Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Una notizia interessante di questi ultimi giorni è che la minaccia di intervento della NATO in Libia, dato per imminente dal suo segretario generale Rasmussen, potrebbe innescare una crisi interna alla stessa NATO, poiché uno dei principali Paesi membri della sedicente Alleanza, la Turchia, ha preso un'esplicita posizione contraria al progetto di "no fly zone". Risulta significativo che la presa di posizione contraria del governo turco giunga dopo l'assenso della Lega Araba alla "no fly zone", perciò il primo ministro turco Erdogan si è fatto carico di manifestare ciò che tutti - tranne, ovviamente, l'opinione pubblica - oggi sanno, ma non hanno il coraggio di dire, cioè che la NATO non è la cura, ma la malattia, e che, senza l'ispirazione della NATO (cioè degli USA), la rivolta libica non ci sarebbe neppure stata. La rivolta libica, dapprima presentata dai media come movimento popolare tout-court, poi come insurrezione etnica, si va rivelando quindi come un tentativo di golpe, in parte interno allo stesso regime, ed in parte promosso dall'esterno. Erdogan ora sta anche tentando una mediazione che risolva il conflitto libico, togliendo così spazio di manovra all'aggressione NATO.
In queste notizie vi sono alcune implicazioni storiche altrettanto interessanti, che indicano come il '900, dato tante volte per superato ed alle nostre spalle, in effetti non sia ancora finito. L'attuale Libia è composta infatti da due province dell'Impero Turco Ottomano, che nel 1911 furono occupate dalle truppe italiane per un'iniziativa coloniale del governo del liberale Giolitti. L'impresa libica del 1911 costituì una sorta di coronamento dei festeggiamenti per il cinquantenario della Unità d'Italia, quasi a sancire l'ingresso dell'Italia stessa nel novero delle grandi potenze.
C'è quindi una strana ironia della Storia nel fatto che la questione libica riemerga così violentemente proprio nel momento della ricorrenza del centocinquantenario dell'Unità d'Italia. Anche se non è chiaro cosa si stia festeggiando, se i centocinquanta anni dell'Unità, oppure le centocinquanta basi militari USA e NATO che occupano attualmente il territorio ex-italiano (dal 2002 si sono aggiunte persino le basi segrete della CIA). Le rievocazioni storiche di questi giorni omettono un dettaglio fondamentale, e cioè che, in quegli anni dell'unificazione, l'Italia costituì un terreno dello scontro imperialistico delle grandi potenze dell'epoca: non solo l'Impero Austro-Ungarico, ma anche la Francia, la Gran Bretagna e la Prussia. Persino il best-seller di Pino Aprile, che pure riporta all'attenzione documenti da tanto tempo volutamente dimenticati, non si sofferma su questo aspetto, contribuendo così a perpetuare la mistificazione dell'annessione/genocidio del Sud come vicenda tutta interna all'Italia. L'Italia come problema esclusivo degli Italiani: a dissipare una tale illusione basterebbe la constatazione che il presidente del comitato dei festeggiamenti per l'Unità, Giuliano Amato, ex ministro del tesoro ed ex Presidente del Consiglio, è attualmente alto dirigente della Deutsche Bank.
http://www.deutsche-bank.de/medien/en/content/press_releases_2010_4871.htm
L'Italietta giolittiana del 1911 era invece convinta di aver condotto a compimento il processo di indipendenza nazionale, al punto da sentirsi matura per andare a sua volta ad opprimere altri popoli, senza valutare che ciò avrebbe determinato una reazione internazionale tale da far ripiombare l'Italia dalla condizione di predatore a quella di preda coloniale.
Di quel governo Giolitti del 1911 faceva parte anche Francesco Saverio Nitti, il quale dopo la fine della prima guerra mondiale, in un suo libro best-seller internazionale dell'epoca "L'Europa senza pace", commentò l'impresa coloniale libica affermando che, nello scoppio del grande conflitto appena cessato, anche l'Italia aveva avuto le sue brave responsabilità, proprio perché aveva iniziato la corsa a spartirsi le spoglie del morente Impero Turco. Tra quelle spoglie vi erano tutti i principali bacini petroliferi, oltre alla Libia, anche gli attuali Iraq e Arabia Saudita. La guerra di Libia fu quindi il prologo del conflitto mondiale del 1914-1918, che costituì anche la prima grande guerra per il petrolio.
