Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
La Corte dei Conti ha scoperto che la normativa sulla rotazione obbligatoria dei dirigenti scolastici dopo due incarichi triennali, risulta largamente disapplicata. Si stima che circa un sesto dei dirigenti dovrebbe essere trasferito in altra sede (una valutazione che è probabilmente per difetto); ma si sa che il Ministero dell’Istruzione è abituato ad infischiarsene delle leggi. La stessa figura del dirigente scolastico (quello che una volta si chiamava il preside) si è espansa a dismisura proprio in questo quadro di incertezza normativa. Negli istituti scolastici le leggi ed i regolamenti sono stati soppiantati dal Führerprinzip, il “principio del capo”, per cui è la bizzosa e mutevole volontà del dirigente a fare legge momento per momento. Il dispotismo del preside non trova alcun contrappeso e l’unico elemento di garanzia contro tale strapotere avrebbe dovuto appunto essere la rotazione; salvo accorgersi che il ministero non trasferisce i figli ma solo i figliastri.
L’autonomia scolastica e la cosiddetta “aziendalizzazione” sono state quindi gli slogan pubblicitari, le cortine fumogene, per attuare una feudalizzazione della Scuola, col dirigente a svolgere la funzione di un barone/signorotto che può abusare di tutto e tutti per il proprio tornaconto e di quello dei suoi protettori. Il personale della Scuola in maggioranza ha accettato questa condizione di umiliazione prestandosi anche a forme sordide di collaborazionismo, come il ruolo di delatore e di agente provocatore nei confronti dei colleghi. Il laboratorio-Scuola ha anticipato i comportamenti collettivi poi verificatisi durante la psicopandemia. Il test era tanto più significativo, in quanto applicato su un settore sociale istruito come gli insegnanti, che sono stati condizionati ad aspettarsi la “formazione” dall’alto, e che ormai considera l’informarsi da soli come roba da complottisti/terrapiattisti.
Ma anche ogni tentativo di opporsi a questi processi di feudalizzazione è annegato nella confusione ideologica e nell’acritica cre//]dulità, poiché si è badato troppo alle dichiarazioni astratte della legislazione scolastica e troppo poco al margine di abuso pratico che certe astrazioni concedevano. Un testo di legge è spesso più significativo per ciò che non dice, per quello spazio di illegalità che consente di creare. Lo Stato è un’astrazione giuridica, e quelle che ci vengono spacciate come “istituzioni” sono in effetti un coacervo di potentati basati su relazioni feudali di fedeltà personale o di cosca. Ciò vale anche per quei pochi funzionari indipendenti e benintenzionati, i quali riescono ad operare non in base a leggi o regolamenti, bensì per i rapporti di lealtà personale che riescono a stabilire, senza i quali rimarrebbero nella più totale impotenza. Il fondamento dello Stato, cioè la continuità della funzione, è rimasto allo stadio mitologico; per cui la “funzione pubblica” del singolo funzionario può esplicarsi solo se supportata da rapporti privati ed extraistituzionali (tanto per capirsi: gli amici e gli amici degli amici).
Per impedire che venga attuata la rotazione dei dirigenti scolastici, oggi ci si viene persino a raccontare che l’Anticorruzione avrebbe collocato la Scuola nel novero dei settori a basso rischio corruttivo, in quanto circolerebbero pochi soldi. Quando però si è trattato di umiliare gli insegnanti, l’Anticorruzione non la pensava così; e infatti nel 2019 alcuni agenti della Guardia di Finanza furono inviati in un liceo torinese ad identificare gli insegnanti nelle classi, insinuando che questi mandassero qualcun altro non solo a passare il badge ma anche a fare lezione, magari camuffandosi per ingannare la classe. Forse si è ritenuto che le intimidazioni e le vessazioni inflitte dai dirigenti scolastici non fossero sufficienti, e che occorresse ricordare agli insegnanti che l’aspetto pratico della sedicente “aziendalizzazione” della Scuola consiste nella loro licenziabilità.
