Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Sandro Moiso, “La guerra che viene”, Mimesis, Milano-Udine 2019.
Recensione di Gianfranco Marelli
Avete presente lo sketch di Totò preso ripetutamente a schiaffi da una persona chiamandolo «Antonio sei un farabutto»,«Antonio sei un delinquente», «Antonio io t’ammazzo di sberle …» e Totò, nonostante i ripetuti improperi e strattoni, continua a ridere a crepapelle fino a che l’altro non gli chiede irritato il perché del suo atteggiamento: «Perché? Io non sono mica Antonio!»
Ecco, il libro di Sandro Moiso, “La guerra che viene”, che racchiude i trentacinque interventi (ventitre articoli di analisi e dodici recensioni) pubblicati dall’autore su “Carmillaonline” tra l’autunno del 2011 e l’autunno del 2018, sono i 35 schiaffi ripetutamente dati al lettore che come Totò crede di non chiamarsi Antonio, finché non gli viene il sospetto che lui si chiami proprio Antonio. Ma chi è Antonio?
È un nome comune, così tanto comune da rappresentare l’indifferenza, la superficialità, l’incredulità di chi sebbene ripetutamente chiamato in causa, stenta a credere che sia proprio lui, il soggetto-oggetto ad essere il bersaglio della “guerra che viene”; guerra che per la sua vastità e per la sua diramazione in ogni angolo del pianeta non può che essere definita Mondiale, al punto che succedendo alla 2ª guerra mondiale potrebbe chiamarsi 3ª guerra mondiale o addirittura 4ª guerra mondiale.
Sandro Moiso è riuscito a portare in primo piano la guerra che tutti i giorni Antonio subisce, ma crede che sia lontana da lui, che lo riguardi soltanto marginalmente, e soprattutto che è nell’ordine delle cose che accadono perché devono accadere, tanto lui è fortunato a non chiamarsi Antonio. Ma a prezzo di quanto? Della libertà di scegliere come organizzarsi assieme ad altri Antonio per contrastare ed opporsi alla pacificazione e alla resilienza che l’attuale sistema di dominio capitalista ha imposto al fine di estrarre profitto in ogni luogo e in ogni situazione, sia questo il Medio Oriente, l’America Latina, l’Europa dell’est, oppure la Val di Susa, il Salento, la periferia così come il centro delle innumerevoli metropoli diffuse come lebbra sull’intero territorio globalizzato e sfruttato, in un mondo «in cui lo slogan “Siamo il 99%” si avvicina sempre di più a rappresentare efficacemente una realtà socio-economica in cui i primi otto miliardari del pianeta posseggono esattamente la stessa quantità di ricchezza degli ultimi tre miliardi e mezzo di donne e uomini. Mentre anche solo qui in Italia i primi sette hanno una ricchezza corrispondente a quella del 30% della popolazione». [p. 158]
Certo, fatte le debite proporzioni, ogni realtà riveste una propria peculiarità in quanto rappresenta un particolare tassello di cui è composto il puzzle di un unico disegno che come i segni del deserto di Nazca si possono comprendere solo guardando dall’alto, con una visuale onnicomprensiva in grado di decifrarne il significato, l’obiettivo, la finalità. Per questo il libro di Sandro Moiso è una mappa che delineando i confini del disegno capitalista, al contempo ne esplora le modalità e i tempi, suddividendo il libro non in capitoli, bensì in atti attraverso i quali si scandisce la guerra mondiale su tutto il pianeta.
