Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Le elezioni presidenziali americane costituiscono una di quelle circostanze nelle quali l’opinione pubblica europea non riesce a fare a meno di appassionarsi e, persino, di suggestionarsi.
Il “caso” mediatico delle attuali primarie presidenziali negli USA è rappresentato da un candidato repubblicano, il miliardario Donald Trump, speculatore immobiliare e divo televisivo, pervenuto agli onori delle cronache per le sue posizioni “islamofobe”. In base ai punti di vista, Trump viene percepito come un “pericolo” o come una “speranza”, senza peraltro preoccuparsi di sostanziare più di tanto queste percezioni.
Da un osservatorio europeo è difficile valutare se e quanto siano pilotate, o enfatizzate, le manifestazioni di giubilo o di ostilità suscitate da Trump. Si dice che dietro le manifestazioni ostili vi sia la mano di un altro miliardario, altrettanto famoso, o famigerato, George Soros. Quel che è certo, è che Soros ha dichiarato apertamente la sua
avversione verso Trump, accusandolo di lavorare indirettamente per l’ISIS.
Abbiamo quindi da un parte un miliardario reazionario e, dall’altra, un miliardario “progressista” che si confrontano sull’arena mondiale, come a dire che solo un miliardario può contrastarne un altro e fare la differenza.
Nella società attuale la super-ricchezza ha assunto quasi una valenza mistica e i miliardari sono i nuovi santi. Il miliardario è una figura che emana un alone di potenza personale e di spregiudicata libertà di azione, come se i soldi non fossero la risultante degli intrecci di potere e di lobbying in cui sono coinvolti e da cui sono controllati.
Soros è l’uomo che alla fine degli anni ‘80 spese un fiume di denaro per finanziare le “rivoluzioni colorate” nell’Europa dell’Est, e che si presentò poi a riscuotere il conto nel 1992 dai contribuenti britannici e italiani, speculando sulla sterlina e sulla lira: una sorta di riscossione di una tassa per finanziare l’anticomunismo.
Soros è notoriamente un collaboratore della CIA che agisce per conto di quel potentato sia sui mercati finanziari che sugli scenari di politica estera; ma non si comprende perché invece i miliardi di Trump dovrebbero avere una provenienza trasparente, dato che dire grosso business significa quasi sempre dire servizi segreti. Neppure si capisce per quale motivo il contrasto Soros-Trump non debba essere catalogato come il solito gioco delle parti finalizzato ad offrire al pubblico alternative fasulle, in questo caso con quale miliardario schierarsi.
Con la vicenda del Buffone di Arcore anche in Italia abbiamo assistito all’euforia delle “destre antagoniste”, pronte a bersi senza pudori la fiaba del miliardario anti-sistema, del “cavaliere libero e selvaggio” in guerra con l’establishment.
In parte la drammatizzazione artificiosa dello scontro delle candidature presidenziali americane corrisponde a delle ovvie necessità di propaganda elettorale. Hillary Clinton è una candidata che manifesta troppi tratti di impresentabilità: i suoi sfacciati legami con l’impopolare Goldman Sachs, i suoi evidenti segni di squilibrio mentale, aggravato probabilmente da una qualche forma di tossicodipendenza. Occorreva disperatamente opporle qualcosa di peggio, qualcosa che spingesse i progressisti delusi a compattarsi, magari controvoglia, dietro di lei. Insomma, indurre a votare Clinton turandosi il naso. Da qui la necessità di esagerare la portata del personaggio Trump. Del resto in passato la propaganda repubblicana ha fatto lo stesso, presentando Bill Clinton come un “pacifista” ed Obama come un “socialista”.
A questi aspetti fisiologici dell’artificiosa drammatizzazione elettorale, si sovrappongono però le attese speranzose - oppure, al contrario, i timori e le pose indignate - delle opinioni pubbliche in Europa. La suggestione si alimenta così di dettagli insignificanti: la battuta ammiccante dello stesso Trump sull’11 settembre, oppure la mezza dichiarazione di elogio da parte di Putin nei confronti di Trump. Lo stesso Putin è un personaggio di cui le “destre antagoniste” esagerano la portata. Putin non è certo un fantoccio come Obama e neppure una segretaria d’azienda come la Merkel, ma la sua vera attenzione va agli affari di Gazprom, ed il suo impegno a contrastare l’aggressività della NATO è il minimo indispensabile per non esasperare i militari russi e scongiurare un loro colpo di Stato.
