Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
I media ci narrano che il Partito Popolare Europeo è in agitazione per le posizioni xenofobe di uno dei suoi membri, il primo ministro ungherese Viktor Orban, resosi protagonista di un virulento attacco personale contro il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, accusato di voler distruggere l’identità europea con l’immigrazione. Alcuni esponenti del PPE hanno già chiesto
l’espulsione del partito dello stesso Orban dal gruppo parlamentare europeo.
La sceneggiata in sé è poco appassionante, semmai risulta interessante il fatto che l’Ungheria non corra alcun rischio reale di invasione migratoria, ciò a causa della sua debolissima moneta, il fiorino. Quella stessa moneta debole che attira capitali e delocalizzazioni, non è infatti in grado di attirare migranti. Il lavoratore migrante può far fruttare i suoi magrissimi guadagni soltanto attraverso il cambio da una moneta forte ad una moneta debole, un cambio che moltiplica il potere d’acquisto. Se la moneta fosse già debole in partenza, il povero migrante non potrebbe spedire nulla a casa, non potrebbe mantenere la famiglia, non potrebbe nemmeno ripagare il debito contratto per sostenere la spesa della migrazione.
L’Ungheria possedeva già un “muro” invalicabile contro i migranti, cioè la sua debole moneta. Il muro vero e proprio quindi non serve all’Ungheria ma ai suoi Paesi limitrofi, come l’Austria e la Germania. Orban perciò si fa bello davanti al proprio elettorato spacciandosi per l’argine ad un’inesistente invasione e, al tempo stesso, si incarica del lavoro sporco di impedire il passaggio di migranti per conto dei suoi vicini.
La migrazione è solo un anello della finanziarizzazione, cioè della libera circolazione dei capitali, ma su quella Orban non apre bocca, dato che, per ora, è proprio lui uno dei miracolati dal sistema della mobilità dei capitali. La vera spada di Damocle sospesa sull’Ungheria è infatti che l’attuale afflusso di capitali esteri si trasformi improvvisamente in deflusso lasciando il deserto economico. Orban attira capitali esteri drogando il sistema con periodiche svalutazioni del fiorino e continue diminuzioni delle tasse, ma non è detto che il gioco possa riuscirgli all’infinito. L’Orban che cacciava il Fondo Monetario Internazionale dall’Ungheria è ormai un pallido ricordo ed ora invece c’è l’Orban che ha trasformato il proprio Paese in un ostaggio dei capitali stranieri.
Niente di strano nel fatto che Orban cerchi di coprire il proprio asservimento al capitale straniero con la solita propaganda contro gli stranieri deboli, cioè i migranti. Il vero problema è che il mito fasullo dell’invasione accomuna sia gli xenofobi che gli xenofili, sia gli “animabruttisti” come Orban e Salvini, sia gli “animabellisti” della sedicente “sinistra”. Spiegare ad uno di “sinistra” che non è in atto alcuna invasione migratoria, chiarirgli che il migrante non può permettersi di recidere il legame con la madre patria se non a costo di rinunciare all’effetto-cambio, significa deluderlo amaramente poiché gli si sottrae la preziosa occasione di dare sfogo alla propria nobiltà d’animo. Bisogna credere all’invasione perché ti mette alla prova, ti dà modo di dimostrare che non sei razzista e magari nemmeno sessista e specista.
Il sistema mediatico schiaccia l’acceleratore della guerra civile tra buonisti e cattivisti e, a questo scopo, combina la prospettiva dell’apocalisse migratoria con il catastrofismo ecologico più spinto. Il lobbying finanziario si affida infatti ad esperti pubblicitari che conoscono i propri polli e sanno come manipolarli facendo leva sulle loro stesse convinzioni ideologiche. Non a caso
uno dei mantra che vanno per la maggiore è quello di spacciare la migrazione come una conseguenza non del cambio delle valute ma del cambio climatico, cioè del riscaldamento globale.
Tutto l’attuale rapporto della “sinistra” con l’opinione pubblica consiste quindi nel pretendere dalle persone di essere migliori di quelle che sono, con il sicuro risultato di renderle peggiori. La politica così rinuncia ancora una volta a far politica. Un programma politico infatti non è un elenco di desiderata ma anzitutto una rappresentazione della realtà. Se la rappresentazione della realtà rimane quella del mainstream, è sempre e solo il mainstream a dettare il programma politico.
Domenica scorsa il principale partito della “sinistra”, il PD, ha celebrato le “primarie” per l’elezione del segretario. I quasi due milioni di votanti rappresentano un successo personale del candidato eletto, il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti. Il plebiscito che gli è stato tributato è probabilmente dovuto al fatto che gli elettori del PD hanno creduto di aver trovato finalmente in lui la persona di normale buonsenso in grado di tirare fuori il PD dalle pastoie delle follie renziane.
Ma anche Zingaretti dovrà vedersela soprattutto col mainstream che non lo riconosce come nuovo leader del partito. Se infatti Zingaretti è il nuovo segretario a livello formale, i media continuano imperterriti a considerare
Renzi il vero padrone del partito, per cui la questione in evidenza nel mainstream non è ciò che vuol fare Zingaretti, bensì quali saranno le mosse di Renzi.
