Mentre viene annunciata prossimamente una nuova ondata recessiva, la Commissione Europea riesce a tenere inchiodato il governo Conte alla questione di un ridicolo 0,5 in più o meno di deficit. Il paradosso della artificiosa scarsità di denaro (il “non ci sono i soldi”) a fronte di una capacità produttiva diventata invece praticamente illimitata, costituisce il capolavoro mistificatorio della lobby della deflazione.
La lobby della deflazione è un tipico caso di “troppo evidente per essere visto”. Le grandi multinazionali bancarie ed i grandi fondi di investimento hanno un chiaro interesse a tenere l’economia reale in condizione di stagnazione: lo scopo è quello di evitare ogni fiammata inflazionistica che possa incrinare il valore dei crediti ed ogni incremento del PIL che, aumentando il gettito fiscale, renda i governi meno dipendenti dai prestiti dei grandi investitori.
I componenti di una lobby non hanno bisogno di riunirsi o di scambiarsi gli auguri di natale per riconoscersi come una coalizione di interessi. Nelle multinazionali bancarie e nei fondi di investimento si alleva un personale che gestisce con pieno automatismo quegli interessi. Questo personale possiede (per dirla alla Foucault) i “saperi”, ma anche gli agganci, che gli consentono di accedere alle gerarchie delle organizzazioni sovranazionali come il FMI, l’OCSE, la Banca Mondiale, il WTO e la Commissione Europea.
Il meccanismo della “porta girevole” assicura a questo personale di alternare carriere nel pubblico e nel privato, ovviamente sempre all’insegna degli stessi interessi privati.
Le lobby infatti sono trasversali ed occupano tutti gli spazi a disposizione. Il senso dello Stato è il senso di un’astrazione e potevano avercelo Platone o Hegel. Il senso della lobby ha invece l’impellenza dei tornaconti personali, dei ricatti incrociati e dell’odio per l’uguaglianza.
Gran parte del dibattito rimane invece ancora fissata alla coppia “capitalismo e/o Stato”, con esiti teorico-pratici spesso poco convincenti. Una delle tesi oggi prevalenti è quella definita con acritico intento liquidatorio come “rossobrunista”. Gli esponenti di questa corrente politico-culturale individuano nello Stato nazionale l’unico possibile argine al capitalismo mondialista ed iper-finanziario. Si tratterebbe di promuovere il “pubblico” senza preoccuparsi dell’etichetta di destra o di sinistra di chi lo promuove.
Si tratta però anche di capire se “capitalismo” e Stato” siano nomi che indicano fenomeni precisi, oppure siano invece astrazioni che prescindono dai dati concreti.
Recuperare la sovranità dello Stato può essere un’idea suggestiva, ma sembra anche una chiusura della stalla quando i buoi sono scappati. Uno Stato, se è tale, non cede la sua sovranità: se l’ha ceduta, vuol dire che non era uno Stato, oppure che lo Stato era solo un’astrazione giuridica che copriva e mistificava altre gerarchie sociali. La cessione della sovranità monetaria non è cominciata con l’euro e neppure col famigerato “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia del 1981. Quando gli Stati hanno riconosciuto il diritto esclusivo di emissione monetaria alle sole banche centrali, avevano già abdicato alla loro “sovranità”.
Le privatizzazioni le ha fatte sempre lo “Stato” e non si è verificata alcuna resistenza da parte delle burocrazie statali contro tutto ciò. L’identificazione tra “pubblico” e Stato è molto problematica, se si considera che il grande privatizzatore è proprio lo Stato. Negli anni ’70 l’Unione Sovietica era ritenuta da molti analisti come l’avanguardia dello Stato Leviatano che avrebbe fagocitato e controllato tutto. L’Unione Sovietica è invece crollata per la pressione di una lobby affaristica interna, desiderosa di smantellare l’impero per trasformare i sudditi in clienti del gas e del petrolio russo.
In Italia il Pubblico Impiego è sotto tiro non solo da parte dei ministri di turno, ma anche da parte di organi di polizia che travalicano la loro funzione per trasformarsi in attori mediatici. Esiste oggi una sorta di “Carabinieri Productions” che lancia video grotteschi sui pubblici impiegati presunti “furbetti”. Uno “Stato” che si fa carico di screditare se stesso? Ed in nome di che cosa? Della “porta girevole” che consentirà ai funzionari pubblici di farsi una carriera del privato?
La stessa astrattezza coinvolge la nozione di "capitalismo”. Potrebbe esistere il “capitalismo” senza lo Stato che lo assiste finanziariamente e gli privatizza tutto? O è sempre la stessa lobby, che si fa chiamare “Stato” o “capitalismo” o “Mercato” a seconda delle convenienze?
Giocando sulle astrazioni si possono suscitare vere e proprie cortine fumogene come lo
“Stato minimo” di Robert Nozick (uno Stato che si occupi solo di difesa e giustizia e lasci il resto al “Mercato”), oppure il cosiddetto “anarco-capitalismo” di Murray Rothbard: uno Stato che si suicidi privatizzando tutto e affidandosi sempre al dio “Mercato”. Queste fumisterie ideologiche provengono dagli USA, cioè proprio il Paese dove il massimo investitore è lo Stato, anzi il Pentagono.
Dopo anni e anni di balle sui garage di Steve Jobs (un idolo per la sedicente “sinistra”), fortunatamente oggi anche
una rivista come “Limes” riconosce che tutta la tecnologia dei vari Microsoft, Apple, Facebook deriva direttamente ed esclusivamente dal Pentagono. La fittizia dicotomia tra Stato e capitalismo, Stato e Mercato, Stato e privato consente sì mirabilie illusionistiche, ma le evidenze contrarie sono molto maggiori.