Così Moiso inizia mettendo subito in chiaro la trama dello spartito con il PROLOGO, “War!”, dove è descritta la posta in gioco in cui la classe operaia è una fiche in mano agli speculatori capitalisti che puntano al ribasso dei salari al fine di ottenere la vittoria dell’intero piatto fino a farlo saltare a suon di bombe intelligenti, guerre umanitarie, e ossimori simili; certo, dopotutto come non prevedere lo scoppio di una guerra «qua e là in giro per il mondo sotto forma di scontro tra stati e regimi sottomessi all’impero della finanza e del capitale occidentale, oppure tra gli stessi e i popoli che non ne accettavano logiche perverse e ingiustizie palesi, ma, per dio, sempre a casa d’altri. Ma... non ora, non qui. Come se il Mediterraneo fosse lontano, come se i Balcani appartenessero a un altro continente, come se i paesi del Nord Africa e del Vicino Oriente si trovassero su un altro pianeta». [p. 29]
E allora vediamolo questo “altro pianeta”, seguendo attentamente il 1º ATTO, “Sangue sul medio oriente (e non solo)”, che descrive gli interessi nella regione per controllare il flusso di petrolio che anima i conflitti tra Turchia, Siria, Libano, Iraq, Israele, Palestina, e che oppone gli Stati Uniti e i suoi alleati alla Russia in un gioco in cui le fiche sono rappresentate dall’intera popolazione della regione, e dove la resistenza come in Rojava è una “variabile impazzita”che preoccupa molto di più dello Stato dell’Isis o del regime di Assad a causa della sua esperienza autogestionaria e libertaria. Esperienza che dal punto di vista politico «potrebbe essere fonte di ispirazione non solo per le altre esperienze in cui si confondono la lotta in difesa del territorio e dell’ambiente e lotta di classe, dalla Val di Susa all’esperienza francese della ZAD o al Chiapas, ma anche per tutte le questioni politico-territoriali ancora irrisolte in Medio Oriente, dalla Palestina al Libano e allo stesso Kurdistan extra-siriaco. Facilitando l’estendersi di una maggiore solidarietà internazionalista “dal basso” più che le sempre incerte ed oscure, nelle loro finalità ultime, alleanze “dall’alto”». [p. 109]
Non basta tuttavia comprendere soltanto quali sono le fiche e chi ne dispone per valutare la partita in gioco e i suoi attori; occorre altresì conoscere su quale tavolo è in atto la partita. Ecco allora che il 2º ATTO, “Europa, Russia e Cina”, ci mostra l’intera sala dove il capitale da sempre gioca su più tavoli, continuando a puntare alto nella certezza di non poter perdere mai. Così si scopre che gli Stati della fascia marittima costiera (Rimland) che circonda l’Eurasia – a sua volta divisa in tre zone: zona della costa europea, zona del Medio Oriente, zona asiatica – hanno iniziato a subire un minore interesse e prestigio da quando il Cuore della terra (Heartland) – costituito dalla Russia, dalla Cina e dai Paesi che si estendono dal Caucaso fino all’India, passando per l’Afganistan – ha surclassato la ricchezza prodotta dalla fascia marittima costiera, al punto che i giochi si sono indirizzati su quella che un tempo era chiamata la “via della seta” e che attualmente è il teatro geopolitico in continuo fermento e sviluppo; ne consegue che, se il 17% dell’economia mondiale è qui concentrata, è possibile ridefinire chi governerà il futuro e quali nuove vie saranno tracciate sul solco della precedente.
Infatti, osserva Moiso, «L’heartland sta trionfando sulle passate potenze marittime e lo dimostra anche il fatto che le merci possano oggi spostarsi più velocemente al suolo che non sui mari, così come è stato invece negli ultimi cinque secoli»[p.136]; tanto più se queste regioni dispongono di riserve combinate di greggio che ammontano a quasi il doppio di quelle di tutti gli Stati Uniti, senza contare che il suolo, in particolare nella steppa russa caratterizzata da una vasta presenza di chernozem (letteralmente “terra scura”), è molto fertile e ricercato. Ecco perché, citando Francopan – autore del bel libro “Le vie della seta. Una nuova storia del mondo”– secondo Moiso ci troviamo a un crocevia, se non al capolinea dell’era dell’Occidente, poiché stiamo entrando in un periodo in cui il dominio politico, militare ed economico dell’America comincia ad essere messo in discussione, «con buona pace di Trump e dei suoi recenti e minacciosi discorsi alle Nazioni Unite, non certo rivolti soltanto alla Corea del Nord, che rivelano la posizione con cui la nazione padrona dei mari guarda allo sviluppo delle nuove vie della seta». [p. 137]
Tuttavia ciò non significa che la guerra dalle nostre parti è lontana, in quanto le tensioni in Medio Oriente e nel vicino Caucaso, a seguito della competizione imperialista tra gli Stati occidentali e la loro necessità di balcanizzare il vicino oriente, inevitabilmente ha creato un flusso migratorio costituito da profughi di guerra e economici che ha ancor più ingrandito la miseria politica sociale ed economica delle grandi periferie metropolitane dell’Occidente, con la conseguenza di trovare dietro lo zerbino la stessa instabilità sociale curata nell’identico modo autoritario e repressivo adottato in tutte le parti del mondo, laddove la mancanza di sicurezza suscita un maggior controllo poliziesco e militare che colpisce gli ultimi, gli emarginati, i senza patria. Ed ecco … Il 3º ATTO della “guerra che viene”, caratterizzato dal “populismo, nazionalismo e fascismo”.