Si vuol vedere a tutti i costi ciò che non c’è; e non si tiene conto del fatto che una comunicazione mistificatoria può anche utilizzare come esca qualche brandello di verità o di buonsenso sparso qua e là. Ma tante mezze verità possono comunque comporre una menzogna intera.
La rappresentazione del mondo offerta da Trump rientra a pieno titolo nel vittimismo occidentalistico, nella fiaba dell’Occidente “troppobuonista” perennemente sotto attacco da parte di terroristi, immigrati e dittatori. Sulle questioni concrete Trump non esibisce infatti alcun anticonformismo, in particolare per ciò che riguarda il rapporto con Israele. Trump continua tranquillamente a fare del terrorismo sul nucleare iraniano, in linea con l’establishment repubblicano. La polemica di Trump con un altro candidato repubblicano, Marco Rubio, è diventata poi una gara a chi dei due fosse più filo-israeliano.
Le destre europee “antagoniste” e di taglio “anti-americano” fanno entusiasticamente il tifo per Trump e paventano addirittura che sia assassinato. Queste destre dimostrano così la loro persistente dipendenza dalla mitologia USA, compresa l’illusione che la salvezza possa giungere da una nuova leadership americana.
In realtà, quale che sia il presidente degli USA, egli deve muoversi in un percorso già tracciato da lobby molto più potenti di lui, ed è strano che, nonostante le innumerevoli esperienze passate, si debba essere costretti ogni volta a ricordarlo. Il problema è che queste “destre antagoniste” hanno ormai assunto un peso assolutamente sproporzionato rispetto alle loro effettive capacità critiche, ma la responsabilità di ciò è delle cosiddette “sinistre”.
Nella vicenda siriana la denuncia del ruolo imperialistico, destabilizzante e aggressivo della NATO e dei suoi alleati è stata annacquata anche dagli esponenti delle “sinistre radicali”, e ciò solo per il timore di poter apparire favorevoli ad Assad ed a Putin. Non sorprende a questo punto che anche una frasetta di Trump sulla preferibilità di Assad rispetto all’ISIS abbia potuto essere spacciata come una pungente critica alla politica estera USA.
Dato che i dubbi circa la presunta “anomalia” di Trump comunque si fanno strada, da “sinistra” non poteva mancare il cosiddetto argomento “ad Hitlerum”, cioè: attenti a sottovalutare Trump perché anche Hitler a suo tempo fu sottovalutato. Se Hitler fu sottovalutato è ben strano, visto che aveva tentato un colpo di Stato già nel 1923 in Baviera, e che poi si era messo a capo di una formazione paramilitare di assassini professionisti, le SA. C’era, evidentemente, la consegna di sottovalutarlo, allo stesso modo in cui oggi c’è la consegna di sopravvalutare Trump.
Lo scorso anno il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi ha rischiato seriamente la santificazione.
Molti commentatori, da Eugenio Scalfari a Toni Negri, hanno contribuito a questo tentativo di elevazione alla gloria degli altari, sciogliendo laudi ai “quantitative easing”, cioè agli acquisti di titoli di Stato e di titoli bancari da parte della BCE. Ciononostante il mito di Draghi continua a perdere colpi. Anche se i supporter di Draghi incalzano gli scettici mettendoli in guardia contro i nefasti demoni del nazionalismo e del “sovranismo”, si fa strada l’idea che nazionalismo e “sovranismo” non c’entrino proprio nulla e che si tratti semplicemente di buonsenso.
Il sospetto che Draghi ci stia prendendo per i fondelli è infatti basato sulla constatazione delle sue contraddizioni. Da un lato Draghi rivendica di aver fatto la propria parte per evitare la stagnazione dell’economia e dei prezzi, dall’altro lato egli persiste ad “invitare” i governi europei a fare le “riforme”, cioè provvedimenti che vanno inevitabilmente proprio nel senso della stagnazione e della deflazione. Ma le riforme non sono già state fatte? Sì, ma erano quelle riforme lì, ed invece bisogna ancora fare quelle riforme là. Le riforme non finiscono mai.
