Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Una delle discussioni che hanno segnato l’ultimo mese ha riguardato la violenza scolastica. In particolare hanno suscitato polemiche
le affermazioni del giornalista Michele Serra, il quale ha individuato nell’incultura del “popolo” una delle cause principali delle continue aggressioni agli insegnanti. Prima di stabilire se le tesi di Serra siano classiste o razziste, di destra o di sinistra, si tratta di capire se esse abbiano o meno un fondamento nei dati di fatto; e non ce l’hanno.
L’errore di metodo sta nel delimitare l’aggressione contro gli insegnanti nello stretto ambito della violenza fisica, mentre c’è anche la violenza morale e psicologica. Una famiglia “colta” e privilegiata può infatti aggredire un docente senza ricorrere alle classiche vie di fatto ma con strumenti “civili” e “giuridici”. Vi è stato infatti anche
il caso di un insegnante querelato per diffamazione per aver trascritto una nota disciplinare sul registro elettronico. Sebbene la famiglia querelante non sia riuscita ad ottenere una sentenza favorevole in tribunale, l’effetto intimidatorio nei confronti del docente è stato raggiunto ugualmente, poiché gli sono state procurate ansie, insonnie e spese legali, solo in parte compensate dalla sentenza finale. Il blog Orizzonte Scuola, che riporta la notizia, conclude seraficamente sull’opportunità per tutti i docenti italiani di assicurarsi contro questo tipo di “infortuni”, come già fanno i docenti francesi.
A parte che non è una grande consolazione sapere che anche in Francia l’istruzione pubblica è allo sbando, con l’invito ad assicurarsi arriviamo al vero scopo dell’attuale delegittimazione dell’istituzione scolastica pubblica, cioè trasformarla in una vacca da mungere, in un’occasione di business da parte di imprese private. Oggi la Scuola già versa il suo obolo non solo alle assicurazioni private, ma anche alle aziende private in nome della “alternanza Scuola-lavoro”, alle banche private in nome della “educazione finanziaria”, ad un’agenzia privata come l’Invalsi in nome della valutazione degli studenti, a multinazionali come la IBM per “formare” i Dirigenti, cioè per trasformarli in lobbisti, più o meno consapevoli dell’interesse privato.
Il privato si pone come tutore di una Scuola pubblica appositamente delegittimata e, per questa tutela, ovviamente si fa pagare.
È stato trascurato anche un altro dato di fatto che avrebbe dovuto far scorgere l’entità di questa delegittimazione. Il noto episodio del
docente aggredito a testate da uno studente col casco, è venuto alla luce solo perché gli stessi studenti hanno lanciato in rete dei video in cui illustravano e celebravano la propria impresa. Senza questa ingenuità da parte degli studenti, l’episodio si sarebbe consumato come tanti altri nei consueti rituali scolastici, cioè un’istruttoria del Dirigente Scolastico il quale avrebbe constatato che si trattava della parola di un unico docente contro quella di più studenti, che avrebbero buon gioco a far passare l’insegnante per pazzo. Per questo molti docenti non segnalano gli episodi di violenza che li colpiscono, in modo da non incorrere in ulteriori persecuzioni da parte del Dirigente.
Non è neppure da escludere che, persino in questo caso plateale, prima o poi si ricorra al solito mantra secondo cui è sempre il docente ad aggredire per primo, per cui le violenze studentesche diventerebbero una mera reazione. Quella del docente è una figura, per definizione e condizione, facilmente “calunniabile”. In un libro pubblicato nel 1890, “Il Romanzo di un Maestro”, lo scrittore e giornalista Edmondo De Amicis descriveva realisticamente la condizione della Scuola pubblica, in modo del tutto diverso dalla rappresentazione melensa ed oleografica dell’altro suo romanzo più noto, “Cuore”. De Amicis illustrava come i maestri fossero sistematicamente fatti bersaglio da parte di un’opinione pubblica ostile, appositamente montata e manovrata allo scopo di utilizzare la Scuola pubblica per scopi diversi da quelli istituzionali. De Amicis riferiva persino di casi di sfruttamento sessuale delle maestre, un fenomeno che la Legge 107/2015 ha rilanciato con lo strumento della chiamata diretta da parte dei Dirigenti.
Sino a venti anni fa se si chiedeva ad uno studente perché venisse a Scuola, spesso la risposta era: “Per sfottere gli insegnanti”. Oggi la risposta è cambiata e molti studenti dichiarano apertamente che il loro obbiettivo è quello di far licenziare qualche insegnante; in questo essi si trovano in oggettiva convergenza ed alleanza con Dirigenti Scolastici formati in corsi di management gestiti da multinazionali e con un’opinione pubblica che è stata nei decenni aizzata dai media contro la figura del docente.
Sul blog del solito Pietro Ichino un Dirigente afferma che la Scuola va in malora perché i Dirigenti non detengono gli strumenti normativi per licenziare i docenti fannulloni. Ecco il consueto rovesciamento propagandistico della realtà messo in campo dal lobbying del privato.
I docenti più colpiti dal mobbing dirigenziale sono infatti i più attaccati al loro lavoro e quelli che cercano di innalzare la qualità dell’istruzione, entrando ovviamente in conflitto con studenti e famiglie. Nella Scuola più si cerca di lavorare e più si rischia il peggio, perciò meno zelo nella didattica rende la vita molto più tranquilla. I Dirigenti rivendicano ancora altri poteri con il pretesto di colpire i fannulloni ma, in realtà, per mettere sulla graticola quei docenti che non si rassegnano a fare da accompagnatori per l’alternanza Scuola-lavoro o a fare da carne per il business dei corsi di formazione, ma vorrebbero semplicemente insegnare.