La leggenda storiografica vuole che l'Italia fosse ignara delle ricchezze petrolifere della Cirenaica e della Tripolitania quando andò a conquistarle. L'impresa libica fu connotata infatti da una propaganda che la spacciava come una espressione di "colonialismo proletario": nel 1911 il poeta Giovanni Pascoli pronunciò una famosa allocuzione, che ancora si studia a scuola: "La Grande Proletaria si è mossa". Pascoli presentava l'impresa libica come un'occasione per le masse diseredate dell'Italia per andare a costruirsi un avvenire in quelle terre da coltivare e redimere.
Ovviamente era tutta propaganda: allora il "colonialismo proletario", adesso il "colonialismo umanitario", ma sempre di colonialismo si tratta, cioè di saccheggio delle risorse di un Paese aggredito. Il Presidente del Consiglio era Giovanni Giolitti, un uomo politico lucido e calcolatore, che aveva dimostrato più volte di avere in spregio le imprese coloniali di mero prestigio, come quelle del suo predecessore Francesco Crispi. Giolitti era troppo furbo ed informato per non sapere che la vera posta in gioco fosse la materia prima del futuro, il petrolio appunto.
Il fatto che per decenni il petrolio libico non sia stato estratto fu dovuto a cause oggettive. La prima riguardò il carattere puramente ufficiale della conquista, poiché l'effettivo dominio italiano fu confinato per lungo tempo alle coste, mentre l'interno rimase fuori controllo per decenni, esposto alle efficaci incursioni della guerriglia delle tribù autoctone; incursioni favorite anche dalla lunghezza del confine con l'Egitto, che consentiva alla Gran Bretagna di far passare armi e rifornimenti per la guerriglia libica.
La conquista effettiva del territorio fu quindi realizzata da Mussolini solo nei primi anni '30, con metodi che non ebbero nulla da invidiare a quelli messi in campo da Hitler nell'Europa Orientale, del resto a loro volta ricalcati su quelli dell'imperialismo britannico in Africa e Asia. A quel punto il regime fascista dovette affrontare la questione delle infrastrutture nelle profondità del territorio libico, ma nel 1935-1936 si apriva la spaventosa emorragia finanziaria conseguente alle guerre d'Etiopia e di Spagna, una sorta di suicidio del regime per eccesso di velleità colonialistiche. Il suicidio del regime fascista avrebbe anche aperto la strada alla colonizzazione dell'Italia da parte degli USA a partire dal 1943, un processo di colonizzazione che la consistenza numerica e militare della Resistenza al nazifascismo ha indirettamente rallentato, ma non impedito; tanto che dal 1949 l'Italia è sprofondata progressivamente nella servitù NATO. Si tratta di un colonialismo tanto più efficace in quanto non percepito, dato che la sudditanza agli USA è velata dalla falsa coscienza "occidentale", che fa passare la sottomissione forzata come una libera scelta.
Nel 1911 un outsider del colonialismo come l'Italietta giolittiana si era dunque impadronita di una delle più ricche aree petrolifere del pianeta, perciò vi erano tutte le condizioni perché le grandi potenze storiche dell'epoca - Gran Bretagna, Francia, Germania - si allarmassero ed andassero ad un regolamento di conti per stabilire chi dovesse appropriarsi dell'Impero Turco. Proprio in quel periodo nasceva la prima grande multinazionale petrolifera, la British Petroleum, che operò inizialmente solo in Iran, ma che già pensava ai giacimenti delle province mesopotamiche dell'Impero Ottomano - poi diventate l'Iraq - ed ai giacimenti della penisola arabica, anch'essa sotto il dominio turco. I Balcani, porta di accesso al Medio Oriente e storica area d'influenza del solito Impero Turco, rappresentarono l'area in cui la deflagrazione della prima guerra mondiale ebbe inizio nel 1914; ed è significativo che anche i Balcani costituiscano attualmente un'area sotto l'occupazione militare USA e NATO.
