Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il progetto americano di “afganizzazione” dell’Ucraina non poteva essere ignoto allo stato maggiore russo all’atto dell’invasione, dato che era già stato ampiamente anticipato da notizie della stampa occidentale. Il 20 dicembre dello scorso anno il quotidiano britannico Daily Mirror narrava di un piano segreto dei servizi di intelligence statunitensi per addestrare alla guerriglia truppe ucraine in vista di un’invasione russa.
Prima ancora di quell’articolo, il 6 dicembre dello scorso anno, una notizia analoga, e più particolareggiata, era stata pubblicata sul sito del Consiglio Atlantico, che è una sorta di forum ideologico euro-americano fondato nel 1961 in funzione dello sviluppo della NATO. L’articolo dava conto delle spese militari sostenute dagli USA per fornire supporto alla resistenza ucraina in caso di invasione: 2,5 miliardi di dollari dal 2014, e 400 milioni per il solo 2021. L’articolo si soffermava ampiamente sulle tattiche militari e sul tipo di armi da utilizzare in base alle caratteristiche del territorio ucraino per fronteggiare un’invasione. Secondo l’Atlantic Council quelle spese e quei programmi di addestramento però non dovevano risultare segreti, anzi, dovevano svolgere una funzione di deterrenza in modo da rendere insostenibile un’occupazione del suolo ucraino.
Con questa militarizzazione del suolo ucraino, probabilmente la popolazione ucraina c’entra in minima parte. L’afflusso di mercenari stranieri dal 2014 è stato incessante. Ci sono state anche notizie di stampa che illustravano i dettagli del reclutamento di mercenari nei Balcani da parte della ex Blackwater, che oggi si fa chiamare Academi.
Lo scrittore americano Ambrose Bierce, proveniente dalla carriera militare e fondatore, insieme con Mark Twain, della Lega Antimperialista americana, aveva detto che Dio ha creato la guerra perché gli esseri umani imparassero la geografia. In base alla geografia, non si capirebbe il motivo per cui i Russi dovrebbero occupare tutta l’Ucraina, dal momento che possono minacciarne in ogni momento la capitale Kiev partendo dalla vicinissima Bielorussia, ora alleata del Cremlino; e inoltre possono semplicemente sottrarle l’accesso al mare occupando la fascia che va dal Donbass alla Crimea. Anche lasciando Odessa, con il suo prezioso porto, all’Ucraina, la città si troverebbe comunque stretta in un collo di bottiglia. La vulnerabilità geografica dell’Ucraina è tale che una sua “afganizzazione” risulta abbastanza irrealistica e quindi l’ipotesi non giustificava tante spese. A proposito di spese, altrettanto irrealistica appariva l’ipotesi di un’occupazione dell’intera Ucraina, considerando i costi insostenibili per un imperialismo povero come quello russo. Basti pensare che Israele ha potuto permettersi una così lunga occupazione della Cisgiordania perché è l’Unione Europea a sobbarcarsi la spesa del mantenimento della popolazione palestinese e della sua amministrazione.
Probabilmente non è mai esistito un periodo della Storia in cui non si sia “mangiato”, e a dismisura, sulle spese militari. Il problema è che nell’epoca del lobbying vi è stata un’inversione del rapporto, per cui ora il militarismo è in funzione della spesa e non viceversa. Un caso divenuto un classico è la voragine finanziaria dei caccia Lockheed Martin F35, ribattezzato l’aereo più costoso della Storia, tanto che la messa a punto dei suoi innumerevoli difetti di costruzione genera in continuazione nuove esigenze di spesa.
Il caccia F35 è come il virus: adesso siamo già alla quinta ondata, o alla quinta dose. Da questo punto di vista il caccia F35 può considerarsi un grande successo in termini di profitto. Come il siero Pfizer, se il caccia F35 fosse stato efficiente non avrebbe reso tanto. Si tratta della combinazione esplosiva tra i flussi di capitali privati nelle Borse e il denaro pubblico. Nelle spese militari il cliente è lo Stato e quindi i profitti sono assicurati, ed è ovvio che nelle Borse i soldi seguano i soldi. Gli F35 dovrebbero anche completare la servitù militare italiana. Già ora l’Italia è sede di armi nucleari strategiche, e gli F35 sono in grado a loro volta di portare bombe nucleari all’idrogeno indicate allegramente come “tattiche”, le B61 modello 12. “Tattiche” vorrebbe dire che potrebbero essere sganciate sul proprio stesso suolo o in prossimità. Quando si dice la sicurezza.
In Italia ora ci viene anche detto che la decisione di portare la spesa militare al 2% del PIL era stata presa dal 2014, quindi l’invasione dell’Ucraina è stata solo l’occasione, o il pretesto, per giustificarlo. Il 2% significherebbe incrementare la spesa dagli attuali 23 miliardi annui a 35 miliardi. Niente male per le oligarchie del settore, quelle che controllano Iveco, Oto Melara e consimili.
Il paradosso è che le maggiori critiche al sistema dell’incremento costante delle spese militari provengono oggi dall’interno dello stesso militarismo americano, con la denuncia del sistema delle porte girevoli tra Pentagono ed aziende private che fa lievitare i costi per armamenti dalle prestazioni sempre più incerte. Non che in Europa e in Italia le cose vadano diversamente. Nel Project On Government Oversight (POGO) confluiscono anche veterani delle forze armate statunitensi che sono preoccupati per il degrado del loro apparato bellico. La “scoperta” di POGO è che spendere di più in armamenti non significa per nulla essere meglio armati. Vai a vedere che oggi i veri antimilitaristi sono quelli che vogliono l’aumento delle spese militari. Paradossi del lobbying.
