Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Le dichiarazioni rilasciate dal ministro degli interni Amato il 15 gennaio sulla necessità di accettare l'ampliamento della base NATO di Vicenza, poi avallate dallo stesso Prodi, hanno rappresentato il coronamento e l'ovvia conclusione della gara di filo-americanismo iniziata dalle accuse al governo lanciate da Berlusconi qualche giorno fa. In questa polemica è mancata completamente la giustificazione strategica dell'ampliamento della base NATO, infatti non è stato assolutamente spiegato chi sarebbe il nemico da contrastare. C'è stato anche chi dal governo ha detto che bisogna accettare l'ampliamento perché sarebbe per Vicenza una occasione di sviluppo, cioè lo stesso argomento che veniva adoperato per giustificare la base NATO di Bagnoli a Napoli, così anche i Veneti hanno potuto provare l'ebbrezza di essere trattati come meridionali. Fassino ha addirittura proposto a riguardo un referendum consultivo fra i Vicentini, chiarendo in anticipo che tale iniziativa servirebbe a convincere i cittadini, non a raccoglierne effettivamente il parere.
La dichiarazione più intelligente a riguardo non è stata quella del super-intellettuale Giuliano Amato, ma del ministro più naif, Clemente Mastella, il quale ha giustificato l'accettazione dell'ampliamento della base NATO semplicemente con l'osservazione che gli Stati Uniti non sopporterebbero un rifiuto.
Durante lo scandalo del contrabbando di petrolio del 1980 non uscì ovviamente fuori nessun legame esplicito tra il traffico illegale e la base di Vicenza, ma tutte le indagini individuarono nella zona di Vicenza l'epicentro del contrabbando, lasciando così a chi lo voleva la possibilità di fare due più due. Sino al XVIII secolo le immunità ecclesiastiche consentivano al clero non solo di sfuggire alle imposte sui redditi da immobili, ma anche di organizzare in grande stile il contrabbando, perciò i monasteri, e persino le scale delle chiese, erano il luogo di mercati illegali che sfuggivano alle imposte. È significativo che la dottrina morale della Chiesa cattolica non abbia mai considerato il contrabbando come un peccato, neppure veniale.
Oggi che le immunità ecclesiastiche sono in gran parte cessate - anche se non del tutto -, la grande area di immunità è quella consentita dai trattati internazionali, le cui clausole sfuggono completamente al controllo dei parlamenti e delle magistrature. Pensare che gli Stati Uniti possano fare a loro volta ciò che fecero a suo tempo i preti, cioè approfittare dei privilegi di extraterritorialità assicurati dai trattati alle basi americane e NATO, viene considerata una manifestazione di antiamericanismo e di "complottismo".
In realtà il cosiddetto complottismo si fonda sulla stessa tesi che è alla base dello Stato di Diritto, cioè che non ci devono essere immunità perché queste comportano automaticamente abuso. La concezione dello Stato di Diritto è rimasta purtroppo un'utopia, ma ha avuto comunque il merito di mettere in evidenza che la vera garanzia per tutti è che non ci siano privilegi per nessuno.
Anche le accuse di antiamericanismo pongono la questione nei termini di un'ostilità pregiudiziale verso i nostri "alleati", quando invece il problema riguarda l'impunità legale di cui essi godono, come ha dimostrato anche la strage della funivia del Cermis, perpetrata a bella posta per ribadire brutalmente questa impunità.
Nel 1900 la rivolta cinese dei Boxer - cioè degli allievi delle scuole di Kung fu - subì da parte della propaganda occidentale l'etichetta di xenofobia, di pregiudizio contro lo straniero. Che gli stranieri - fra cui c'erano anche gli Italiani - avessero approfittato dei privilegi di extraterritorialità assicurati dai trattati estorti al governo cinese per compiere in Cina ogni sorta di sopruso e di traffico, fu omesso ovviamente dalla propaganda occidentale. I rivoltosi cinesi furono perciò accusati di demonizzare l'occidente, non di combattere gli abusi perpetrati dai colonialisti tramite i trattati internazionali.
La stessa propaganda vale anche oggi, ma del resto non sarebbe ragionevole attendersi che i colonialisti riconoscano le ragioni di chi non vuole essere colonizzato.
18 gennaio 2007
Da settimane il dibattito politico ripropone l'emergenza pensioni, mentre giornali e telegiornali danno uno spazio crescente a comunicazioni di agenzie europee ed internazionali sulla urgenza di affrontare la crisi previdenziale in Italia. Com'era prevedibile, la recrudescenza della propaganda sulla necessità di una ulteriore riforma delle pensioni ha avuto come immediato effetto pratico un aumento delle domande di pensionamento, per il timore dei lavoratori di incorrere nelle nuove normative, e ciò proprio mentre si parla in astratto di un aumento dell'età pensionabile.
Che questo effetto sia voluto non è la solita ipotesi da liquidare come dietrologica, dato che è confermato dalle dichiarazioni del Ministro delle Riforme Nicolais, che ha dichiarato di voler ridurre il personale della pubblica amministrazione anche tramite incentivi al pensionamento anticipato. Quindi, non soltanto non viene incentivato l'innalzamento dell'età pensionabile, ma è al contrario il prepensionamento che viene favorito.
I conti pubblici ed i conti previdenziali non c'entrano nulla con le continue minacce di riforma delle pensioni, poiché lo scopo perseguito è quello di ridurre al massimo il lavoro stabile per sostituirlo con lavoro precario o non sostituirlo affatto. Nel processo di precarizzazione rientrano anche la propaganda sulla necessità di inserire il merito e la valutazione nella gestione del lavoro. Si tratta di un discorso astratto e demagogico che può facilmente riscuotere il consenso da un'opinione pubblica ormai indottrinata da decenni su questi temi.