Che nella Scuola circolino pochi soldi, è inoltre una notizia priva di fondamento. La digitalizzazione dell’istruzione, i corsi di formazione dei docenti e l’alternanza Scuola-lavoro comportano un giro d’affari non indifferente. Ormai l’istruzione è solo un pretesto, e lo scopo della baracca è il business della digitalizzazione. Il PNRR stanzia una gran quantità di soldi per la Scuola 4.0, una farneticante utopia di istruzione basata su “classi virtuali” (come se adesso fossero reali). Tutti questi costosi gadget tecnologici forniti dalle multinazionali del digitale, dovrebbero ovviamente essere installati in strutture scolastiche fatiscenti sia per ciò che riguarda gli edifici, sia per gli impianti elettrici. Si può dare retta a certi dispendiosi voli pindarici sulla digitalizzazione, solo se si fa finta di credere che l’elettronica possa fare a meno di un’adeguata base elettrotecnica tenuta in costante manutenzione.
I soldi che girano nella Scuola creano appetiti anche nelle Regioni, che vogliono giustamente partecipare al banchetto. Il vero oggetto del contendere della cosiddetta “autonomia differenziata” è infatti il flusso di finanziamenti per la digitalizzazione dell’istruzione. La Sanità è stata un collettore fondamentale per distribuire soldi ad aziende private, ma la Scuola pare persino più promettente. È infatti lì che vanno a parare i progetti delle Regioni, come il Veneto, che hanno avuto l’ingenuità di scoprire subito le carte e le vere intenzioni.
Da tempo il PD ha scoperto che l’autonomia differenziata “è di sinistra” (e non c’era da dubitarne, considerando i soldi che girano). Al di là delle pantomime polemiche, l’autonomia differenziata è un obbiettivo trasversale, che coinvolge tutti i partiti. Come al solito, anche i pochi che cercano di opporsi cadono nelle trappole propagandistiche. L’autonomia differenziata viene infatti venduta alle popolazioni settentrionali come un modo per far rimanere al Nord i proventi del fisco e così smettere di finanziare il Sud. In realtà il Sud è da sempre strutturalmente sottofinanziato, ed anche i pochi soldi che vengono stanziati non sono spesi, e non per generica “inefficienza”, bensì per perpetuare il ruolo storico di colonie deflazionistiche delle Regioni meridionali.
Le colonie deflazionistiche svolgono la funzione di valvole con le quali è possibile contrarre la produzione e l’economia, in modo da evitare i deficit nella bilancia commerciale e nella bilancia dei pagamenti che possono verificarsi a causa degli eccessivi acquisti di materie prime all’estero. Checché ne dicano i neoborbonici, il Sud preunitario, a parte alcune eccellenze industriali e agricole, era piuttosto povero; però, grazie all’Unità d’Italia, è diventato poverissimo. Sembrerebbe quindi che la legittimazione dell’annessione del Sud sia fondata su una fiaba senza lieto fine. In realtà il lieto fine c’è stato, eccome, per quelle oligarchie meridionali che sono riuscite a riciclarsi come agenzie di autocolonizzazione: dapprima i baroni latifondisti, poi gli eredi dei cosiddetti campieri. Ora che l’intera Italia svolge il ruolo di colonia deflazionistica d’Europa, gli oligarchi meridionali possono emergere alla grande, proprio perché in grado di vantare un know-how secolare nella gestione coloniale. Le oligarchie meridionali hanno trasformato il loro autorazzismo in un’ideologia vincente.