Perché il presidente USA non perde mai occasione per “bruciarsi” come interlocutore delle altre grandi potenze? Le dichiarazioni di Joe Biden in Polonia hanno sconcertato molti commentatori, alcuni dei quali hanno parlato di “chiacchiere da bar”.
Collocando però quelle dichiarazioni nel loro contesto, si può forse capire qualcosa di più. Nello stesso periodo in cui Biden era in corsa per l’elezione, nel settembre 2020, una commissione del senato statunitense stilava un rapporto sui conflitti di interesse e sui casi di corruzione legati all’attività del figlio di Biden Hunter in Ucraina, soffermandosi sui suoi rapporti con Burisma, una società privata cipriota, che è anche la principale azienda energetica che opera in Ucraina. Il testo, disponibile in PDF, è impressionante per i dettagli. La relazione della commissione senatoriale non venne ritenuta sufficientemente attendibile e non determinò ostacoli all’elezione di Biden. La quantità di fatti elencati nel rapporto era comunque tale da tenere sulla corda Biden, e infatti in questi giorni i due maggiori quotidiani statunitensi stanno riportando all’attenzione il caso di Hunter Biden. Sembrerebbe proprio che il fatto che Biden fosse il personaggio più ricattabile sulla piazza, sia stato determinante per spianargli la strada alla presidenza. La ricattabilità è il viatico per assurgere alle maggiori cariche.
Il principale collaboratore di Biden, il segretario di Stato Antony Blinken, aveva già fatto parte dell’amministrazione Obama e, una volta cessato il servizio, ha fondato nel 2017 una società privata di servizi diplomatici in funzione del business, la WestExec Advisors. Si tratta di uno dei tantissimi casi di porta girevole tra pubblico e privato dell’amministrazione Biden, un dato che è stato messo in evidenza da molte testate giornalistiche americane. Ovviamente Blinken è considerato un “falco” ed è anche un esportatore di democrazia e, visto quanto gli rende finanziariamente il business bellico dell’esportazione di democrazia, non c’è da dargli torto.
Mescolare affari e ideali funziona, perché le armi sono il business ideale, dato che a pagare è il contribuente, quindi non c’è rischio d’impresa. Nel loro piccolo anche i piddini si sono trasformati in “falchi” per allestire la loro lobby delle armi in stile Blinken. L’ex ministro Marco Minniti è diventato presidente della Med-Or, una fondazione del gruppo della ex Finmeccanica, che oggi si fa chiamare Leonardo; forse perché il più grande dei pittori era anche il più grande dei bidonisti come ingegnere militare. Ma il modello del lobbying militare sta prendendo piede e, chissà, vedremo anche Luigi Di Maio CEO di Leonardo.
Al ruolo di segretario alla Difesa era candidata la principale collaboratrice di Blinken, Michèle Flournoy, che è anche cofondatrice della WestExec Advisors. Purtroppo la Flournoy non ce l’ha fatta, ed al suo posto è stato nominato Lloyd Austin, il supergenerale che ha condotto la guerra in Afghanistan fino al 2016. Come i suoi predecessori anche Austin nel periodo successivo al pensionamento è entrato nel gruppo dirigente di un’industria di armamenti. Austin ha scelto (o è stato scelto?) Raytheon Technologies, che, manco a dirlo, è uno dei maggiori fornitori della Difesa.
La biografia del vicesegretario alla Difesa, Kathleen Hicks, sembrerebbe più immacolata, infatti il suo impegno privato riguarderebbe solo una apparentemente innocua associazione non profit, il prestigioso Center for Strategic and International Studies.
Sennonché si può notare che uno dei principali finanziatori del CSIS è un’industria di armamenti, la Northrop Grumman Corporation. Come la Raitheon Technologies, anche la Northrop Grumman è uno dei principali fornitori privati della Difesa USA. Le fondazioni non profit rientrano infatti nel lobbying occulto.
L’attuale vicesegretario di Stato, Wendy Sherman, proviene dal gruppo dirigente di un’altra società di consulenza di affari internazionali, l’Albright Stonebridge Group, fondato da Madeleine Albright, da poco scomparsa, che era stata segretario di Stato durante la seconda presidenza Clinton. Dalla stessa associazione privata proviene anche un’altra esponente del Dipartimento di Stato, Victoria Nuland, che ha svolto un ruolo decisivo nella vicenda ucraina a partire dal colpo di Stato del 2014. Il trionfo della porta girevole in funzione del business della guerra infinita.
Tutto questo elenco rappresenta solo un piccolo assaggio della rete del lobbying nell’apparato governativo statunitense, e per descrivere nei dettagli questa rete non basterebbe un’enciclopedia. La questione, ovvia, che si pone a questo punto è quale senso abbia parlare ancora di interesse nazionale o di interesse imperiale americano. Per le lobby d'affari il problema è di individuare il business e gli slogan pubblicitari atti a veicolarlo. Una lobbycrazia non può permettersi un presidente che interloquisca con le potenze rivali e prenda accordi con loro, poiché ciò disturberebbe il business della guerra infinita. Una lobbycrazia non si regge su leadership o strategie ma sull’automatismo delle complicità affaristiche.
Per imperialismi tradizionali come la Russia o la Cina la prospettiva sarebbe invece di trovare negli USA un interlocutore e una controparte per negoziare gli equilibri di potenza e le rispettive sfere di influenza. Ma come si può pensare a nuove Yalta quando gli USA non sono più un soggetto statuale tradizionale ma una rete di imbonitori affaristi?
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