Lo sappiamo, la paura del futuro è sempre stata una delle percezioni distillate con perizia da chi controlla la realtà, e chi controlla la realtà determina il futuro. Pertanto, la paventata minaccia dell’invasione da parte dello straniero islamizzato, lo stato continuo di precarizzazione della propria vita, la mancanza di fiducia nei confronti delle strutture politiche e sindacali che un tempo rappresentavano la possibilità di cambiare il proprio destino – dimostratesi altresì cinghie di trasmissione degli interessi miranti a pacificare e anestetizzare il conflitto sociale e di classe –, hanno finito per creare una narrazione che sulla difesa del “sacro suolo”, del “prima noiartri”, della sicurezza in “casa nostra”, ha risuscitato dalla pattumiera della storia i peggiori istinti populisti e fascisti anche in un’ampia e significativa fetta di lavoratori ed elettori “di sinistra”. Ma del resto cosa aspettarsi se si abdica «all’autonomia di classe, ad un’analisi che metta al centro della propria attenzione la critica radicale dell’esistente e del modo di produzione capitalistico, alla critica delle politiche imperialistiche travestite da missioni di pace; [se si rinuncia] alla difesa degli interessi di classe dei giovani precari, dei disoccupati e dei lavoratori, delle donne e degli immigrati»? Significa inevitabilmente «abbandonare a se stesso un mondo di rabbia, pronto a rispondere positivamente, come già sta succedendo, ai richiami della reazione più becera». [p. 154]
Che questo mondo di rabbia sia già stato abbandonato ai richiami della reazione più becera, la storia avrebbe dovuto insegnarcelo da molto tempo. Già, ma quale storia? La risposta la troviamo nel 4º ATTO del libro di Sandro Moiso, “Un vecchio conflitto e le sue esemplari conseguenze”. Commentando i testi di Mario Isnenghi, di Marco Rossi e di altri storici che hanno studiato le origini, le cause e le conseguenze della 1ª guerra mondiale in rapporto alla mobilitazione sociale e antimilitarista, l’autore ne evidenzia gli aspetti e i contenuti diametralmente opposti a quelli celebrati in pompa magna durante il centenario celebrativo dell’entrata in guerra dell’Italia nel “maggio radioso” del 1915.
Sì, perché a discapito degli storici paludati che hanno approfittato di questa ricorrenza per ricostruire una storia “obiettiva” e “asettica” di quella che fu una vera e propria carneficina umana– permettendosi di criticare le alte gerarchie militari italiane per la scarsa abilità nel mobilitare le truppe, attribuendo al macellaio Diaz competenze e umanità maggiori del macellaio Cadorna –, in pochi hanno evidenziato che la disfatta di Caporetto fu l’ultima conseguenza di un’opposizione alla guerra che traeva origine dello spirito antimilitarista e rivoluzionario mostrato fin da tempi della guerra libica da parte di un proletariato indomito e consapevole delle nefaste conseguenze di qualsiasi conflitto bellico. Infatti – scrive Moiso commentando i testi degli autori citati – « Non soltanto il tradimento di Benito Mussolini o il voltafaccia repubblicano dopo la sconfitta della “settimana rossa” oppure le scelte del sindacalismo rivoluzionario finirono con l’impedire ed ostacolare qualunque presa di coscienza anti-militarista a livello di massa, ma anche l’estremismo di alcuni, l’infantilismo o, peggio ancora, l’opportunismo di singoli militanti contribuì a facilitare l’entrata in guerra dell’Italia, nonostante le numerose manifestazioni di dissenso e di protesta, spesso spontanee, che si erano andate sviluppando i lavoratori e i soldati richiamati alla leva fin dai mesi precedenti». [p.194]
Sarebbe bastato infatti applicare la formula della “guerra alla guerra” adottata da tutti i sovversivi fin dai tempi della “Settimana Rossa”– quando riuscirono non solo a fermare le truppe militari diretti in Libia, ma l’intero Paese attraverso la programmazione dello sciopero generale, purtroppo boicottato dal partito socialista e dalla Cgl, convinti che l’azione di pompieraggio avrebbe permesso loro di ottenere uno scranno nel governo Giolitti – , nonché ribadita nei successivi e numerosi scioperi contro la guerra proclamati dall’Unione Sindacale Italiana e dagli anarchici per opporsi alla carneficina al fronte e alla militarizzazione sui posti di lavoro, che forse si sarebbe potuto evitare il disastro della 1ª guerra mondiale, riuscendo forse a far sì che il “Sol dell’avvenire”spuntasse anche a ovest di Mosca.