Il razzismo antimeridionale è un espediente propagandistico che non fallisce mai e con il quale è possibile abbindolare qualsiasi uditorio, facendogli smarrire le vere questioni. Anzitutto nel momento in cui le Regioni del Nord Italia vanno ad integrarsi insieme con la Baviera nell’ambito della grande Macroregione alpina, esse diventano a loro volta un Meridione, per cui è molto probabile che finiscano anch’esse a svolgere il ruolo di colonie deflazionistiche. Ma le autonomie sono anche un veicolo di feudalizzazione, cioè di creazione di potentati locali che diventerebbero molto più oppressivi e dispotici dello Stato centrale. Il motivo per cui non ci si accorge di questa ovvietà, è che si leggono le leggi nel modo sbagliato, non facendo caso al margine di abuso di potere che esse offrono. Per non farsi incantare dai finti distinguo di un fan sfegatato dell’autonomia differenziata come Stefano Bonaccini, occorre sapere da ora che una serie di misure che ci verranno presentate come contrappeso allo strapotere feudale delle Regioni, rimarranno poi non attuate.
Il fatto che colei che nel settembre scorso il settimanale tedesco Stern definiva la “donna più pericolosa d’Europa”, si sia rivelata invece la servetta più prona dell’orbe terracqueo, viene moralisticamente annoverato come un caso di incoerenza. In realtà l’incoerenza non esiste, e ciò che potrebbe apparire come tale, è in effetti solo la diretta conseguenza dell’inconsistenza pratica delle proprie idee politiche. Il nazionalismo, che la Meloni diceva di professare, è una suggestione propagandistica spesso efficace; ma, come categoria politica, il nazionalismo è stato sempre un gran vuoto. La Meloni si dimostra quindi del tutto coerente con la propria nullità.
Il nazionalismo è uno dei babau preferiti dal politicamente corretto poiché la malvagità dei nazionalisti consente, in base allo schema buono-cattivo, di legittimare indirettamente l’internazionalismo del capitale finanziario. Ma il nazionalismo non esiste sul piano della prassi politica, per cui nell’agire o si è imperialisti o si è antimperialisti; e, se si vuole essere antimperialisti, il primo imperialismo da combattere è il proprio. Le nazioni non esistono in natura, sono a loro volta prodotti artificiosi di un imperialismo, per cui gli Stati nazionali sono il risultato storico di campagne di conquista, quindi di imperialismi interni. L’imperialismo inoltre non è soltanto il rapporto di forze tra una nazione dominante ed una nazione dominata, ma è una strada a due sensi, per cui si vedono le oligarchie locali cercarsi una sponda estera, un “vincolo esterno”, che faccia loro da scudo e da alibi contro la propria popolazione. L’Italia ha perso una guerra mondiale ed è militarmente occupata dagli Stati Uniti, ma occorre anche ricordare che gli oligarchi nostrani erano in cerca di protezione straniera già da molto prima, oscillando tra la sudditanza all’imperialismo britannico a quella nei confronti dell’imperialismo germanico. Poi è arrivata la benvenuta sconfitta bellica a suggellare la compressione delle classi subalterne sotto la cappa della NATO.
Il potere militare statunitense sull’Italia è sin troppo reale, ma il fanatismo pro NATO degli oligarchi nostrani non è soltanto zelo servile, bensì un pretesto per esercitare un proprio lobbying delle armi. Che la rappresentazione narrativa crei anche vincoli esterni fittizi, è dimostrato dal fatto che la Germania ha un potere contrattuale praticamente nullo nei confronti dell’Italia, poiché un default del debito pubblico italiano affosserebbe automaticamente l’euro. Eppure gli oligarchi nostrani sono riusciti ad inventarsi uno strapotere finanziario tedesco per giustificare le angherie nei confronti dei propri lavoratori e contribuenti. La mitica avarizia tedesca non è altro che una proiezione dell’avarizia dell’oligarchia italiana. Del resto non c’è bisogno di scomodare le tesi di Diogene o di Hegel per capire che il servilismo può diventare una tecnica di condizionamento e di manipolazione nei confronti dei presunti padroni.
