Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Come era prevedibile (e previsto), il governo Conte si è lasciato invischiare nella logica (o nell’illogica) del negoziato con la Commissione Europea, offrendo di sé un’immagine di debolezza e remissività, ridando così fiato alla forsennata propaganda della lobby della deflazione con le sue fosche previsioni sulla crescita economica. Come era prevedibile (e previsto) le previsioni apocalittiche non provengono soltanto dalla solita Goldman Sachs, dato che la lobby della deflazione è riuscita ad allineare contro il sostegno alla domanda interna anche congreghe di piccoli e medi imprenditori che si sono riuniti a Torino. La distinzione tra finanza ed economia reale è valida sul piano astratto, ma sta di fatto che i mitici “imprenditori” rimangono un ceto del tutto privo di una propria coscienza di classe autonoma dal dominio imperialistico.
Si dice spesso che oggi la distinzione tra destra e sinistra è superata, ma le cose stanno un po’ diversamente. Scomparsa la sinistra, attualmente il confronto è tra una destra finanziaria, elitaria e mondialista da una parte ed una destra industrialista e nazionalista dall’altra. Tra i tanti punti deboli di questa destra nazionalista c’è proprio l’inaffidabilità nazionale dei padroncini, i quali vedono nella distribuzione del reddito sempre uno spauracchio insopportabile e quindi convergono sulle posizioni deflazionistiche della finanza mondialista, per la quale ogni prospettiva di “crescita” è come il fumo negli occhi.
Un aumento deciso del PIL incrementerebbe infatti le entrate fiscali e quindi renderebbe i governi meno dipendenti dai prestiti esteri. È ovvio che queste cose i “Mercati” (cioè i grandi investitori istituzionali) non le ammettano apertamente ed, anzi, si dichiarino “preoccupati” per la scarsa crescita. Sarebbe come pretendere che un tale che speri di ereditare dalla zia le dicesse candidamente di tirare le cuoia al più presto per lasciargli i soldi. Al contrario, l’avido nipote si dichiarerebbe “preoccupato” per la salute della zia in modo da insinuarle subdolamente qualche pensiero negativo.
La sfida meramente velleitaria e ideologica del governo Conte ha sortito però, indirettamente, degli effetti sociali anche all’estero. I grandi moti di piazza in Francia indicano che basterebbero poche parole d’ordine chiare per riattivare una stabile opposizione sociale. Manca però il soggetto in grado di lanciare queste parole d’ordine, cioè un movimento operaio e sindacale, che è stato liquidato già dagli anni ‘70. Tale liquidazione è avvenuta ad opera della cosiddetta “sinistra” ed il fatto curioso è che ciò sia stato ottenuto usando la mitologia operaia (la “operaiolatria”, come diceva Camillo Berneri) in funzione antioperaia.
Stranamente i movimenti operai erano nati senza il “supporto” di una mitologia della classe operaia come “classe universale”, una classe che, secondo il mito, sarebbe in grado di interpretare i bisogni dell’umanità come genere e di succedere alla borghesia nel dominio del mondo in base ad una predeterminata linea di progresso. La nascita del movimento operaio fu in gran parte estranea a queste ubbie e tutto si centrava invece sulla questione del salario, il cui aumento costituiva il fattore principale di redistribuzione del reddito. Si poteva anche essere operaisti, socialisti e comunisti senza una mitologia operaia e senza neppure dover credere che esista una forma economica omogenea detta “capitalismo”. Solo con la nascita alla fine dell’800 dei grandi partiti socialdemocratici queste mitologie sono diventate dogma, salvo poi essere cancellate di colpo e senza rimpianti dalla “sinistra” un secolo dopo. La cosa grave è che nel corso degli anni ’80 e ’90 anche le sinistre cosiddette “radicali” hanno finito per considerare con orrore la lotta salariale, in quanto sospetta di “deficit etico”.
Quando gli intellettuali del ceto medio erano andati incontro alla classe operaia, si erano portati dietro l’avarizia materiale e morale del loro ambiente sociale, per cui avevano concepito il socialismo in chiave “austera”, cioè punitiva e pauperista. Una volta che il pauperismo della lobby della deflazione aveva vinto all’inizio degli anni ‘90, si poteva anche abbandonare il socialismo e le relative mitologie operaie, diventate inutili. Si può esser certi che queste mitologie verrebbero tirate fuori di nuovo non appena si risvegliasse la lotta salariale.