Purtroppo, la conseguenza di tutto ciò fu inevitabilmente la “controrivoluzione preventiva” che condusse Mussolini e i suoi squadristi al potere, grazie ad un’opinione pubblica addomesticata dai quotidiani che si avvalsero del contributo degli intellettuali (da Verga, alla Serao, da Marinetti a Balla, da Capuana a Pascoli, per non parlare di D’Annunzio e dello stesso Mussolini) per incitare all’irredentismo nazionalista e alla guerra come “unica igiene”in grado di opporsi alle proteste operaie e contadine, riuscendo in tal modo a vanificare le lotte rivoluzionarie durante il “biennio rosso”. Certo, l’opposizione proletaria armata se fosse stata appoggiata e difesa anche dai socialisti – allora impegnati chi a duettare con Giolitti, chi a accreditarsi presso Lenin, chi a blaterare slogan massimalisti quali “né aderire né sabotare” – sarebbe stata in grado non solo di opporsi al fascismo ma di trasformare la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria; «questo è ciò che separò allora e separerà ancora e sempre l’antimilitarismo anti-imperialista dal pacifismo generico, sempre pronto ad ammettere la necessità di una guerra nazionale difensiva».[p. 212]
Se la storia può insegnare qualcosa, evitando che la tragedia passata si ripresenti sotto forma di una sciagura catastrofica per l’intera umanità, è necessario comprendere quanto «la guerra preventiva è diventata forma di controllo planetaria, e anche se in Europa non abbiamo ancora assistito agli orrori di Gaza, investita dalla vendetta del fascista Netanyahu, o del Rojava, investito dalla furia del sultano Erdogan, è certo che la logica della violenza aperta e dichiarata è diventata la formula corrente per il governo delle contraddizioni politiche e sociali.». [p. 215]
Con queste parole, Sandro Moiso, apre L’ULTIMO ATTO del suo libro antologico “La guerra che viene”, lasciandoci il testimone della necessità di prepararsi a combattere su tutti i fronti e luoghi in cui la voracità del sistema capitalista cannibalizza il territorio attraverso lo sfruttamento dell’ambiente e la repressione di coloro che contrastano le nefaste politiche economiche predatrici; ben sapendo che si tratta di opporsi ad «una autentica guerra civile preventiva combattuta dai governi in nome della sicurezza e del benessere, se non addirittura dei diritti, dei propri cittadini che, troppo spesso finiscono col costituire invece proprio l’autentico nemico interno se soltanto osano opporsi a tali nefande decisioni e speculazioni». [p. 218] Del resto le prove di questa “guerra preventiva”sono sotto gli occhi di tutti quelli che non si fanno accecare dai confini, dalle lingue, dalle culture, dalle religioni; consapevoli che si tratta di una guerra ordita dalla politica economica dell’estrattivismo capitalista ai danni del suolo e del sottosuolo con l’obiettivo di trarne il massimo profitto, contro l’opposizione degli abitanti e delle loro comunità locali, tenute a bada attraverso la pacificazione dei conflitti in atto cui le attuali politiche di sicurezza determinano «non solo uno stato di guerra permanente che spinge verso forme sempre più autoritarie e totalitarie di governo, ma anche una vera e propria nuova corsa agli armamenti in cui le aziende sono stimolate a proporre nuove armi, nuovi sistemi di intelligence e raccolta dati e nuove tecniche di controllo dell’ordine pubblico e del territorio». [p. 223]
Pertanto, se qualcuno ci prende a schiaffi credendoci Antonio c’è poco da ridere. Antonio siamo tutti quanti noi: abitanti di questo pianeta dai contorni della Val Susa, dalla bellezza del Rojava, dalla sensibilità della Palestina, dall’armonia del Salento, dalla tenacia e combattività di tutti i popoli senza patria, senza Stato, senza paura. Perché se guerra è già, che sia guerra alla guerra!
