittura a Fincantieri per progetti “ecologici” di trazione navale nucleare. La sproporzione tra i due soggetti della partnership è tale da rendere evidente che il privato sta lì solo per creare l’illusione che non si tratti solo di denaro pubblico.
Contrariamente a ciò che viene fatto credere, quanto più un affare è antieconomico tanto più può essere lucroso per una lobby, poiché lo scopo non è produrre beni ma creare una voragine in cui riversare denaro pubblico da parassitare. Il lobbying d’affari non attiene all’economia reale ma alla pura fisica del denaro, in termini di massa e velocità del denaro stesso. Se si considera poi che il nucleare è avvolto dal segreto di Stato in ogni sua fase (costruzione delle centrali, produzione dell'energia, smaltimento delle scorie, smantellamento delle centrali obsolete) si comprende che è praticamente impossibile un controllo sui costi e sui conti. Il problema è che il nucleare comporta troppe perdite per sostenere la finzione del privato in modo da creare icone di “privati” alla Musk da propinare al pubblico. L’azienda elettrica francese EDF è una SpA interamente a capitale pubblico, cioè il governo francese ne è l’unico azionista, determinando una pretestuosa quanto schizofrenica dissociazione tra diritto pubblico e diritto privato. Questa doppia parte in commedia dimostra tutta l’artificiosità del dualismo tra pubblico e privato. EDF ha salutato il primo anno di bilancio positivo dopo anni bui di deficit dovuti proprio alla costosissima manutenzione delle centrali nucleari. Il governo francese annuncia trionfalmente che, dopo avervi rinunciato per molti anni, riscuoterà di nuovo i propri dividendi per il possesso delle azioni di EDF. Però lo farà dal 2026; quindi c’è sempre tempo per ripensarci.
Ad onta della narrativa rassicurante lo scorso anno EDF non è riuscita neppure lontanamente a colmare le perdite degli anni precedenti. La guerra in Ucraina ha migliorato le prospettive di vendita per l’energia delle centrali nucleari; inoltre c’è un allarmismo mediatico che oggi enfatizza il contenzioso tra Russia e Austria, in modo da tenere alto il prezzo del gas. D’altra parte la produzione industriale e la relativa domanda di energia sono in generale diminuzione, perciò non è detto che l’allarmismo mediatico e la speculazione di Borsa riescano a tenere alti prezzi e profitti. La prospettiva di salvezza per EDF si basa perciò sugli esborsi dell’azionista governativo, che spreme il contribuente per colmare i buchi di bilancio e non riscuote mai quando si affaccia qualche piccolo profitto, cosa che sarebbe impensabile per gli azionisti privati. Pensiamo ad esempio agli Elkann, che non appena riscuotono i sussidi governativi immediatamente li distribuiscono in dividendi agli azionisti.
Ringraziamo Mario C. “Passatempo”
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