Un’interpretazione economica del capitalismo è del tutto problematica e spesso fuorviante: in molti casi il codice penale sarebbe decisamente più illuminante dei manuali di economia (ovviamente se non ci fossero i magistrati ad “interpretarlo”). Basti pensare a quante e quali frodi oggi la finanza ricorra per risolvere i problemi derivanti dallo scoppio di una delle sue bolle di debito privato. I costi sono tutti scaricati sui debiti pubblici, costretti a pagare interessi esorbitanti perché una campagna mediatica li presenta pretestuosamente a rischio. L’aggiotaggio giornalistico fa quindi parte integrante del cosiddetto “capitalismo”, che è il nome d’arte per la truffa sistematica ai danni del contribuente. Nell’800 Balzac e Maupassant consideravano non solo la finanza, ma anche il giornalismo, come fenomeni di criminalità comune. Ci vorrebbe oggi altrettanta lucidità, anche nei confronti delle sedicenti teorie economiche. Mentre il liberismo è solo un alibi ideologico per criminali finanziari, il keynesismo è stato invece un tentativo di compromesso, in modo da riparare i danni senza però dover scoprire troppo gli altarini. Peccato che il compromesso non abbia funzionato.
Verso la fine degli anni ’70 in Italia i sindacati confederali riuniti all’EUR proclamarono come superata la lotta salariale. Il Partito Comunista dell’epoca esortava gli operai ad abbandonare la lotta salariale ed a “farsi Stato”, cioè ad ereditare il “potere”: così veniva spacciata l’entrata del PCI nella maggioranza di governo. La mitica “missione storica” della classe operaia diventava così lo strumento per fregare gli operai ed i poveri in genere, perché è attraverso il salario ed i relativi consumi che il reddito si redistribuisce a tutti gli strati sociali più poveri. Il welfare ne è solo una conseguenza, poiché è un modo in cui il ceto politico cerca di recuperare un ruolo di mediazione sociale.
Nel gennaio del 1978, il segretario della CGIL Luciano Lama rilasciava un’intervista ad Eugenio Scalfari, nella quale spiegava la svolta ed i motivi per cui i sindacati chiedevano “sacrifici” agli operai. L’intervista è impressionante per la totale sudditanza che Lama dimostrava nei confronti delle fiabe della lobby della deflazione: si misconosceva completamente il ruolo della domanda interna per rilanciare la produzione e la lotta alla disoccupazione veniva delegata ad ipotetici “investimenti”. Proprio le stesse fesserie che ci raccontano adesso, per cui, non a caso, Pietro Ichino conserva l’intervista sul suo blog come una reliquia.
Ma l’intervista è impressionante anche per un altro motivo: leggendo dei “sacrifici” che Lama aveva intenzione di imporre agli operai, si comprende anche che quella linea non sarebbe mai potuta passare senza un vero sacrificio umano al Moloc dei “Mercati”. Di lì a due mesi veniva infatti rapito Moro e successivamente ucciso. L’assassinio rituale (Moro, Biagi) è un meccanismo fondamentale del cosiddetto capitalismo, ma non è roba che si trova sui manuali di economia, perciò nessuno se ne accorge.
Mentre viene annunciata prossimamente una nuova ondata recessiva, la Commissione Europea riesce a tenere inchiodato il governo Conte alla questione di un ridicolo 0,5 in più o meno di deficit. Il paradosso della artificiosa scarsità di denaro (il “non ci sono i soldi”) a fronte di una capacità produttiva diventata invece praticamente illimitata, costituisce il capolavoro mistificatorio della lobby della deflazione.
La lobby della deflazione è un tipico caso di “troppo evidente per essere visto”. Le grandi multinazionali bancarie ed i grandi fondi di investimento hanno un chiaro interesse a tenere l’economia reale in condizione di stagnazione: lo scopo è quello di evitare ogni fiammata inflazionistica che possa incrinare il valore dei crediti ed ogni incremento del PIL che, aumentando il gettito fiscale, renda i governi meno dipendenti dai prestiti dei grandi investitori.
I componenti di una lobby non hanno bisogno di riunirsi o di scambiarsi gli auguri di natale per riconoscersi come una coalizione di interessi. Nelle multinazionali bancarie e nei fondi di investimento si alleva un personale che gestisce con pieno automatismo quegli interessi. Questo personale possiede (per dirla alla Foucault) i “saperi”, ma anche gli agganci, che gli consentono di accedere alle gerarchie delle organizzazioni sovranazionali come il FMI, l’OCSE, la Banca Mondiale, il WTO e la Commissione Europea. Il meccanismo della “porta girevole” assicura a questo personale di alternare carriere nel pubblico e nel privato, ovviamente sempre all’insegna degli stessi interessi privati.