A distanza di cento anni, la Turchia cerca dunque di recuperare un proprio ruolo di leadership nell'area che una volta era sotto il suo dominio, e perciò si trova ad entrare in competizione addirittura con la "alleanza" di cui fa parte. La Turchia non ha particolari interessi affaristici in Libia, quindi ha nella vicenda una maggiore credibilità da spendere. Il Paese che detiene invece i maggiori interessi affaristici in Libia è l'Italia, ma il suo governo (?) risulta totalmente irretito nella servitù NATO/USA; anche se è probabile che le mazzette elargite silenziosamente dall'ENI abbiano la loro parte nella ritrovata fedeltà delle forze armate libiche nei confronti del regime di Gheddafi. Già nel tentativo di golpe contro Hugo Chavez nel 2002, organizzato dalla Exxon e dalla CIA, le regalie dell'ENI ai quadri intermedi dell'esercito contribuirono a rinfoltire il sostegno a Chavez ed a far fallire le mire degli USA.
Se Gheddafi riuscisse a completare in settimana la riconquista della Cirenaica, anche il progetto di "no fly zone" tramonterebbe per forza di cose. In tal caso sarebbe anche un successo dell'ENI, che si configurerebbe in Italia come uno Stato nello Stato; una situazione che non potrebbe non comportare effetti politici anche a livello interno.
Il progetto di "no fly zone" risultava ormai superato dagli eventi bellici sul terreno libico, dato che la inattesa rapidità della controffensiva delle truppe di Gheddafi aveva comportato l'accerchiamento degli insorti sia a Misurata che a Bengasi. La coalizione dei "volenterosi" - Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna -, forzando la lettera della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, ha perciò trasformato la "no fly zone" in una "no life zone", cioè in bombardamenti a tappeto che hanno avuto come bersaglio anche quella popolazione civile che si affermava di voler proteggere. Sugli aridi deserti della Libia finalmente piove democrazia, ma la pioggia di bombe democratiche potrebbe non bastare a risolvere la situazione.
Obama ha affidato il compito di guerrafondaio ufficiale al suo fantoccio francese Sarkozy, in parte per esigenze propagandistiche, per salvare la propria nomea di umanitario refrattario alla guerra, ma soprattutto perché la situazione sul terreno si è evoluta in modo tale che, per sconfiggere Gheddafi, sarà inevitabile ricorrere a truppe di terra. La linea dei media occidentali è di presentare gli USA come "defilati" rispetto all'operazione militare in Libia, infatti questi hanno lanciato appena cento missili: uno stuzzichino se rapportati agli appetiti degli opinionisti guerrafondai, ma era tutto ciò che gli USA avevano a disposizione in quel momento. I bombardamenti non hanno però sortito l'effetto sperato, di favorire un contrattacco delle forze ribelli, che rimangono accerchiate, perciò la Francia è l'unico Paese che può togliere le castagne dal fuoco, poiché è in grado di impegnare la Legione Straniera, cioè mercenari, in gran parte africani. La Francia ha anche una collaborazione militare organica con la Gran Bretagna, ed anche questa dispone di efficienti mercenari nepalesi che potrebbero risultare utili alla bisogna.
La crisi della NATO, già apertasi per il disimpegno preventivo della Turchia, si è quindi approfondita a causa della pretesa francese di spartire il bottino di guerra (giacimenti petroliferi) in base allo sforzo effettivamente profuso, e non in base alle quote NATO, che vedrebbero l'Italia rientrare per la finestra dopo essere stata cacciata dalla Libia per la porta. Il paradosso di questa situazione sta nel fatto che la NATO era stata dall'inizio la vera protagonista della crisi libica, aizzando alla ribellione e fomentando la psicosi mediatica della emergenza umanitaria, attraverso le false notizie diffuse da Al Jazeera, che è un'emittente del Qatar, un piccolo Paese coordinato con la NATO tramite un trattato militare. Che il Qatar faccia parte della NATO ce lo ha rivelato il non-ministro degli Esteri Frattini in un'intervista telefonica a "Repubblica Radio-TV"; così anche Frattini, nella sua inutile vita, è riuscito a fare una cosa utile, mettendoci indirettamente a conoscenza del fatto che Al Jazeera è integrata negli apparati di guerra psicologica (psywar) della NATO.