I media ci hanno fatto sapere che la Francia per mezzo del suo uomo, il generale Haftar, ci sta estromettendo dalla Libia. Ma l’Italia non era stata già estromessa dalla Libia nel 2011, quando l’allora presidente francese Sarkozy aveva mosso guerra a Gheddafi?
In questi otto anni qualcosa ci deve essere sfuggito. Emuli di Graziani e di Balbo, i bellicosi Italiani attuali devono aver riconquistato la Libia manu militari imponendovi il regime del loro Quisling, Al Sarraj.
Ovviamente non c’è stato nulla di tutto questo. I governi italiani hanno sempre appoggiato il regime di Tripoli solo perché era quello riconosciuto dalla “Comunità Internazionale”, cioè dagli Stati Uniti. Al Sarraj è stato messo lì non da Monti, non da Letta, non da Renzi, non da Gentiloni, non da Conte, ma da Obama. Al Sarraj è stato l’interlocutore dei nostri governi, perché ad un Paese che occupa un grado infimo nella gerarchia internazionale non ne sarebbero stati concessi altri. Del resto neppure re Idris e neppure Gheddafi erano stati messi lì dall’Italia e, quando hanno trovato conveniente farci affari, è stato perché l’Italia era più debole degli altri e quindi costretta a concedere di più. Dopo la figuraccia e il tradimento nei confronti di Gheddafi nel 2011, l’Italia ha perso completamente la faccia, eppure gli affari continuano. Segno che i partner dell’ENI non si aspettano affatto serietà e determinazione dagli Italiani, ma solo condizioni contrattuali più favorevoli e tangenti più consistenti. La debolezza e l’insipienza possono essere percepite come caratteristiche attraenti.
I soliti predicatori dell’italocentrismo autodenigratorio alla Massimo Giannini, col ditino sempre puntato, hanno affermato che in questi anni l’Italia in Libia ha puntato sul cavallo sbagliato; ma immaginiamoci cosa sarebbe successo se l’Italia avesse prevenuto Macron ed avesse stabilito proprie relazioni ufficiali con Haftar. Il governo italiano sarebbe stato accusato di destabilizzare la Libia e si sarebbe beccato come minimo una risoluzione di condanna dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
È vero che in questi otto anni l’ENI ha continuato a fare i propri affari in Libia, ma non perché avesse trovato in Al Sarraj il suo burattino. Al Sarraj non ha mai contato nulla e l’ENI ha continuato le sue attività versando la mazzetta a tutte le tribù che la pretendevano. E non perché l’ENI fosse particolarmente furbo (l’ENI di Mattei è ormai più una leggenda che un ricordo), ma perché ha dovuto subire sequestri di persona e prese di ostaggi ogni volta che ha provato a lesinare sui versamenti. Si è cercato di depistare le indagini sull’uccisione degli ostaggi verso l’ipotesi della “vendetta degli scafisti”; ma, guarda la combinazione, era sempre l’ENI a segnalare il pericolo dei sequestri.
L’attuale governo Conte ha proseguito in Libia sulla stessa identica linea del governo Gentiloni. Per negare questa palmare evidenza, l’ex ministro degli Interni Minniti ha escogitato tutta una narrativa per stabilire un nesso tra l’egoistica politica migratoria di Salvini e l’attuale “isolamento” dell’Italia.
È chiaro che si tratta di sciocchezze; neanche di sciocchezze a fini elettorali, poiché Minniti sta facendo un ulteriore regalo propagandistico a Salvini facendolo apparire come una vittima della vendetta di Macron. Si tratta in realtà dello stesso Macron che lanciava le sue provocazioni a Ventimiglia, quando però il ministro degli Interni era Minniti. Gli esponenti del PD sembrano ora accreditare l’idea che pur di colpire Salvini tutto sia lecito, anche alimentare una guerra civile con migliaia di morti e ondate di profughi che l’Italia dovrebbe gestire. Non è una posizione che possa riscuotere molta popolarità.
