Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
1. Delusione :
“Ricordo bene il momento in cui ho smesso di simpatizzare per gli israeliani. […] L’attacco aereo e terrestre di Israele contro Gaza ha riempito quel breve interregno di bombe e cadaveri. Tutte quelle vittime civili, e quei bambini sotto le macerie, mi hanno dato il voltastomaco.”
2. Hamas:
“Certo, sapevo che Hamas mescolava deliberatamente miliziani e civili e che nei mesi precedenti aveva sparato migliaia di razzi contro il sud di Israele.”
3. Gli USA
“[il presidente USA] Si è limitato a chiedere di favorire un nuovo processo di pace fermando la costruzione di nuovi insediamenti illegali in Cisgiordania a Gerusalemme Est.
4. Israele
“Rilanciare i negoziati e al tempo stesso fermare gli insediamenti era una richiesta legittima da parte dell’alleato che fornisce a Israele tre miliardi di dollari di aiuti all’anno.
Ma il governo israeliano di Benjamin Netanyahu […] non ha sospeso gli insediamenti. Anzi, ha approvato nuove costruzioni a Gerusalemme Est […]”
5. Cambiamenti
“Un tempo a Washington il giornalismo d’opinione era dominato da pochi organi di stampa, quasi tutti fanaticamente a favore di Israele. Il Washington Post, il New Republic, il Weekly Standard e il National Review erano tutti neoconservatori su questo argomento. E il New York Times non era molto diverso. Oggi è emersa una nuova generazione di giovani giornalisti, ebrei e non, che ha consentito l’avvio di un vero e proprio dibattito.
6. Antisemitismo.
“Certo, se qualcuno osa criticare Israele sui mezzi di informazione statunitensi viene Ancora definito antisemita. Ma ormai quest’accusa è stata usata così spesso che (purtroppo) ha perso quasi significato.”
7. tutto cambia
“Ma alla fine quello che conta sono le nuove idee e le nuove generazioni. Il vecchio rapporto speciale tra gli Stati Uniti e Israele è finito. Da cosa sarà sostituito, se mai lo sarà, lo scopriremo presto.”
La curiosità sta nel fatto che i brani riportati sono tratti da un articolo scritto e pubblicato nel giugno del 2010. Lo schema narrativo attuale, più che sostituire quello precedente, sembra essersi andato stratificando negli anni.
Sono apparse un po’ arzigogolate
le motivazioni addotte in parlamento dal ministro Crosetto per giustificare l’ennesimo invio di armi all’Ucraina. Forse avrebbe potuto cavarsela con un più lapidario: “Se non mando le armi non guadagno”. Bisogna comunque riconoscere che ci sono nell’intervento del ministro anche non trascurabili passaggi di umorismo involontario; come quando afferma di non capire come l’azione diplomatica possa fermare missili e droni. In realtà l’azione diplomatica dovrebbe servire per convincere a fermarsi quel governo che ordina ai suoi militari di lanciare missili e droni. D’altra parte davanti ad un ragionamento con tanti passaggi, la mente di Crosetto non poteva che vacillare.
Il problema semmai è che oggi gli spazi per un’azione diplomatica non ci sono più, dato che tra aprile e maggio del 2022 furono boicottate tutte le ipotesi di accordo. Il quotidiano “La Stampa” ci faceva sapere che
il fronte dei falchi era guidato dal primo ministro britannico Boris Johnson e che la strada da scegliere per la NATO non era arrivare ad un compromesso, bensì di aiutare l’Ucraina a sconfiggere la Russia. Nel 2022 si spacciava come realistica l’ipotesi di una vittoria della NATO e dell’Ucraina ed una disfatta della Russia. Quella era la narrativa pubblicitaria imposta dalla lobby delle armi.
Pare che Mattarella ad ottant’anni abbia scoperto che il mondo è cattivo. Nel novembre scorso egli ci avvisò che stavano riemergendo
i fantasmi dell’imperialismo. Secondo il nostro superpresidente l’imperialismo va contrastato con la cooperazione ed il dialogo, cioè mandando armi all’Ucraina che, grazie a quelle, ci ha già rimesso mezzo milione di cittadini morti, altrettanti invalidi e oltre dieci milioni scappati dal paese. La Russia è un impero e, di solito, gli imperi sono imperialisti, per cui non c’era da sorprendersi che Mosca pretendesse di avere una zona cuscinetto ai suoi confini. Ancora una volta il problema riguarda il delirio di onnipotenza della narrativa del Sacro Occidente, per il quale non esistono rapporti di forza. L’unico problema di USA e NATO starebbe invece nel rischio di essere troppo buoni, cioè nella preoccupazione di evitare escalation dei conflitti. Come dicono i Neocon americani e nostrani: estendiamo il conflitto finché non abbiamo imposto a tutti i paesi i regimi che ci piacciono; costi quello che costi. Ma questa non è strategia, e neppure ideologia, semmai uno spot per le armi che ammicca all’adolescente/bullo annidato nell’animo di ognuno, quello che si racconta di poter risanare il mondo umiliando i deboli.
