Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Non c’è nulla di strano nel fatto che oggi la gran parte della gioventù preferisca radicalizzarsi politicamente a destra invece che a sinistra. L’essere di destra consente infatti di recitare tutte le parti in commedia, di dichiararsi anti-establishment e di agire a difesa dell’establishment, di dire tutto ed il suo contrario. In questa ebbrezza di libertà illimitata, le destre si sono messe a cavalcare anche il politicamente corretto ed a processare Ilaria Salis dall’alto del pulpito della moralità e della legalità. Ma, come si è visto già in Ungheria, alla destra il prendersela con la Salis non porta fortuna, poiché, a furia di atteggiarti a campione del politicamente corretto, poi rischi di ritrovarti in casa gli esattori del politicamente corretto, cioè
gli infiltrati di Fanpage, che si precipitano a scoprire l’acqua calda, cioè che sei fascio-nostalgico e antisemita. Comunque niente di grave.
La sinistra infatti se la passa molto peggio, poiché gli esattori del politicamente corretto vi si infiltrano senza alcun bisogno di avere mandanti; sono infiltrati autoprodotti ed autogestiti, agenti di una colonizzazione ideologica che si investono da soli della missione di scrutarti per capire se, sotto sotto, sei un cospirazionista, o un rossobrunista, o un dogmatico, o un sessista, o uno specista, o, meglio ancora, un antisemita. In questi mesi le destre si sono schierate senza esitazioni con Israele e si sono messe a caccia di antisemiti nella sinistra; cosa che ha consentito a Fanpage di rilevare la presunta contraddizione tra i proclami sionisti di Fratelli d’Italia e l’acrimonia antiebraica dei suoi militanti. In realtà a sbagliarsi è Fanpage, dato che non esiste alcuna contraddizione tra antisemitismo e filosionismo.
L’antisemitismo politico nasce nella prima metà dell’800 come tentativo di critica del cosmopolitismo finanziario, sulla base dell’icona dell’ebreo internazionale Rothschild che schiavizza gli Stati nazionali con il debito. Ma, proprio perché identifica l’ebraismo con il cosmopolitismo, l’antisemita non è affatto disturbato dal sionismo, tutt’altro; poiché, diventando nazione, gli ebrei devono concentrarsi in una guerra di conquista a spese dei popoli vicini. All’antisemita va benissimo che arabi ed ebrei si ammazzino tra loro.
A rilanciare l’antisemitismo come critica dell’usurocrazia finanziaria fu l’industriale Henry Ford, con una serie di articoli, poi riuniti e ripubblicati col titolo
“L’Ebreo Internazionale”. In quegli scritti Ford propinava l’epopea di un capitalismo “buono” e produttivo che conduceva l’eterna lotta contro un capitalismo “cattivo”, finanziario e speculativo, in mano agli ebrei. Per reggere questa rappresentazione deve giocare continuamente sulla confusione semantica, per cui l’ebreo è, a seconda delle esigenze retoriche del momento, un’etnia, o una cultura o un simbolo, o tutte e tre le cose insieme. Il banchiere Rothschild è ebreo, ma, visto che ci sono anche tanti banchieri cristiani, allora evidentemente il capitalismo finanziario è un ebraismo che funziona anche senza ebrei.