C’è da rilevare che lo scenario secondo cui in Libia si starebbe giocando una partita tra noi e Macron, ha scarse pezze d’appoggio. Non per nulla a proporre questa rappresentazione è il quotidiano “la Repubblica” e lo fa in modo da trasformare la questione libica in un ulteriore motivo di polemica politica interna. Il compito istituzionale di organi come “La Repubblica” è di fomentare un clima di spaccatura e di guerra civile su alternative completamente inconsistenti. Il destino sarà anche crudele, ma non ci sta affatto costringendo a scegliere se schierarci con Salvini o con Macron.
Persino la rivista “Limes”, nell’affannosa ricerca di “errori” italiani (come se i governi italiani fossero davvero in grado di scegliere qualcosa), si è spinta ad individuare un improbabile legame tra l’abbandono di Al Sarraj da parte degli USA e la firma di Conte al memorandum cinese per la Via della Seta, una firma che avrebbe (senti, senti) compromesso lo schieramento “occidentale” dell’Italia. Ma come ? Le centodieci basi militari USA in Italia non garantirebbero abbastanza questo “schieramento occidentale”?.
“Limes” si comporta a volte come un’agenzia di disinformazione, spargendo notizie infondate come quella riguardo un disinteresse americano per la Libia. A parte il fatto che gli USA hanno proprie truppe in Libia, è evidente che l’Amministrazione statunitense è interessata a qualsiasi Paese petrolifero che possa fare concorrenza al ribasso al costoso petrolio di scisto che si produce negli USA. Se c’è un Paese interessato a lasciare la Libia nel caos per metterne fuori mercato gran parte delle risorse petrolifere, questo Paese è proprio gli Stati Uniti. Anche l’altro mega-produttore di petrolio africano, la Nigeria, quindi non può dormire sonni tranquilli.
La gerarchia imperialistica occidentale è composta da un imperialismo dominante, quello USA, con alcuni sub-imperialismi, di cui due sono attivi in Africa, quello francese e quello britannico. L’Italia non ha e non mai avuto il riconoscimento di un ruolo sub-imperialistico, perciò è rimasta allo stadio di imperialismo debole, un imperialismo di straforo che trova i suoi spazi nelle crepe degli imperialismi altrui. La destabilizzazione USA ha di fatto impedito la stabilizzazione e spartizione della Libia tra Francia e Regno Unito, favorendo indirettamente l’imperialismo debole italiano. Macron quindi si atteggia a bullo con l’Italia perché non può prendersela con chi davvero lo ostacola, cioè gli USA.
La politica di destabilizzazione degli USA comporta anche altri inconvenienti. Non solo in Africa ne è stata favorita la Cina, ma vi è stato anche in questi anni un inserimento della Russia in Libia, così da diventare uno degli sponsor di Haftar, insieme con la Francia, l’Egitto e l’Arabia Saudita. Ciò smentisce ancora una volta la tesi secondo la quale Macron sarebbe il principale attore in Libia, sebbene oggi anche ai Russi faccia comodo lasciarlo credere. Adesso anche Conte ha stabilito proprie relazioni con Haftar nell’eventualità che conquisti Tripoli.
Che Haftar non escluda l’Italia dai suoi possibili partner commerciali, è abbastanza fisiologico, perché gli affari sono affari. Del resto se l’Italia è riuscita a rimanere in Africa nonostante tutto, non è stato certo per abilità dei suoi governi o dell’ENI, ma per l’arroganza e impotenza dei suoi concorrenti. Agli occhi degli Africani, gli Italiani possono infatti vantare una virtù incommensurabile: non sono Francesi e neppure Inglesi o Americani.
In definitiva, la campagna mediatica allarmistica di questi mesi circa le sorti dell’imperialismo italiano in Libia non ha fondamento, poiché l’Italia non può rischiare di perdere posizioni che ha già perso nel 1943; mentre, proprio per la sua debolezza, l’Italia può ancora essere considerata come un partner interessante dagli affaristi africani. Il problema è che questo allarmismo pretestuoso ha spostato l’attenzione dal punto vero, cioè il fatto che ad alcuni governi è ormai internazionalmente riconosciuto il diritto di destabilizzare a piacimento altri Paesi.
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