Negli ultimi tempi le critiche nei confronti del sistema euro hanno acquistato in lucidità, ed alcuni dei commentatori più incisivi non considerano più il problema euro in termini europei ma “atlantici”. Che l’euro si regga ormai esclusivamente per volere della NATO, cioè degli USA, è un’evidenza che comincia a fare proseliti. La conseguenza è che i critici dell’euro sperano che le alte sfere del potere USA prendano a considerare l’ipotesi che i costi per loro del sistema euro rischino di diventare troppo alti, e quindi si consenta uno svincolo non traumatico dalla disciplina monetaria europea.
In realtà, visto che l’euro viene fatto sopravvivere per compattare in funzione anti-russa quei Paesi europei che avrebbero il maggiore interesse ad un organico partenariato commerciale con la Russia, è proprio al fronte russo che occorre guardare per capire le prospettive.
Se la stagnazione economica causata dall’euro dovesse far cadere ulteriormente i prezzi del petrolio, il potere di corruzione di Gazprom sarebbe ulteriormente ridimensionato, quindi si farebbe concreta l’ipotesi di un colpo di Stato da parte di quei militari russi ormai stanchi delle mezze misure di Putin (sì, mando le truppe in Siria, ma ora le ritiro, ecc.).
Se la minaccia di un colpo di Stato militare in Russia prendesse corpo, forse allora, e solo allora, si vedrebbe qualche cedimento anche nell’oligarchia USA, poiché la Russia non può essere sconfitta attraverso uno scontro militare diretto ma solo con l’erosione e l’accerchiamento. Sino ad allora non c’è da aspettarsi sussulti di compassione da parte statunitense; semmai il contrario.
Forse è prematuro stabilire correlazioni tra la cronica stagnazione europea e gli attentati di Parigi e, da ultimo, di Bruxelles di martedì scorso. Sta di fatto che sarebbe impossibile gestire una lunga stagnazione e la manomissione dei conti correnti dei risparmiatori senza una militarizzazione del territorio e senza una criminalizzazione preventiva degli oppositori dell’Unione Europea, dato che, secondo la fiaba ufficiale, solo il processo di unificazione europea potrebbe contrastare il terrorismo.
L’islamofobia ed il razzismo costituiscono inoltre degli efficaci “richiami della foresta” in grado di rimettere in riga quelle formazioni di destra, come la Lega Nord, che in questi mesi si erano impegnate in una informazione economica piuttosto puntuale sulle truffe del “bail in” e del “quantitative easing”. Anche la spina nel fianco dell’informazione anti-ufficiale su internet potrà essere rimossa grazie all’altra fiaba oggi in voga, quella sugli adolescenti che si convertono all’Islam in versione ISIS/Daesh sul web.
A conferma che il terrorismo a qualcosa serve, e servirà, negli USA da tre anni si è affermata la dottrina di un ex segretario al Tesoro USA, Larry Summers, che vede all’orizzonte addirittura una “stagnazione secolare”. Parlare di Larry Summers significa fare diretto riferimento alla recente storia russa, poiché egli è l’uomo che, prima da dirigente della Banca Mondiale poi da segretario al Tesoro dell’amministrazione Clinton, gestì insieme con il presidente russo Eltsin la transizione dal socialismo reale al capitalismo.
Le misure “economiche” di Summers assunsero i connotati del genocidio, causando in Russia il crollo della vita media e della natalità. Milioni di russi sono morti precocemente, o non sono nati affatto, a causa di Summers. Quando Summers parla di stagnazioni secolari si vede che se ne intende, poiché ha dimostrato sul campo di essere bravo a produrre miseria; tanto più che egli è il tipico uomo-ovunque: Harvard, Goldman Sachs, Banca Mondiale, segretario al Tesoro, oggi a capo del National Economic Council nell’amministrazione Obama.
L’ipotesi della stagnazione secolare, anche se non celebrata esplicitamente a causa dei suoi esiti spaventosi, viene però presentata in termini così vivaci da farla sembrare proprio un desiderio più che un timore da parte dell’oligarchia USA.
La stagnazione sta infatti indebolendo sempre più il lavoro, sta rallentando l’economia cinese e degli altri “BRICS”, e sta accelerando i processi di concentrazione della ricchezza nelle mani delle multinazionali occidentali.
Forse la “crisi” non è poi così male per tutti, e perciò si spiega l’intenzione di farla proseguire il più possibile.
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