Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il mainstream ha ormai sposato l’idea di una nuova guerra fredda tra USA e Cina. Questa presunta guerra fredda è oggetto di analisi da parte dei centri-studi di questioni globali, come l’ISPI, l’Istituto di Studi di Politica Internazionale. Fondato nel 1934 dal regime fascista, l’ISPI era il centro-studi che consigliava Mussolini. Visti i risultati, già da allora era il caso di prendere con le molle le sue analisi, ed oggi le cose non sembrano andare diversamente.
Su Ispionline si trova infatti
uno strano articolo, nel quale indirettamente si riconosce che, aldilà delle velleità soggettive degli USA, oggi non vi sono le condizioni oggettive di una nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Cina, poiché in tutta evidenza mancano le basi per un duopolio mondiale tra le due potenze. La Cina infatti intrattiene rapporti economici con quasi tutto il mondo ma non è egemone in nessuna area. L’unica base militare all’estero della Cina è a Gibuti in Africa, ma è poca cosa in rapporto alla presenza economica che ha in quel continente. Ce ne sarebbe a sufficienza per fare giustizia di tutte le narrazioni da talk-show sulla minaccia globale della Cina, invece lo “studioso” autore dell’articolo conclude che una guerra fredda comunque c’è e che agli Europei conviene allinearsi al volere degli USA.
Non mancano altri commentatori che a tale conclusione aggiungono una curiosa postilla ad uso italiano, cioè sfruttare le avance della Cina nei confronti dell’Italia per rinegoziare con gli USA i termini della nostra rinnovata fedeltà atlantica. Che l’Italia possa essere riconosciuta come interlocutore dagli USA, è già di per sé un’idea abbastanza irrealistica; ma anche chi propone semplicemente di allinearsi al volere degli USA, dovrebbe tenere conto del fatto che esistono due modi alternativi per scontentare Washington: non fare quello che dice, oppure fare quello che dice. L’errore infatti è sempre quello di presupporre che gli USA agiscano in base ad una visione o ad una strategia.
Certo, oggi gli USA sentono minacciato il loro primato tecnologico dal 5G cinese, ma pare comunque stravagante che dopo aver brigato più di un secolo per aprirsi il mercato cinese, ora gli USA se lo chiudano semplicemente per il contenzioso sul 5G, che potrebbe essere regolato su base negoziale. Gli USA hanno voluto diventare il primo produttore mondiale di petrolio, perciò appare un controsenso precludersi il principale cliente potenziale. Inventarsi la minaccia cinese non ha senso per gli USA dal punto di vista strategico o economico; ce l’ha invece dal punto di vista dell’enemy business delle agenzie governative come il Pentagono, la NSA e la CIA, che trasformano queste finte minacce in fiumi di denaro pubblico e piogge di appalti, determinando i valori di Borsa delle aziende. Cambiare l’inquilino della Casa Bianca non modificherà questo stato di cose.
Molti commentatori attribuiscono ai dirigenti cinesi velleità di dominio globale. Sul piano del desiderio puro si possono coltivare tutti i sogni di dominio che si vogliono. Resta il fatto che i limiti della potenza cinese sono oggettivi, storici e millenari. L’urgenza non è mai stata quella di espandere l’impero ma di tenerne insieme i pezzi, in particolare l’area più “sfuggente”, cioè quella sud-orientale di lingua cantonese e a vocazione marittima. Dal XVI secolo in poi per la Cina il rimedio alle spinte centrifughe è stato l’isolamento, con l’ovvio effetto di perdere ben presto il primato economico e tecnologico. Che la demografia, oltre un certo limite, sia un freno e non una spinta, è dimostrato dal dato storico che la Cina non abbia mai tentato di annettersi la Siberia, neppure quando l’impero russo era molto di là da venire. L’annessione della Siberia è riuscita invece alla Russia, nonostante il suo storico deficit demografico.
Molte delle “follie” del regime maoista derivavano dal timore che in Cina si costituisse nuovamente un establishment sclerotico ed autoreferenziale come era accaduto nei tre secoli precedenti. Ecco perché in una Cina internazionalmente isolata, Mao credeva di ovviare al problema lanciando ciclicamente quelle campagne di “destabilizzazione controllata”, come i Cento Fiori, la Rivoluzione Culturale e la lotta al confucianesimo.