L’altro punto debole della pur veritiera rappresentazione della schiavitù del debito è infatti che il creditore è nulla senza l’esattore, cioè i governi. Si torna quindi al famoso “Stato nazionale”, quello che si incarica del lavoro sporco di riscuotere i sospesi. Va chiarito che non tutti gli antisemiti usano argomenti razzisti e cospirazionisti; anzi, all’epoca di Pino Rauti si portava il discorso tutto sul piano culturale, spiegando come l’ebraismo - in quanto apolide, materialista e privo di trascendenza - fosse intrinsecamente congeniale al dominio della finanza internazionale. Se sei uno che si affeziona alle astrazioni, ti sembra pure un discorso che fila; poi però, quando devi spiegare come mai la circolazione dei capitali l’abbiano inventata i Cavalieri Templari con la lettera di cambio e le banche siano nate a Firenze e Genova, allora devi ricorrere ad un ebreo metafisico che sta in cielo, in terra e in ogni luogo. Per un ovvio riflesso di autodifesa la cultura liberale ha sempre valorizzato mediaticamente solo le “critiche” che in realtà non criticano, che non mettono in discussione i miti fondanti della narrazione liberale, cioè la separazione tra pubblico e privato, ed anche la separazione tra legale ed illegale. Nel caso di un George Soros è grazie all’antisemitismo che puoi invertire il rapporto causa-effetto ed attribuire il suo ruolo al fatto che sia ebreo. In realtà la formazione del personaggio era quella di un informatore dei nazisti, quindi un soggetto servile e ricattabile. Niente di più logico che un tipo del genere venisse reclutato dalla CIA per fare da prestanome e sponda privata per manipolazioni del mercato borsistico che sono alla portata solo di agenzie governative. Ma la stessa operazione di sponda esterna la CIA l’ha fatta anche con l’arianissimo Jeff Bezos, e ciò spiega
la porta girevole delle carriere tra apparati governativi e Amazon. Ogni potere comporta automaticamente un margine di abuso, per cui è ovvio che qualcuno ne approfitti e si formino delle lobby d’affari, trasversali tra pubblico e privato, e tra legale ed illegale. Il problema è la fiaba liberale, che ci narra di un mondo idilliaco dove la funzione pubblica e l’impresa privata non dovrebbero intrecciarsi perché non sta bene; ma è talmente scontato che invece accada, che il super-complotto ci vorrebbe semmai per impedirlo. In questo senso l’antisemitismo è la “critica” più comoda per l’establishment, dato che l’antisemitismo continua a idealizzare lo Stato e l’impresa privata ed attribuisce la loro corruzione alla pervasiva influenza ebraica.
Che sia per colpa della cospirazione ebraica oppure a causa della contaminazione culturale ebraica, se l’ebreo ormai è dappertutto, sopra gli Stati e dentro gli Stati, allora c’è poco da fare, rassegniamoci. Alla fine scopriamo che Meloni e soci risultano coerenti anche su questo punto, in quanto hanno un alibi di ferro, anzi una giustificazione per ogni loro opportunismo. Si può quindi accusare la finanza ebraica ed, al tempo stesso,
vantarsi della “fiducia dei mercati”. L’antisemitismo è innocuo sul piano teorico e quindi conformista sul piano pratico, perciò per l’establishment è il nemico perfetto.
Il politicamente corretto ci rappresenta l’antisemita come uno che vive un odio furioso che lo consuma; invece è il contrario, è contento e sereno: se il cosiddetto “ebreo” (in senso stretto o in senso lato) è in condizione di debolezza lo si fa fuori, ma se il cosiddetto “ebreo” è in posizione di forza, allora ci si inchina. Per questo motivo, in omaggio ai rapporti di forza, dopo la seconda guerra mondiale le camicie nere sono diventate
camicie a stelle e strisce, ed hanno anche collaborato con ex partigiani nell’organizzazione Gladio.
C’è ancora chi idealizza la destra e crede che abbia dei valori assoluti e dei saldi principi, per quanto aberranti e retrivi. Un valore, un principio, uno solo, quello sì, c’è. Sono piovute le critiche sulla Sorella d’Italia per aver lasciato smembrare la sacra Nazione con l’autonomia “differenziata”. Proprio in questi giorni ricorre il cinquantesimo anniversario della morte di Julius Evola, il famoso filosofo della destra. Marcello Veneziani lo ha ricordato accennando al suo pensiero, ed ha saltabeccato sul
concetto evoliano di “uomo differenziato” senza soffermarcisi più di tanto e senza notare che qualche giorno fa era stata approvata l’autonomia “differenziata”. Chi ha voluto caratterizzare questa forma di autonomia regionale con il termine “differenziata” non ha scelto la parola a caso; l’ha pescata dal repertorio del filosofo e del cantore della disuguaglianza. Memore di quella guida morale, la Meloni non si è fossilizzata sul concetto di nazione ma ha scelto la disuguaglianza. Come molte altre leggi l’autonomia differenziata non crea affatto un ordinamento, bensì provoca destabilizzazione per determinare occasioni di abuso; è una delle tante leggi specificamente criminogene. Solo nella fiaba liberale la legge implica la legalità.