Quando si dice il complottismo. Il presidente venezuelano Maduro ha accusato gli USA di aver provocato ad arte gli attuali black out di
energia elettrica in Venezuela. Maduro è notoriamente un paranoico, infatti ha affidato i proventi del petrolio venezuelano alle banche USA e l’oro venezuelano alle banche inglesi. Si è visto con quali risultati.
I sistemi di centralizzazione della rete distributiva dell’energia elettrica, in uso da una ventina d’anni a questa parte, rendono molto più agevole evitare black out ma, al tempo stesso, rendono altrettanto agevole provocare black out pilotati; perciò le accuse di Maduro, sebbene non siano necessariamente vere, sono comunque plausibili. Al di là di come siano andate effettivamente le cose in questa specifica circostanza, c’è da osservare che gli USA possono vantare una notevole esperienza in fatto di black out organizzati a bella posta.
Sul caso dell’azienda elettrica californiana Enron, verificatosi all’inizio degli anni 2000, esiste ormai una notevole documentazione probatoria e persino nastri registrati. È risultato che gli amministratori della Enron si servissero di questi black out per creare finte emergenze, che diventavano il pretesto per riscuotere fondi pubblici. I fondi pubblici, a loro volta, determinavamo un’euforia sui mercati borsistici, per cui il titolo Enron schizzava alle stelle.
Le condanne penali inflitte agli amministratori della Enron, successivamente ammorbidite, non hanno scalfito minimamente il modello Enron che continua ad imperare. Più significative della stessa Enron, sono probabilmente le tante “Enron” che non hanno subìto la rara disavventura di essere state scoperte. Dopo il caso Enron, nel 2003, anche New York subì un altro
black out di grandi proporzioni. Rispetto al black out accaduto a New York nel 1977, quello del 2003 fu rose e fiori, tanto che il giornalista filoamericano Giuliano Ferrara ne paragonò gli effetti ad un picnic. In realtà, se è vero che nel 2003 non vi furono i saccheggi e le migliaia di arresti del 1977, il bilancio finale degli effetti del black out fu di undici morti. Cifre analoghe hanno consentito oggi ai media di descrivere un Venezuela nel caos.
Ma, soprattutto, nel caso dei black out del 2003 (ve ne fu uno anche in Italia), le spiegazioni ufficiali sono state del tutto inconsistenti e i risvolti affaristici sono rimasti nell’ombra. Nei periodi in cui il sistema finto-emergenziale non è nella fase virulenta e quindi il sistema mediatico non è del tutto irreggimentato dagli interessi delle lobby, anche la stampa mainstream si concede qualche deroga al suo conformismo, perciò, episodicamente, è stato possibile leggere certe
amare riflessioni sul capitalismo reale, così come risulta dal paradigma Enron, persino sulle castigatissime colonne del “Corriere della Sera”.
La pseudo-emergenza della “prossima fine del petrolio” è stata anche alla base del business americano del petrolio ricavato dalla frantumazione delle rocce di scisto (il “fracking”). Dopo aver riscosso fiumi di denaro pubblico, il petrolio di scisto è arrivato in una fase di mercato già depressa, perciò ha contribuito ad un’ulteriore caduta dei prezzi petroliferi. Dati gli alti costi del fracking, la vendita del prodotto è remunerativa solo a prezzi alti, perciò per la lobby statunitense del petrolio di scisto non vi è stata altra possibilità che accelerare il processo di destabilizzazione del principale produttore potenziale di petrolio, il Venezuela. Solo uno shock del genere avrebbe potuto avviare un processo di stabile risalita dei prezzi petroliferi.
La presunta emergenza umanitaria in Venezuela e la prospettiva di una guerra civile che mettesse il petrolio venezuelano fuori mercato, avevano realmente determinato una nuova impennata dei prezzi, ma il deciso intervento della Russia ha, per il momento, allontanato l’eventualità di una caduta di Maduro. L’effetto è stato che uno dei
grandi fondi sovrani, quello norvegese, ha disinvestito dai titoli petroliferi ritenendoli non sufficientemente affidabili.
Ma queste relative pause non comportano un cambiamento di tendenza. Un sistema capitalistico drogato di emergenzialismo non ha altra strada che puntare sulla fabbricazione di nuove emergenze. La potenza dell’emergenzialismo non sta in un retroterra cospirativo, ma nel fatto di costituire uno schema comportamentale consolidato nei rapporti sociali e nel linguaggio, tanto da suscitare automaticamente conformismo. Non sono quindi necessari complotti o particolari accordi sottobanco per avviare un’emergenza, ma è sufficiente che parta l’impulso da un piccolo gruppo perché l’intero sistema si adegui per effetto della minaccia della catastrofe incombente, con l’occasione di business che sempre l’accompagna.
Le autorità costituite della sedicente “civiltà occidentale”, come lo Stato e la Legge, rappresentano una superficiale verniciatura “civile” di altre gerarchie, molto più arcaiche e superstiziose. L’emergenzialismo determina una vera e propria gerarchizzazione razziale, per la quale la società si suddivide in un gruppo divinizzato di “Salvatori” e nella massa amorfa ed inferiore di coloro che devono essere “salvati”, magari dal pericolo che rappresentano per loro stessi. Non a caso i “salvataggi” non esimono i “salvati” dal dover compiere rituali espiatori e sacrifici per le loro colpe passate, presenti e future.