Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
La notizia è di quelle che lasciano nello sconcerto. Ancora una volta non si può non deprecare l’irresponsabilità del presidente USA, il cialtrone Donald Trump. Ormai è ufficiale: grazie ad un tweet di CialTrump abbiamo saputo che gli Stati Uniti sospenderanno i finanziamenti al terrorismo organizzato dal Pakistan. Rischierebbero di finire senza soldi i Talebani, la rete Haqqani, l’organizzazione Lashkar-e Taiba e tante altre reti terroristiche finanziate dall’ISI, l’Inter-Service Intelligence pakistana, con i soldi americani. CialTrump ha dichiarato che negli ultimi quindici anni gli Stati Uniti hanno elargito più di trentatré miliardi di dollari al Pakistan che finivano in buona parte all’ISI, che poi li passava ai terroristi, anche attraverso il Coalition Support Fund.
Ora, è vero che gli USA mantengono in piedi gran parte del terrorismo internazionale attraverso un welfare terroristico impegnativo, ma ci pare che i pakistani avessero svolto bene il loro ruolo complementare di destabilizzazione negli ultimi decenni, con solo un miliardo e trecento milioni di dollari all’anno a disposizione. Una miope considerazione contabile non dovrebbe privare questi preziosi collaboratori degli Stati Uniti di un sostegno così importante. Obama, negli anni del suo mandato, non si era mai sognato di arrivare a tanto.
Non si spiegherebbe tanta ingratitudine da parte di un presidente USA nei confronti di un Paese come il Pakistan, decisivo nel vincere la Guerra Fredda ed anche nel destabilizzare Libia e Siria, se non si entra nella psicologia delle destre, nella loro capacità di assumere il proprio vittimismo come categoria assoluta, di suggestionarsi con la propria stessa ipocrisia sino a vibrare di autentico rancore. Probabilmente CialTrump si sente davvero defraudato dal Pakistan dato che i risultati della destabilizzazione non sono stati quelli auspicati.
CialTrump è stato funzionale ad intercettare ed interpretare la disillusione delle masse americane che non vedono ricadute positive per il loro livello di vita in tanto attivismo imperialistico degli USA. CialTrump però è stato altrettanto svelto nel sostituire un’illusione con un’altra, riconvertendo il disagio delle masse americane in un pretesto per un ulteriore assistenzialismo per ricchi. Alla fine il vittimismo dei ricchi si sovrappone sempre alle lamentele dei poveri, le fagocita e le soppianta. La riforma fiscale di CialTrump costituisce infatti un taglio senza precedenti delle tasse per le imprese, un taglio che, secondo lo “story telling” ufficiale, dovrebbe favorire un rilancio dell’economia, dell’occupazione e dei salari. Insomma, si vuol far credere che detassando i ricchi si arricchiscono i poveri.
CialTrump ha trovato subito imitatori. Anche da noi “Italy first”, il vittimismo nazional-sovranista, si è risolto in qualche vaga promessa da parte della Lega di uscire (forse) dall’euro, ma soprattutto nel proposito del cartello elettorale delle destre di adottare una “flat tax”, un’aliquota fiscale bassa e unica.
Un aiutino, come sempre, la propaganda delle destre lo ha ricevuto dalle “sinistre”, pronte a riproporre lo stanco “story telling” opposto, cioè della fiaba della necessità di un adeguato prelievo fiscale per finanziare il “welfare”. Ciò negli stessi giorni in cui l’opinione pubblica scopriva che gli incentivi governativi alle imprese erano stati usati da una multinazionale brasiliana per delocalizzare una fabbrica.
Sino a venti anni fa chi parlava dei tanti finanziamenti che lo Stato, l’UE e le Regioni versano alle imprese, veniva preso come minimo per scemo. Adesso finalmente la questione è arrivata anche a conoscenza dell’opinione pubblica, ma viene raccontata in modo da far credere che lo si faccia per incrementare l’occupazione. La realtà è invece che l’operaio paga le tasse per finanziare il proprio licenziamento o, bene che vada, la propria precarizzazione.
All’ottimismo antropologico delle “sinistre” che propinano l’improbabile equazione “tasse uguale a welfare”, corrisponde l’ottimismo antropologico delle destre, che ci ammanniscono un’equazione ancora più fiabesca: “meno tasse più investimenti”. Quanto ad ottimismo antropologico le destre tendono addirittura a strafare, creando il mito di una sorta di super-razza: i mitici “imprenditori”, esseri superiori ansiosi di creare ricchezza da mettere a disposizione della società.
La balla è clamorosa. L’esperienza concreta indica infatti che le imprese non investono quanto risparmiato sul fisco in investimenti produttivi, bensì in operazioni finanziarie. In particolare è stato oggetto di studi scientifici il fenomeno per il quale le imprese quotate in Borsa acquistano propri titoli per aumentarne artificiosamente il valore. Quindi l’equazione corretta è “meno tasse più bolle speculative.