Non c’è evento che non abbia qualche precedente storico, e ciò vale anche per la penosa esibizione di Joe Biden nel suo dibattito con Donald Trump.
Nel 1984 l’allora presidente in carica, Ronald Reagan, affrontò in un primo dibattito il suo sfidante, Walter Mondale. In quella circostanza Reagan si dimostrò senile, impacciato, confuso e smemorato, con effetti di comicità involontaria, come quando attribuì le eccessive spese militari al cibo ed al vestiario. Nel secondo dibattito con il rivale Mondale la situazione si rovesciò a favore di Reagan, che si presentò vivace e pronto alla battuta; perciò a chi gli chiedeva se potesse essere un problema la sua età avanzata, Reagan rispose di non avere intenzione di usare a proprio vantaggio la giovinezza e inesperienza di Mondale. Al pubblico e ai media piacciono molto questi colpi di scena in cui lo sfavorito rovescia il pronostico, e con una grassa risata tutte le perplessità sullo stato mentale di Reagan furono resettate in un attimo.
Può darsi perciò che anche Biden, come il suo predecessore Reagan, si presenti “bombato” di anfetamine al prossimo dibattito con Trump e riesca a rimediare al primo disastro. Magari nel campo avverso qualche “double agent” sottrarrà le anfetamine a Trump e le parti si invertiranno con grande spasso del pubblico. Nel caso di Reagan la vicenda ebbe però un risvolto patetico, poiché il povero Ronald, una volta lasciato l’incarico, non andò a monetizzare la sua presidenza con i soliti giri di conferenze strapagate. In un paese di etica protestante come gli Stati Uniti si tiene molto al fatto che la corruzione sia al 100% legalizzata, perciò i presidenti non possono incassare tangenti mentre sono in carica.
Agli ex presidenti è invece consentito di arricchirsi andando a riscuotere la percentuale per gli appalti elargiti; una riscossione che avviene attraverso i lauti compensi per le conferenze. La strana assenza di Reagan a questi tour milionari trovò una spiegazione nel 1995 con una pubblica dichiarazione sui sintomi di una sua malattia mentale, indicata ufficialmente come Alzheimer. A suo tempo però in molti sospettarono che Reagan stesse scontando i danni cerebrali dovuti agli eccessi farmacologici che gli avevano consentito quei suoi incredibili “risvegli”.
Il fatto che Biden si risvegli o meno, non toglie che il vero (anzi unico) problema sia un altro, e cioè che la figura istituzionale del presidente USA ha certamente una funzione nell’orientare il Congresso nella distribuzione degli appalti, ma non ce l’ha assolutamente nel determinare i rapporti internazionali. Il riscontro di questo dato risulta particolarmente evidente non quando i presidenti USA siano mentalmente incapaci, come Reagan o Biden, bensì proprio nei rari casi in cui il presidente risulti dotato di un po’ di lucidità. Attualmente in sede di Atlantic Council (una sorta di direttivo ideologico della NATO)
si contesta a Barack Obama la sua tesi a proposito della Russia come “potenza regionale”. Questa dichiarazione di Obama venne considerata scortese a Mosca, ma addirittura perniciosa in ambito NATO in quanto sottovalutava le ambizioni imperiali di Putin. In realtà, da un punto di vista strategico, dire “potenza regionale” non comporta affatto sottovalutare la pericolosità, semmai il contrario. Se si spostano gli equilibri al confine di una potenza regionale, questa si sentirà messa con le spalle al muro e perciò sarà pronta a qualsiasi escalation militare pur di preservare interessi che considera esistenziali. Il dominio dell’escalation quindi non appartiene alla potenza globale, ma proprio a quella regionale, in quanto forza e debolezza non sono degli assoluti ma relativi al contesto ed al prezzo che si è disposti a pagare. Le obiezioni rivolte a Obama non hanno alcun referente oggettivo, ma si rifanno a considerazioni di carattere psicologico o a processi alle intenzioni. Secondo questa impostazione, basata sui viaggi nella mente dei “dittatori”, Putin ricorrerebbe o meno all’escalation in base al “timore” che avrebbe degli USA e delle armi che questi inviano ai loro proxy. Si arriva persino ad obiezioni grottesche, come quella secondo cui Putin non userebbe armi nucleari perché Xi Jinping lo avrebbe ammonito a non farlo. I detrattori della tesi di Obama non dicono mai se essi sarebbero disposti ad usare le armi nucleari per difendere l’Ucraina, ma si limitano a dichiarare che Putin bluffa. L’argomento di supporto a questa ipotesi è che la NATO ha già superato tante linee rosse e la Russia non ha reagito; ma erano le linee rosse immaginate dalla NATO, non quelle considerate tali dalla Russia.