Le lobby infatti sono trasversali ed occupano tutti gli spazi a disposizione. Il senso dello Stato è il senso di un’astrazione e potevano avercelo Platone o Hegel. Il senso della lobby ha invece l’impellenza dei tornaconti personali, dei ricatti incrociati e dell’odio per l’uguaglianza.
Gran parte del dibattito rimane invece ancora fissata alla coppia “capitalismo e/o Stato”, con esiti teorico-pratici spesso poco convincenti. Una delle tesi oggi prevalenti è quella definita con acritico intento liquidatorio come “rossobrunista”. Gli esponenti di questa corrente politico-culturale individuano nello Stato nazionale l’unico possibile argine al capitalismo mondialista ed iper-finanziario. Si tratterebbe di promuovere il “pubblico” senza preoccuparsi dell’etichetta di destra o di sinistra di chi lo promuove.
Si tratta però anche di capire se “capitalismo” e Stato” siano nomi che indicano fenomeni precisi, oppure siano invece astrazioni che prescindono dai dati concreti.
Recuperare la sovranità dello Stato può essere un’idea suggestiva, ma sembra anche una chiusura della stalla quando i buoi sono scappati. Uno Stato, se è tale, non cede la sua sovranità: se l’ha ceduta, vuol dire che non era uno Stato, oppure che lo Stato era solo un’astrazione giuridica che copriva e mistificava altre gerarchie sociali. La cessione della sovranità monetaria non è cominciata con l’euro e neppure col famigerato “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia del 1981. Quando gli Stati hanno riconosciuto il diritto esclusivo di emissione monetaria alle sole banche centrali, avevano già abdicato alla loro “sovranità”.
Le privatizzazioni le ha fatte sempre lo “Stato” e non si è verificata alcuna resistenza da parte delle burocrazie statali contro tutto ciò. L’identificazione tra “pubblico” e Stato è molto problematica, se si considera che il grande privatizzatore è proprio lo Stato. Negli anni ’70 l’Unione Sovietica era ritenuta da molti analisti come l’avanguardia dello Stato Leviatano che avrebbe fagocitato e controllato tutto. L’Unione Sovietica è invece crollata per la pressione di una lobby affaristica interna, desiderosa di smantellare l’impero per trasformare i sudditi in clienti del gas e del petrolio russo.
In Italia il Pubblico Impiego è sotto tiro non solo da parte dei ministri di turno, ma anche da parte di organi di polizia che travalicano la loro funzione per trasformarsi in attori mediatici. Esiste oggi una sorta di “Carabinieri Productions” che lancia video grotteschi sui pubblici impiegati presunti “furbetti”. Uno “Stato” che si fa carico di screditare se stesso? Ed in nome di che cosa? Della “porta girevole” che consentirà ai funzionari pubblici di farsi una carriera del privato?
La stessa astrattezza coinvolge la nozione di "capitalismo”. Potrebbe esistere il “capitalismo” senza lo Stato che lo assiste finanziariamente e gli privatizza tutto? O è sempre la stessa lobby, che si fa chiamare “Stato” o “capitalismo” o “Mercato” a seconda delle convenienze?
Giocando sulle astrazioni si possono suscitare vere e proprie cortine fumogene come lo “Stato minimo” di Robert Nozick (uno Stato che si occupi solo di difesa e giustizia e lasci il resto al “Mercato”), oppure il cosiddetto “anarco-capitalismo” di Murray Rothbard: uno Stato che si suicidi privatizzando tutto e affidandosi sempre al dio “Mercato”. Queste fumisterie ideologiche provengono dagli USA, cioè proprio il Paese dove il massimo investitore è lo Stato, anzi il Pentagono.
Dopo anni e anni di balle sui garage di Steve Jobs (un idolo per la sedicente “sinistra”), fortunatamente oggi anche una rivista come “Limes” riconosce che tutta la tecnologia dei vari Microsoft, Apple, Facebook deriva direttamente ed esclusivamente dal Pentagono. La fittizia dicotomia tra Stato e capitalismo, Stato e Mercato, Stato e privato consente sì mirabilie illusionistiche, ma le evidenze contrarie sono molto maggiori.
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