http://translate.google.it/translate?hl=it&langpair=en%7Cit&u=http://www.nato.int/docu/update/2007/09-september/e0910b.html
Sarkozy crede ora di poter fare a meno della stessa NATO, poiché è stato anche il primo ad avviare i bombardamenti, ritenendo così di avere acquisito particolari diritti. Sarkozy, che rappresenta gli interessi della “relazione speciale” tra Londra e Washington, si è sforzato fin dall’inizio del suo mandato di avvicinare gli apparati di difesa francesi e britannici. Ci è riuscito con gli accordi bilaterali di difesa del 2 novembre 2010 e trova nella crisi libica l’occasione di un’azione comune. Il 17 marzo 2009 Sarkozy aveva accettato il ritorno nel comando integrato della NATO, sancito al vertice di Strasburgo del 3 aprile 2009, rinunciando di fatto al principio di una difesa francese indipendente. Col Trattato di Lisbona, di cui è stato uno degli artefici, il fantoccio Sarkozy aveva già costretto l’Unione Europea a rinunciare ad una difesa indipendente per mettersi sotto l’ombrello Nato. Con mezzo secolo di ritardo e con la scusa di fare economie di scala, gli accordi tra Cameron e Sarkozy liquidano le velleità di indipendenza dei Francesi che avevano visto gollisti e comunisti insieme. La forza di intervento franco-britannica è già una realtà con un vasto piano di esercitazioni aeree comuni: il “Southern Mistral”. Il comando delle operazioni in Libia appare saldamente nelle mani dell’ammiraglio USA Locklear (oltre che di Africom di Stoccarda!) e le pretese della Francia di non dare la gestione completa delle operazioni (come sostengono i servi Cameron e Berlusconi) alla Nato, cioè agli USA, appaiono velleitarie. Qualche anno fa c’erano stati timidi tentativi di coordinamento militare franco-tedeschi, ma ora con la Germania fuori gioco e la Francia agli ordini di Obama, sembra tramontata ogni ipotesi di una politica europea autonoma.
Risultava ovvio che anche la "no fly zone" eseguita secondo i canoni standard avrebbe avuto come sbocco la partecipazione diretta agli scontri da parte delle forze "occidentali"; ma in questo caso l'urgenza dei tempi ha determinato la necessità di saltare il copione previsto dalla propaganda, che consiste nel presentare l'intervento bellico attivo come una "inevitabile" risposta ad attacchi dell'aviazione o della contraerea del Paese oggetto della "no fly zone" stessa. Ai combattimenti, se non ai bombardamenti, hanno partecipato poi anche aerei italiani, sebbene il voto parlamentare avesse autorizzato solo la "concessione" delle basi militari in Italia (in realtà, in queste basi "italiane", agli Italiani è a malapena concesso di metter piede).
Ciò non poteva non sconcertare un'opinione pubblica che sinora si era disciplinatamente bevuta tutte le "notizie" sulla Libia. Si è quindi espressa in vario modo anche un'opposizione "da destra" alla guerra, con reazioni di rabbia e sospetto, di cui si sono fatti interpreti sia la lega Nord che il quotidiano "Libero". Ma più ancora di questo moto di opinione pubblica, è stata la vitalità dimostrata da Gheddafi - forse dovuta ai finanziamenti occulti dell'ENI, che hanno permesso di aggirare il sequestro dei beni libici - a suggerire che bisogna avere una linea ambivalente, utile sia a giustificare un ritiro, se le cose si mettessero male, sia a legittimare una lunga occupazione, se gli "alleati"/padroni decidessero che fosse il caso di pagarne il prezzo. L'ambiguità di questo "pacifismo" di destra sta perciò nel fatto che, mentre attacca le attuali motivazioni della guerra, sembra al tempo stesso suggerire altre motivazioni per proseguirla e trasformarla in occupazione permanente.