Il cattivissimo imperialismo russo è stato ridotto per decenni sulla difensiva, eppure ha continuato a ragionare in termini imperiali, infatti non ha mai smantellato la sua industria militare e ne ha preservato il carattere interamente pubblico. Gli imperialisti buoni (o troppo buoni) di USA e NATO appaiono invece un po’ più schizofrenici, dato che mescolano troppo la guerra imperialista con la guerra di classe interna. Proprio il conflitto in atto in Ucraina ha messo in evidenza che i paesi della NATO si sono deindustrializzati, per cui
non riusciranno ad inviare a Kiev il milione di munizioni promesso entro il prossimo marzo. Per produrre mine e proiettili ci vogliono tantissime fabbrichette metalmeccaniche del vecchio tipo, che purtroppo rendono poco; mentre i veri affaroni si fanno con le produzioni ipertecnologiche ad altissimo valore aggiunto per fabbricare giocattoli talmente sofisticati e costosi da risultare inutilizzabili, come il caccia F-35.
Lo sviluppo industriale di base non consente profitti paragonabili per entità e rapidità ai profitti della finanza, per cui si è visto in questi ultimi decenni che privatizzare equivaleva a deindustrializzare. La cosa non ha turbato più di tanto; anzi, i due alfieri della privatizzazione/deindustrializzazione italiana, cioè i banchieri Guido Carli e Mario Draghi, sono stati addirittura santificati. Era giusto così, dato che Carli e Draghi hanno liberato il nostro establishment da quel fastidioso intralcio rappresentato dalla forza delle grandi concentrazioni operaie. Abbiamo visto come il draghiano “Whatever it takes” sia stato applicato soprattutto alle privatizzazioni, attuate ad ogni costo ed in pura perdita per il bilancio statale. La fine dei regolari approvvigionamenti energetici dalla Russia ha persino accelerato la deindustrializzazione dell’Europa e della mitica Germania; ma anche questa constatazione non ha rappresentato un motivo per raffreddare gli ardori bellicisti ed anti-russi.
Una delle domande più frequenti (e più stupide) è se la guerra abbia o meno motivazioni economiche. Il dilemma è assolutamente privo di senso, poiché quello di economia è un concetto vago e astratto, che può comprendere interessi assolutamente opposti; perciò i soggetti concreti in campo sono le lobby d’affari. Per ottenere un cessate il fuoco e l’ingresso di aiuti umanitari a Gaza, i guerriglieri Houti stanno attaccando nel Mar Rosso le navi di paesi occidentali, quelli che supportano Israele. La risposta angloamericana è stata di estendere il conflitto attaccando presunti siti dei guerriglieri nello Yemen. In realtà il bombardamento era stato ampiamente annunciato, quindi gli Houti hanno avuto tutto il tempo di nascondere o dislocare le proprie postazioni, per cui, come al solito, i bersagli sono state le città ed i civili. Rappresaglie del genere hanno anche il fiato corto, dato che i missili da lanciare costano milioni di dollari l’uno; inoltre le scorte non sono infinite, ed infatti si prospettano altri bei contratti per le multinazionali del settore. L’escalation militare ha contribuito a far lievitare ancora di più le tariffe assicurative ed a scoraggiare ulteriormente il passaggio per il Mar Rosso.
Molte produzioni industriali si stanno fermando, a causa del conflitto, oppure prendendo a pretesto il conflitto; comunque sia, l’effetto dello spot militarista nel Mar Rosso è lo stesso della guerra in Ucraina, cioè la deindustrializzazione dell’Europa e dell’Occidente in generale.
Oggi prevalgono lobby finanziarie e lobby militari, spesso tra loro intrecciate. Sono lobby, cosche d’affari, e quindi non hanno una visione strategica ma agiscono per riflessi condizionati, perciò non percepiscono la deindustrializzazione come un problema; anzi per loro rappresenta uno stimolo che le fa salivare, poiché promette di aumentare la loro ricchezza e i loro privilegi. Lo abbiamo verificato in epoca Covid, quando i lockdown hanno determinato un macello di piccole imprese industriali, artigianali e commerciali. La psicopandemia è stata condotta all’insegna della metafora bellica, e gli effetti sono stati analoghi, cioè la deindustrializzazione e la pauperizzazione. I lockdown hanno aumentato la povertà e favorito la concentrazione della ricchezza in un’oligarchia ristretta e la concentrazione dei capitali in poche multinazionali finanziarie. Si è trattato di un grande trasferimento di reddito dai poveri ai ricchi; si è accertato infatti che c’è stato
un drastico aumento delle disuguaglianze. Il concetto di economia quindi non è soltanto astratto ma anche interclassista.