In realtà è scontato che la valutazione può facilmente diventare essa stessa - sia se condotta da organi interni che affidata a organi esterni - un momento di potere clientelare se non dichiara preventivamente le sue procedure e le sue garanzie. Gli articoli che Pietro Ichino da tempo dedica a questa materia, si ammantano di una retorica efficientistica, ma appena li si analizza denotano il loro carattere di generici appelli moralistici.
Perciò anche questa propaganda non ha altro effetto pratico che spaventare il personale, spingendo coloro che già possono ad andare in pensione.
Questa linea, nell'ambito della pubblica amministrazione, si scontra ancora con i limiti oggettivi imposti dall'organizzazione del lavoro, mentre nel settore privato tutto ciò si è già risolto in una accentuazione del processo di deindustrializzazione iniziato più di trenta anni fa. È evidente che una società divisa fra precari, pensionati e clandestini non ha molte risorse per competere, ma in compenso può essere tenuta in una condizione permanente di conflitto generazionale ed etnico. Questi sono i lineamenti inconfondibili di un processo di colonizzazione, la cui profondità e gravità sfugge a causa della cortina di propaganda che l'avvolge. La propaganda ufficiale è riuscita infatti ad annullare qualsiasi traccia di pensiero concreto.
In una visione astratta del capitalismo può apparire priva di senso una ristrutturazione del lavoro che risulti così onerosa per l'apparato previdenziale. Occorre uscire perciò dalle analisi strettamente economicistiche per integrare il concetto di capitalismo con quello di colonialismo. In una logica colonialistica è perfettamente logico che i costi del processo di colonizzazione vengano scaricati sullo stesso Paese colonizzato.
Il dissesto delle previdenza sociale non è quindi un evento paventato, ma al contrario pianificato, è un costo necessario fatto pagare all'Italia, per neutralizzare la stessa Italia come concorrente e renderla una colonia commerciale degli Stati Uniti.
Da settimane il dibattito politico ripropone l'emergenza pensioni, mentre giornali e telegiornali danno uno spazio crescente a comunicazioni di agenzie europee ed internazionali sulla urgenza di affrontare la crisi previdenziale in Italia. Com'era prevedibile, la recrudescenza della propaganda sulla necessità di una ulteriore riforma delle pensioni ha avuto come immediato effetto pratico un aumento delle domande di pensionamento, per il timore dei lavoratori di incorrere nelle nuove normative, e ciò proprio mentre si parla in astratto di un aumento dell'età pensionabile.
Che questo effetto sia voluto non è la solita ipotesi da liquidare come dietrologica, dato che è confermato dalle dichiarazioni del Ministro delle Riforme Nicolais, che ha dichiarato di voler ridurre il personale della pubblica amministrazione anche tramite incentivi al pensionamento anticipato. Quindi, non soltanto non viene incentivato l'innalzamento dell'età pensionabile, ma è al contrario il prepensionamento che viene favorito.
I conti pubblici ed i conti previdenziali non c'entrano nulla con le continue minacce di riforma delle pensioni, poiché lo scopo perseguito è quello di ridurre al massimo il lavoro stabile per sostituirlo con lavoro precario o non sostituirlo affatto. Nel processo di precarizzazione rientrano anche la propaganda sulla necessità di inserire il merito e la valutazione nella gestione del lavoro. Si tratta di un discorso astratto e demagogico che può facilmente riscuotere il consenso da un'opinione pubblica ormai indottrinata da decenni su questi temi.
In realtà è scontato che la valutazione può facilmente diventare essa stessa - sia se condotta da organi interni che affidata a organi esterni - un momento di potere clientelare se non dichiara preventivamente le sue procedure e le sue garanzie. Gli articoli che Pietro Ichino da tempo dedica a questa materia, si ammantano di una retorica efficientistica, ma appena li si analizza denotano il loro carattere di generici appelli moralistici.
Perciò anche questa propaganda non ha altro effetto pratico che spaventare il personale, spingendo coloro che già possono ad andare in pensione.
Questa linea, nell'ambito della pubblica amministrazione, si scontra ancora con i limiti oggettivi imposti dall'organizzazione del lavoro, mentre nel settore privato tutto ciò si è già risolto in una accentuazione del processo di deindustrializzazione iniziato più di trenta anni fa. È evidente che una società divisa fra precari, pensionati e clandestini non ha molte risorse per competere, ma in compenso può essere tenuta in una condizione permanente di conflitto generazionale ed etnico. Questi sono i lineamenti inconfondibili di un processo di colonizzazione, la cui profondità e gravità sfugge a causa della cortina di propaganda che l'avvolge. La propaganda ufficiale è riuscita infatti ad annullare qualsiasi traccia di pensiero concreto.
In una visione astratta del capitalismo può apparire priva di senso una ristrutturazione del lavoro che risulti così onerosa per l'apparato previdenziale. Occorre uscire perciò dalle analisi strettamente economicistiche per integrare il concetto di capitalismo con quello di colonialismo. In una logica colonialistica è perfettamente logico che i costi del processo di colonizzazione vengano scaricati sullo stesso Paese colonizzato.
Il dissesto delle previdenza sociale non è quindi un evento paventato, ma al contrario pianificato, è un costo necessario fatto pagare all'Italia, per neutralizzare la stessa Italia come concorrente e renderla una colonia commerciale degli Stati Uniti.
25 gennaio 2007
25 gennaio 2007
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