Purtroppo anche molti dei docenti rimasti più fedeli alla propria funzione si trovano comunque in stato confusionale, dato che hanno accolto acriticamente
la nuova didattica per “competenze”, senza coglierne l’operazione ideologica retrostante, funzionale ad asservire la Scuola alle imprese.
Molti commentatori che non si sono mai segnalati per la loro incisività nel sottolineare i paradossi della narrazione economica ufficiale, pur non hanno potuto fare a meno di notare la strana “coincidenza” tra l’ingresso di Cassa Depositi e Prestiti nell’azionariato di Telecom e l’annuncio recente della stessa azienda della messa in Cassa Integrazione e del
licenziamento per migliaia di dipendenti. In Telecom c’è una guerra feroce per il potere tra i soci americani e quelli francesi ma, sta di fatto, che il denaro di un’agenzia finanziaria del governo come Cassa Depositi e Prestiti ha conferito al management aziendale la “serenità” per avviare una politica di tagli del personale.
Cassa Depositi e Prestiti è la depositaria del risparmio postale, quindi dei risparmiucci di tanti lavoratori, che magari hanno visto un atto di responsabilità civile nell’affidare i propri denari a quella che viene presentata come un’agenzia per lo sviluppo economico. Magari tra questi risparmiatori c’erano anche quelli di Telecom, i quali si erano forse persino illusi che la presenza di CDP nell’azienda potesse costituire per loro una garanzia. Così non è stato e non può rappresentare una sorpresa, dato che non è la prima volta che il denaro pubblico costituisce il viatico e lo strumento per attuare politiche di privatizzazione e deindustrializzazione (spesso i due termini coincidono).
C’è l’illustre precedente della FIAT all’inizio degli anni ’80: un’azienda privata riscosse denaro pubblico in nome della riconversione industriale e se ne servì invece per licenziare e per investire nel debito pubblico. A quell’epoca il debito pubblico vedeva lievitare i suoi interessi perché l’ingresso dell’Italia, nel 1979, nel Sistema Monetario Europeo costringeva il governo a difendere il valore della lira aumentando il tasso di interesse sul proprio debito. La fiaba ufficiale presenta la lievitazione del debito pubblico come una conseguenza del bengodi nazionale e della necessità per i governi di comprare consenso sociale. In realtà il consenso che il debito pubblico ha conquistato è quello dei potentati finanziari. Che un debito pubblico confezionato a misura degli interessi della finanza venga scaricato sul popolo come colpa storica da espiare, fa parte del copione. Il marchio di fabbrica del lobbying finanziario è infatti la precettistica morale ed espiatoria, di cui è matrice il famoso slogan del Fondo Monetario Internazionale: “Avete vissuto al di sopra dei vostri mezzi”. La narrazione morale ha ovviamente i suoi eroi e i suoi santi da additare all’ammirazione devota dell’opinione pubblica.
Un personaggio che dal 2014 ha visto crescere esponenzialmente la sua popolarità mediatica è Carlo Cottarelli, un massone ed un ex del FMI, che era stato designato dal governo Letta come
commissario alla “spending review”, un tentativo fallito di attuare tagli nella spesa pubblica. Mai fallimento fu più foriero di fortune personali: Cottarelli è diventato un divo ed il suo mantra delle spese “improduttive” da tagliare imperversa da quattro anni nei talk-show.
Alcuni economisti si sono espressi sarcasticamente sulla effettiva competenza di Cottarelli ed hanno fatto notare che la scienza economica non ha mai precisamente individuato quale spesa sia produttiva e quale no. Però qualche idea a Cottarelli si potrebbe anche suggerirla.
Quant’è costato all’erario il Jobs Act? C’è proporzione tra le decine di miliardi spesi per finanziare le imprese e l’aumento effettivo della produttività? O si è soltanto finanziata la precarizzazione?
Quanto costa l’alternanza Scuola-lavoro? Ha senso versare centinaia di milioni alle imprese per farvi lavorare gratis degli studenti, cioè una manodopera dequalificata? Hanno davvero interesse le aziende a qualificare gli studenti o per le aziende è più conveniente usarli come sostituti dei lavoratori con le mansioni più basse? Questo schiavismo di Stato non costituisce per “caso” un disincentivo per le imprese ad assumere altro personale o, addirittura, un incentivo a licenziare parte di quello che hanno? Non è che l’alternanza Scuola-lavoro sta finanziando le non assunzioni o i licenziamenti, cioè altra disoccupazione? Sono “produttive” le spese che finanziano i licenziamenti?
Quanto sono costate allo Stato le privatizzazioni e quanto continuano a costare? Quanto è costato sinora tenere in piedi una Telecom privata? E quanto costerà allo Stato procedere nell’assistenza alla distruzione definitiva di questa azienda ad opera dei privati?
Quanto costa allo Stato in termini di sussidi accogliere una multinazionale per finanziare la delocalizzazione del nostro apparato produttivo? In concreto, quanto costa ogni anno al contribuente
un ente assistenziale per multinazionali come l’agenzia del ministero del Tesoro “Invitalia”?
Insomma, nella spesa pubblica c’è davvero molto di che tagliare nel capitolo dell’assistenzialismo per ricchi.