Non c’è evento che non abbia qualche precedente storico, e ciò vale anche per la penosa esibizione di Joe Biden nel suo dibattito con Donald Trump.
Nel 1984 l’allora presidente in carica, Ronald Reagan, affrontò in un primo dibattito il suo sfidante, Walter Mondale. In quella circostanza Reagan si dimostrò senile, impacciato, confuso e smemorato, con effetti di comicità involontaria, come quando attribuì le eccessive spese militari al cibo ed al vestiario. Nel secondo dibattito con il rivale Mondale la situazione si rovesciò a favore di Reagan, che si presentò vivace e pronto alla battuta; perciò a chi gli chiedeva se potesse essere un problema la sua età avanzata, Reagan rispose di non avere intenzione di usare a proprio vantaggio la giovinezza e inesperienza di Mondale. Al pubblico e ai media piacciono molto questi colpi di scena in cui lo sfavorito rovescia il pronostico, e con una grassa risata tutte le perplessità sullo stato mentale di Reagan furono resettate in un attimo.
Può darsi perciò che anche Biden, come il suo predecessore Reagan, si presenti “bombato” di anfetamine al prossimo dibattito con Trump e riesca a rimediare al primo disastro. Magari nel campo avverso qualche “double agent” sottrarrà le anfetamine a Trump e le parti si invertiranno con grande spasso del pubblico. Nel caso di Reagan la vicenda ebbe però un risvolto patetico, poiché il povero Ronald, una volta lasciato l’incarico, non andò a monetizzare la sua presidenza con i soliti giri di conferenze strapagate. In un paese di etica protestante come gli Stati Uniti si tiene molto al fatto che la corruzione sia al 100% legalizzata, perciò i presidenti non possono incassare tangenti mentre sono in carica.
Agli ex presidenti è invece consentito di arricchirsi andando a riscuotere la percentuale per gli appalti elargiti; una riscossione che avviene attraverso i lauti compensi per le conferenze. La strana assenza di Reagan a questi tour milionari trovò una spiegazione nel 1995 con una pubblica dichiarazione sui sintomi di una sua malattia mentale, indicata ufficialmente come Alzheimer. A suo tempo però in molti sospettarono che Reagan stesse scontando i danni cerebrali dovuti agli eccessi farmacologici che gli avevano consentito quei suoi incredibili “risvegli”.
Il fatto che Biden si risvegli o meno, non toglie che il vero (anzi unico) problema sia un altro, e cioè che la figura istituzionale del presidente USA ha certamente una funzione nell’orientare il Congresso nella distribuzione degli appalti, ma non ce l’ha assolutamente nel determinare i rapporti internazionali. Il riscontro di questo dato risulta particolarmente evidente non quando i presidenti USA siano mentalmente incapaci, come Reagan o Biden, bensì proprio nei rari casi in cui il presidente risulti dotato di un po’ di lucidità. Attualmente in sede di Atlantic Council (una sorta di direttivo ideologico della NATO)
si contesta a Barack Obama la sua tesi a proposito della Russia come “potenza regionale”. Questa dichiarazione di Obama venne considerata scortese a Mosca, ma addirittura perniciosa in ambito NATO in quanto sottovalutava le ambizioni imperiali di Putin. In realtà, da un punto di vista strategico, dire “potenza regionale” non comporta affatto sottovalutare la pericolosità, semmai il contrario. Se si spostano gli equilibri al confine di una potenza regionale, questa si sentirà messa con le spalle al muro e perciò sarà pronta a qualsiasi escalation militare pur di preservare interessi che considera esistenziali. Il dominio dell’escalation quindi non appartiene alla potenza globale, ma proprio a quella regionale, in quanto forza e debolezza non sono degli assoluti ma relativi al contesto ed al prezzo che si è disposti a pagare. Le obiezioni rivolte a Obama non hanno alcun referente oggettivo, ma si rifanno a considerazioni di carattere psicologico o a processi alle intenzioni. Secondo questa impostazione, basata sui viaggi nella mente dei “dittatori”, Putin ricorrerebbe o meno all’escalation in base al “timore” che avrebbe degli USA e delle armi che questi inviano ai loro proxy. Si arriva persino ad obiezioni grottesche, come quella secondo cui Putin non userebbe armi nucleari perché Xi Jinping lo avrebbe ammonito a non farlo. I detrattori della tesi di Obama non dicono mai se essi sarebbero disposti ad usare le armi nucleari per difendere l’Ucraina, ma si limitano a dichiarare che Putin bluffa. L’argomento di supporto a questa ipotesi è che la NATO ha già superato tante linee rosse e la Russia non ha reagito; ma erano le linee rosse immaginate dalla NATO, non quelle considerate tali dalla Russia.
Obama ha lo stesso standard etico di Antonio Razzi: l’importante era farci sapere che lui capisce le cose, poi se ne è andato tranquillamente ad arricchirsi e farsi i cazzi suoi. Il controsenso stridente della posizione di Obama è stato infatti nel comportamento della sua amministrazione. Se si sapeva che la Russia non si sarebbe fatta sopraffare rispetto ai suoi interessi regionali, allora non aveva senso strategico insidiare la sua posizione in Siria, dove ha una base navale a Tartus; e tantomeno annettere alla NATO l’Ucraina e la Georgia, paesi che Mosca non può lasciare al controllo di altri se non a prezzo di perdere l’accesso al Mar Nero. Il punto è che queste non sono scelte che riguardano il presidente, semmai gli apparati; o, per meglio dire, le lobby d’affari che gestiscono le agenzie governative.
I cosiddetti “neocon” oggi controllano il Dipartimento di Stato USA, l’Atlantic Council, la NATO e l’Unione Europea. Si tratta però di un controllo narrativo, che consiste in questo mantra: abbiamo sottovalutato la cattiveria dei “dittatori”, siamo stati troppo buoni, ci volevano più armi e molto prima. “Più armi” però non è una strategia, è uno slogan pubblicitario per le armi, e la narrativa che lo precede è uno spot. Ciò che non ha senso sul piano strategico, lo ha se si guarda al business delle armi ed al consumismo delle armi; ed il senso è ancora più chiaro se si presta attenzione all’intreccio tra pubblico e privato che caratterizza la lobby delle armi.
Quella pagliacciata detta “liberismo” predica uno Stato “minimo” che non si occupi di economia ma solo di difesa; poi si scopre che negli USA quel “minimo” è più di un trilione di dollari all’anno di spesa militare, cioè la quota di controllo dell’intera economia. In un articolo del luglio 2003
sul “Washington Post” il sistema della porta girevole delle carriere tra il Pentagono e le multinazionali delle armi come Lockheed Martin, viene addirittura difeso e celebrato come il migliore dei mondi possibili. Il sistema di conflitto d’interessi grazie al quale politici e pubblici funzionari passano a ben remunerate carriere nel privato, è stato infatti pienamente legalizzato, diventando un lecito intreccio d’interessi. La giustificazione è che la porta girevole assicura il passaggio di competenze e informazioni tra pubblico e privato, perciò insider trading e manipolazione del mercato non sono neanche più reati ma la condizione naturale. Talvolta può esservi qualche inconveniente, come quando Lockheed Martin ha fatto causa a Boeing, che avrebbe approfittato di uno di questi passaggi di informazioni. Ma si tratta di piccole beghe rispetto agli enormi vantaggi della porta girevole. L’articolo concludeva trionfalmente con l’affermazione che proprio grazie a questa corruzione legalizzata gli USA sono la prima potenza militare del mondo. La corruzione fa la forza.