Obama ha lo stesso standard etico di Antonio Razzi: l’importante era farci sapere che lui capisce le cose, poi se ne è andato tranquillamente ad arricchirsi e farsi i cazzi suoi. Il controsenso stridente della posizione di Obama è stato infatti nel comportamento della sua amministrazione. Se si sapeva che la Russia non si sarebbe fatta sopraffare rispetto ai suoi interessi regionali, allora non aveva senso strategico insidiare la sua posizione in Siria, dove ha una base navale a Tartus; e tantomeno annettere alla NATO l’Ucraina e la Georgia, paesi che Mosca non può lasciare al controllo di altri se non a prezzo di perdere l’accesso al Mar Nero. Il punto è che queste non sono scelte che riguardano il presidente, semmai gli apparati; o, per meglio dire, le lobby d’affari che gestiscono le agenzie governative.
I cosiddetti “neocon” oggi controllano il Dipartimento di Stato USA, l’Atlantic Council, la NATO e l’Unione Europea. Si tratta però di un controllo narrativo, che consiste in questo mantra: abbiamo sottovalutato la cattiveria dei “dittatori”, siamo stati troppo buoni, ci volevano più armi e molto prima. “Più armi” però non è una strategia, è uno slogan pubblicitario per le armi, e la narrativa che lo precede è uno spot. Ciò che non ha senso sul piano strategico, lo ha se si guarda al business delle armi ed al consumismo delle armi; ed il senso è ancora più chiaro se si presta attenzione all’intreccio tra pubblico e privato che caratterizza la lobby delle armi.
Quella pagliacciata detta “liberismo” predica uno Stato “minimo” che non si occupi di economia ma solo di difesa; poi si scopre che negli USA quel “minimo” è più di un trilione di dollari all’anno di spesa militare, cioè la quota di controllo dell’intera economia. In un articolo del luglio 2003
sul “Washington Post” il sistema della porta girevole delle carriere tra il Pentagono e le multinazionali delle armi come Lockheed Martin, viene addirittura difeso e celebrato come il migliore dei mondi possibili. Il sistema di conflitto d’interessi grazie al quale politici e pubblici funzionari passano a ben remunerate carriere nel privato, è stato infatti pienamente legalizzato, diventando un lecito intreccio d’interessi. La giustificazione è che la porta girevole assicura il passaggio di competenze e informazioni tra pubblico e privato, perciò insider trading e manipolazione del mercato non sono neanche più reati ma la condizione naturale. Talvolta può esservi qualche inconveniente, come quando Lockheed Martin ha fatto causa a Boeing, che avrebbe approfittato di uno di questi passaggi di informazioni. Ma si tratta di piccole beghe rispetto agli enormi vantaggi della porta girevole. L’articolo concludeva trionfalmente con l’affermazione che proprio grazie a questa corruzione legalizzata gli USA sono la prima potenza militare del mondo. La corruzione fa la forza.