Se, come dice "Libero", l'attuale guerra rischia di favorire le forze dell'integralismo islamico e l'immigrazione selvaggia, allora, ciò costituirebbe un ottimo pretesto sia per ritirarsi, sia per insediarsi in Libia sine die con proprie basi militari. In questo secondo caso si potrà sempre dire: "siamo stati troppo ingenui e generosi ad aiutare gli insorti senza accertare chi fossero, ed ora dobbiamo correre ai ripari". Gli USA ci hanno abituati da sempre a credere che se sbagliano lo fanno solo per eccesso di bontà, ed il bello è che gli si crede pure.
Feltri vorrebbe a sua volta farci credere che Berlusconi abbia dovuto aderire alla guerra malvolentieri, ma in realtà Berlusconi ne è felicissimo, dato che così ha trovato un inattaccabile "legittimo impedimento" da esibire ai giudici. Vista la sottomissione dimostrata da Berlusconi alle esigenze belliche, si capisce anche perché il presidente Napolitano lo abbia salvato lo scorso novembre rimandando il voto di sfiducia con il pretesto della Legge Finanziaria, permettendogli così di ricomprarsi i voti. In questi giorni Napolitano si sta rivelando la vera "Voice of America" in Italia.
Nessuna guerra giunge a compimento tenendo ferme le motivazioni ufficiali che l'avevano "giustificata" all'inizio, anzi, queste motivazioni vengono modificate per strada, adattandole alle esigenze della propaganda. I vari Bossi, Feltri, Maglie, Veneziani ed Allam si stanno quindi incaricando di accompagnare per mano il "popolo di destra", dalla sua attuale insofferenza e diffidenza, ad una rassegnata, ma convinta, adesione alla guerra, dato che per la propaganda si tratterà, di qui a poco, non più di salvare dei poveri civili, ma di fermare le orde islamiche alle porte dell'Europa. Del resto i bombardamenti a tappeto risultano già ispirati da un proposito del tipo "ammazziamoli tutti quei figli di puttana", più che da precauzioni umanitarie; perciò nuovi slogan propagandistici urgono per supportare le evoluzioni della strategia militare o, per meglio dire, della strategia affaristica, dato che pare che le basi militari USA non serviranno solo ad arraffare il petrolio libico, ma anche i giacimenti di altri minerali del vicino Ciad.
A fronte di questo pseudo-pacifismo della destra, si è dovuto registrare invece un interventismo "di sinistra", cosa che i media hanno presentato come un fatto inusitato. Ma anche qui i media dicono una cosa inesatta, poiché cento anni fa era stata proprio la guerra coloniale italiana del 1911, l'impresa di Libia, ad inaugurare un interventismo di "sinistra". Il poeta Giovanni Pascoli, che si riteneva un socialista, lanciò nel 1911 la dottrina del colonialismo proletario, con la famosa allocuzione "La Grande Proletaria si è mossa". La dottrina del colonialismo proletario ebbe fra i suoi adepti anche un anarchico, Massimo Rocca, che si firmava con lo pseudonimo di Libero Tancredi. Rocca fu ovviamente fra gli interventisti nella prima guerra mondiale, e si distinse con articoli su "Il Resto del Carlino" che incalzavano Mussolini, il quale, nel 1914, cominciava a mettere in discussione il suo neutralismo socialista. Rocca aderì poi al fascismo, divenne ancora dopo un "fascista dissidente" in esilio, e infine rientrò in Italia per aderire nel 1943 alla Repubblica Sociale Italiana.