Ogni oligarchia ha un suo specifico percorso di grandeur, di ascesa nelle gerarchie internazionali; e gli oligarchi italici cercano la propria distinzione di rango nella dimostrazione di come riescono a controllare la popolazione, imponendole ogni sorta di umiliazione. Certe esibizioni parossistiche della propria capacità di dominio, spesso pavoneggiandosi di fronte ad esponenti stranieri, indicano l’origine arcaica e rurale dello schema di potere in Italia, ancora basato su un asse analogo a quello tra latifondista e campiere. Tra certe esibizioni di strapotere e certe ostentazioni di servilismo da parte dei nostri oligarchi, non c’è nessuna contraddizione, poiché rientrano entrambe in quello schema di oppressione rurale. Va rilevato che in Italia sono avvenute esagerazioni impossibili altrove, come il green pass per accedere al lavoro, l’obbligo vaccinale per un siero non ancora approvato, ed anche le liste di proscrizione dei “putiniani”. In fatto di brutalità in Francia il potere non è mai stato secondo a nessuno, eppure il presidente Macron ha potuto beccarsi uno sberlone da un cittadino senza che se ne facesse una tragedia nazionale. In Italia la sacralità del potere è tale che un episodio del genere sarebbe stato immediatamente catalogato come terrorismo ed avrebbe, come minimo, scatenato una caccia all’uomo per stanare uno per uno i “mandanti morali” dello sberlone. Gli sfrenati deliri vendicativi del potere nostrano rappresentano un ulteriore indizio delle sue matrici rurali, perciò si riconosce lo schema della faida, con quella suscettibilità programmatica dietro cui si nasconde la bramosia latente di regolamento di conti. La matrice arcaica della faida viene però dissimulata e mistificata attraverso verniciature pseudo-moderne, come gli schieramenti ideologici.
Ogni volta che si parla di mistificazione sociale, l’imbecille professionista grida al complottismo. In realtà la mistificazione sociale è una relazione sociale essa stessa, per cui si entra automaticamente in giochi delle parti e ci si appassiona a false alternative. La finta dicotomia tra fiscofobia della destra e fiscolatria della sedicente sinistra, non trova un riscontro nella realtà. Oggi la Meloni si “contraddice” aumentando le accise sulla benzina, ma, da brava “conservatrice”, sta facendo esattamente ciò che faceva la Thatcher, la quale spostava il peso della tassazione dalle imprese ai consumatori, con le accise. Gli sgravi fiscali sul reddito delle persone fisiche e delle società furono infatti finanziati dalla Thatcher soprattutto tramite l’aumento delle tasse sulla benzina, come a dire che si riscuoteva un balzello dai cittadini per permettergli di arrivare al posto di lavoro. Meno male che c’è il sito web della fondazione Thatcher a fornircene i documenti storici, perché se aspettavi di essere informato dai giornalisti, stavi fresco.
Molta di quella che si spaccia come critica del capitalismo, è invece adulazione del capitalismo. Chi lamenta che il capitalismo sia fondato sulla “logica del profitto”, dimentica che un certo Marx parlava di caduta tendenziale del saggio di profitto, per cui un capitalismo che si basasse sul profitto industriale non andrebbe molto lontano. Il capitale finanziario è creazione di valore fittizio, per cui quando in Borsa si gonfia il valore delle azioni vuol dire che si è preso da qualche altra parte. Questa è la routine burocratica della cleptocrazia: si spillano soldi al contribuente povero per finanziare le imprese quotate in Borsa. Questo capitalismo dipinto sempre come “muscolare” si rivela poi assistito dal denaro pubblico, cioè dipendente dall’elemosina che gli elargiscono i poveri. Sono i poveri a dover cercare di evadere il fisco, mentre i ricchi detengono il privilegio di eluderlo grazie alla mobilità internazionale dei capitali.
L’attuale governo, come già i precedenti, ha infatti stanziato agevolazioni fiscali per favorire ed incentivare la quotazione azionaria delle piccole e medie imprese. La finanziarizzazione delle piccole e medie imprese, cioè il loro ingresso in Borsa, potrebbe apparire come un’idea geniale; ed in effetti lo è, ma solo per i grandi fondi di investimento, i quali potranno facilmente scalare la proprietà azionaria di quelle imprese e impadronirsene. Il fisco quindi non serve a finanziare istruzione e sanità, bensì a favorire la concentrazione dei capitali.
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