L’altra grande preoccupazione non solo di Mao, ma anche dei dirigenti successivi, era sempre stata quella di svincolarsi dalla tutela dell’impero russo, che allora si chiamava ancora Unione Sovietica. Ma oggi la Cina si trova ad appoggiarsi alla Russia per tutelare i propri interessi economici. Non è la Cina ad aver impedito la caduta del regime di Maduro in Venezuela, bensì la Russia, che ci ha inviato
i suoi “contractors” del Wagner Group, un’agenzia militare privata che consente a Putin di intervenire su scala globale senza “compromettersi” impegnando le forze armate ufficiali; eppure il petrolio venezuelano è molto più importante per la Cina che per la Russia.
L’Iran è un altro fondamentale fornitore energetico per la Cina, che infatti ha stipulato un accordo economico venticinquennale con Teheran. Ancora una volta però è l’alleanza con la Russia a tutelare l’indipendenza dell’Iran contro le aggressioni statunitensi.
Allorché nel 2011 cominciarono le minacce anglo-francesi nei confronti della Libia, ci fu chi commentò che Gheddafi poteva considerarsi in una botte di ferro grazie ai rapporti economici che intratteneva con la Cina. Si è accertato allora, e anche dopo, che la Cina da sola non è in grado di tutelare nessun suo interesse economico all’estero dalle aggressioni militari altrui.
Il quadro di questa nuova guerra fredda andrebbe quindi corretto: non è tra Usa e Cina soltanto, poiché la politica USA sta di fatto rafforzando la dipendenza della Cina dalla forza militare russa. Sul piano militare la Cina è temibilissima a casa propria ed ai propri confini ma, quando si trattasse di agire su scala globale, non ha né la mentalità né il know-how.
L’alleanza tra Russia e Cina viene considerata “innaturale” da molti analisti, poiché i due giganti dell’Asia sarebbero costretti a temere ciascuno la capacità espansiva dell’altro: in linea prospettica di lungo periodo sarà certamente così, ma ora Cina e Russia subiscono lo stesso tipo di aggressione a base di sanzioni e “rivoluzioni colorate” da parte degli USA e devono constatare che gli interessi in comune sull’immediato prevalgono largamente sulle considerazioni strategiche di lungo periodo.
Jerome Powell, il presidente della banca centrale statunitense, la Federal Reserve, ha annunciato la scorsa settimana che d’ora in poi il suo obbiettivo istituzionale non sarà più di mantenere un tasso fisso di inflazione al 2%, bensì questa percentuale sarà considerata come tasso medio. Secondo il presidente della Fed questa nuova politica monetaria andrebbe a privilegiare l’occupazione invece che la stabilità dei prezzi. L’annuncio di Powell è stato considerato
una “svolta epocale” non solo dalla stampa europea ma anche da quella americana.
Siamo in piena deflazione, cioè crollo dei prezzi e dell’occupazione, perciò non preoccuparsi dell’inflazione sarebbe puro buonsenso. In realtà, l’annuncio di Powell sa del classico “troppo bello per essere vero”. Anzitutto indicare il 2% di inflazione come tasso medio, vuol dire sì che si potrà sforare al 3% oppure al 4% ma significa anche che, per recuperare la media stabilita, occorrerà scendere all’1%, o addirittura allo zero. C’è poi da rilevare che la deflazione comporta una condizione di schiavitù per debiti, sia per gli Stati, sia per le famiglie. La deflazione determina infatti un crollo dei redditi e delle entrate fiscali, con una conseguente maggiore dipendenza dal debito, senza peraltro alcuna prospettiva che i creditori vedano eroso il valore dei loro crediti dall’inflazione.
Risulta quindi ovvio che esista una lobby della deflazione, cioè una lobby dei creditori, una coalizione di interessi delle grandi multinazionali del credito, che fa le sue fortune in deflazione e che non ha voglia che le cose cambino. Se si pensa che i gruppi industriali la pensino molto diversamente a riguardo, si è in errore, poiché la deflazione azzera il potere contrattuale del lavoro ed abbatte i salari.
Il punto è che il monopolio ideologico della lobby della deflazione non si esprime nella formula “la deflazione è bella”, ma in forme più insidiose e indirette. Ad esempio, in Europa l’Italia passa per essere il Paese che con più convinzione si batte contro le politiche di austerità che alimentano la deflazione e la disoccupazione. Gli enunciati però si scontrano con un retroterra ideologico molto diverso che implica risultati spesso opposti a quelli che ci si aspetterebbe.