Ma fra gli interventisti di sinistra non vi furono solo opportunisti come Mussolini, ma anche personalità socialiste o democratico-radicali di assoluto rigore morale, come Gaetano Salvemini, Guido Dorso e Cesare Battisti, che sarebbe stato poi impiccato dagli Austriaci per tradimento, in quanto trentino, quindi di cittadinanza austriaca. Fu interventista anche Giuseppe Di Vittorio, colui che sarebbe diventato il segretario generale della CGIL nel secondo dopoguerra, ma che nel 1915 militava ancora nell'Unione Sindacale Italiana; una scelta inaspettata che sconcertò e addolorò l'allora segretario dell'USI, l'anarchico Armando Borghi, il quale attribuì questo contagio interventista ad infiltrazioni massoniche. Anche Palmiro Togliatti fu interventista, almeno a quanto è stato riferito da Amadeo Bordiga, il primo segretario del Partito Comunista d'Italia.
Nel 1915 il problema era di salvare l'Europa democratica dalle "orde germaniche", a cui si attribuiva persino il delitto di aver tagliato le mani ai bambini belgi nel corso della loro invasione del Belgio. Anche quel dettaglio truculento risultò totalmente inventato, esattamente come oggi la storia delle fosse comuni di Gheddafi.
Mentre da Rossana Rossanda ormai ci si aspettava questo ed altro, dispiace che fra gli interventisti umanitari vi sia anche Paolo Flores D'Arcais, di cui si ricorda con rispetto l'impegno recentemente profuso contro le prepotenze ed i ricatti di Marchionne. Flores D'Arcais soffre probabilmente degli stessi pregiudizi di altri esponenti del liberalismo radicale, come John Stuart Mill, anche lui convinto di una sorta di missione occidentale a favore dei "popoli minorenni": un colonialismo umanitario, appunto. L'idea che, senza la tutela occidentale, i popoli minorenni vadano incontro a forme di autogenocidio ad opera dei loro tiranni, costituisce un pregiudizio razzistico, non percepito come tale perché permeato di autentica partecipazione umana, ma comunque di razzismo si tratta.
Il dominio "occidentale" è stato santificato attribuendolo ad una superiorità culturale e tecnologica sul resto del mondo, diventando la pretesa di una missione civilizzatrice: il "fardello dell'Uomo Bianco". In realtà, come ha messo in evidenza anche Noam Chomsky, ancora nel XVIII secolo, i maggiori Paesi industriali erano l'India e la Cina. In particolare l'India deteneva il primato sia nel tessile che nella cantieristica navale, tanto che anche la Corona britannica ne divenne cliente. La superiorità "occidentale" si espresse invece nel campo della guerra, creando un modello di guerra totale, attraverso un intreccio di militarismo, affarismo, ideologia e propaganda; un intreccio tale da trasformare le potenze occidentali in macchine belliche prive di pause e di scrupoli: la guerra infinita. Ovunque la guerra ha sempre costituito un elemento determinante delle relazioni tra gli Stati, ma soltanto nel sedicente Occidente ha assunto il carattere di relazione assoluta, tanto da far dire a Georges Clemanceau che "la pace non è altro che la guerra condotta con altri mezzi".
L'Occidente è quindi incapace di distinguere tra la pace e la guerra, e di discernere gli scopi umanitari sia dagli affari che dal crimine tout-court. Da qui la disinvolta pretesa di superiorità morale che suggestiona ed affascina anche gran parte della sinistra, quindi le infiltrazioni massoniche e le infiltrazioni in genere, pur reali, costituiscono solo un aspetto del problema.
Il declino economico e tecnologico degli USA ha fatto gridare molti commentatori alla fine del dominio americano ed all'avvento di un mondo multipolare. In realtà il dominio statunitense non si fonda sulla superiorità economica tout-court, bensì sul suo modello affaristico fondato sulla guerra totale, che trasforma la rete delle alleanze in cordate di complicità affaristiche. L'attuale dinamismo economico della Cina e dell'India non significa molto, dato che nel XVIII secolo ciò non salvò questi Paesi da un destino coloniale, diretto nel caso dell'India, indiretto nel caso della Cina, che rimase sempre formalmente indipendente.
Flores D'Arcais ricorre inoltre all'argomento tipico della propaganda di destra, di liquidare il rifiuto della guerra come posizione "di principio". In realtà le posizioni di principio non si assumono per capriccio, ma costituiscono la formulazione teorica di un'esperienza ripetuta e sedimentata. O dall'esperienza non si deve imparare nulla?
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