Renzi si è reso odioso poiché viene percepito da gran parte dell’opinione pubblica non come un politico ma come un lobbista, come un servitore di interessi di potentati privati. La percezione non è dovuta a commenti malevoli o a “fake news”, ma allo stesso modo di porsi di Renzi, riconfermatosi anche dopo l’ennesima batosta elettorale; un atteggiamento altezzoso e schernevole verso l’uditorio, che suggerisce un messaggio implicito che va oltre le parole: ”io non devo rendere conto a voi, ma a quelli che mi hanno messo qui, a cui voi non sareste neppure degni di sciogliere i calzari”. Bisogna vedere perciò se la sconfitta di Renzi sul piano elettorale implichi anche una sconfitta del lobbying che egli rappresenta.
Sino agli ultimi giorni di campagna elettorale Renzi non ha rinunciato al suo ruolo di lobbista, tanto da usare il caso della maestra Lavinia Flavia Cassaro, colta dalla solita “provvidenziale” telecamera ad inveire contro dei poliziotti durante una manifestazione antifascista. Renzi è arrivato ad invocare il licenziamento dell’insegnante per quel suo comportamento. La ministra dell’Istruzione ed il direttore dell’Ufficio Scolastico Regionale competente hanno prontamente obbedito aprendo una procedura disciplinare contro Lavinia. Il dogma lobbistico della licenziabilità del dipendente pubblico si è esteso quindi sino a coinvolgere comportamenti che avvengano fuori del luogo di lavoro.
Ora si pretende che dopo aver subito una carica e delle manganellate, i manifestanti mantengano uno stile sobrio e "istituzionale", che un insegnante emani santità anche fuori dal contesto scolastico e reagisca alle provocazioni poliziesche magari citando Calamandrei, in base alla melassa del politicorretto vigente. Quanto questa melassa sia melmosa e subdola, lo si è riscontrato allorché a delle frasi dettate da un momento di esasperazione, i media hanno voluto attribuire il valore di un programma politico.
In base ad un astratto standard di irreprensibilità si è avviato un linciaggio nei confronti della maestra, additando alla pubblica opinione il suo rifiuto di “pentirsi”, non si sa bene di che, forse di blasfemia o lesa Maestà. In realtà non ci sono neanche gli estremi dell’oltraggio a pubblico ufficiale, dato che si trattava di uno sfogo che sarebbe rimasto senza destinatari se non vi fosse stata la “provvidenziale” telecamera ad attribuirle il valore di un messaggio, creando così artificiosamente il caso.
Il caso di Lavinia rappresenta una svolta storica poiché vede estendersi le pratiche di mobbing lavorativo dal luogo di lavoro al sociale tout court. Si è voluto fabbricare un precedente da utilizzare anche in futuro e lo si è fatto senza alcuna base giuridica, dato che dal 1993 il rapporto di lavoro dei docenti è regolato da un contratto di natura privata, che non consentirebbe al datore di lavoro di debordare dall’ambito della prestazione lavorativa.
Sul luogo di lavoro il dipendente “licenziando” viene sottoposto a provocazioni da parte del Dirigente e di colleghi compiacenti, in modo da indurlo a reazioni che configurino un illecito disciplinare. Nell’ambito del lavoro però queste tattiche di mobbing risultano sempre meno efficaci dato che molti lavoratori ne hanno colto lo scopo ed hanno fatto ricorso alle opportune contromisure. Accade così che, nelle guerre psicologiche che si svolgono sul luogo di lavoro, spesso siano i dirigenti “mobbizzatori” a soccombere e dare di matto.
Occorreva quindi estendere la provocazione anche fuori del luogo di lavoro, in modo che il lavoratore fosse sotto tiro H24; tanto che viene da sospettare che certe telecamere non siano lì a caso.
La provocazione poliziesca è un sistema che non si limita al random dei pestaggi e della ripresa video delle eventuali reazioni. La provocazione ha assunto infatti una sua “dignità” giuridica come strumento di “indagine”, perciò la figura dell’agente provocatore è stata accolta dalla legislazione e dalla giurisprudenza sia italiana che europea. Nel programma del Movimento 5 Stelle sulla Giustizia si propone esplicitamente di far ricorso all’agente provocatore anche per i reati della Pubblica Amministrazione. In realtà il moralismo 5 Stelle non fa altro che avallare una pratica già prevista e già in atto.
Cambiano i partiti ma i dogmi lobbistici rimangono gli stessi. Il problema è che il lobbismo ha acquisito ormai un monopolio ideologico e le centrali sovranazionali del lobbying (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale) sono quelle che ispirano i programmi dei partiti anche al di là delle intenzioni soggettive.
Meno male che c’è la Corte di Cassazione a vigilare perché non avvengano abusi nell’uso dello strumento della provocazione a fini di indagine. Si fa per dire, dato che la Corte si spinge addirittura ad affermare che la istigazione a delinquere da parte dell’agente provocatore sia legittima, purché si configuri come “concausa” e non come causa esclusiva del reato. Qui siamo sul piano non delle sentenze ma delle boutade, visto che sul piano pratico è impossibile distinguere tra concausa e causa esclusiva. La Corte di Cassazione lascia perciò mano libera alla provocazione poliziesca.
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