La deflazione e l’austerità non si presentano come obbiettivi desiderabili in sé, bensì come una strada dolorosa ma obbligata, come “una medicina amara ma necessaria” per rimediare alle colpe passate di popoli che “hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi”. Il tono dolente è funzionale all’intento doloso. Questi popoli che non hanno saputo amministrarsi, devono rimanere in soggezione per essere “educati” ad accedere, in un futuro molto ipotetico, alle “virtù” che consentano di governarsi da soli. Questa operazione ideologica non ci viene imposta dall’esterno ma, al contrario, è tutta “made in Italy”. Si tratta del plurisecolare mito del
“Paese Senza”, secondo il titolo del noto saggio del 1980 di Alberto Arbasino; un saggio che si ispirava appunto a quella lunga tradizione del pensiero italiano.
L’Italia si presenta a se stessa come una nazione incompiuta, poiché non ha avuto la Riforma Protestante e non ha avuto neppure la Rivoluzione Borghese, quindi non avrebbe nemmeno un vero capitalismo. L’Italia sarebbe il Paese delle mancate riforme, della “mancanza” tout-court. Ciò che ha reso automaticamente credibili le emergenze finanziarie del 1976, del 1992 e del 2011 è appunto l’idea radicata che vi sia un atavico passato colpevole ed omissivo che incombe sul presente e sul futuro del Paese. L’espiazione sociale, i “sacrifici”, rappresenterebbero perciò la scontata, inevitabile, conseguenza delle tare ereditarie della nazione.
Lo schema propagandistico della “Europa bella, austerità brutta” si rivela perciò piuttosto ipocrita, in quanto l’europeismo, cioè l’autocolonialismo della ricerca del ”vincolo esterno”, si concretizza in un preciso strumento di pauperizzazione sia del ceto lavoratore, sia del ceto medio. Proclamare la propria inferiorità e inadeguatezza come popolo, comporta per i ceti dominanti dei notevoli vantaggi nella gestione dell’oppressione di classe.
Il Recovery Fund è stato presentato come una svolta solidaristica dell’Unione Europea ed effettivamente sembrerebbe una risposta di Germania e Francia alle pressioni dell’Italia, in quanto comporta anche l’istituzione di una sorta di Eurobond. Il problema è che però, mentre gli effetti in termini di aiuto del Recovery Fund sono tutti da verificare, i dati certi riguardano l’allargamento del bilancio comunitario, quindi un esborso immediato da parte dell’Italia, oltre che un crescente controllo esterno sulle proprie finanze. L’effetto certo è quindi un rafforzamento del “vincolo esterno”.
L’ideologia è tale perché genera non un semplice conformismo ma una vera e propria falsa coscienza, perciò nulla esclude che i nostri governanti siano persino sinceri quando affermano di combattere contro l’austerità. Ma la questione non è stabilire se i nostri governanti si salveranno o meno l’anima.
Germania e Francia hanno rivendicato il Recovery Fund come una propria creatura ma, a ben vedere, il ruolo del motore in tutta la vicenda è stato svolto dall’Italia, che, dal punto di vista ideologico, è il vero Paese leader dell’Unione Europea. L’azione dell’Italia ha finito per assegnare anche le parti in commedia ai vari membri dell’Unione: le “cicale e le formiche”, gli “spendaccioni” e i “frugali”.
La ricerca storica si è molto concentrata su ciò che è “mancato” all’Italia, su ciò che l’Italia non ha fatto e avrebbe dovuto fare. L’attenzione eccessiva a ciò che sarebbe mancato, ha fatto sfuggire ciò che invece c’è, anzi, che incombe. L’Italia non è solo un “Paese senza”, è soprattutto un “Paese con”. Un Paese con una lobby della deflazione molto agguerrita, una lobby che è riuscita a colonizzare la cultura e le coscienze persino degli “oppositori”. L’Italia spacciata per frivola e spendacciona, è di fatto l’unico Paese al mondo che abbia portato alla Presidenza della Repubblica due eroi della deflazione, cioè due ex Governatori della Banca d’Italia: Luigi Einaudi e Carlo Azeglio Ciampi.