Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Dai lavoratori e lavoratrici Almaviva per il NO
Siamo avviliti e schifati per il modo in cui giornali e telegiornali stanno vendendo la nostra storia all’opinione pubblica. Quasi non crediamo sia possibile che l’unica versione servita al popolo italiano sia quella dell’azienda, del Governo o al massimo delle dirigenze sindacali. 1600 lavoratori vanno a casa dopo anni di lavoro e mesi di battaglie e la loro voce non viene praticamente ascoltata.
Perché non sono i mesi di sacrifici, di contratti di solidarietà, di salario perso a forza di scioperi, gli anni di lavoro che vanno in fumo con una semplice lettera di licenziamento. Non è questo il nostro principale dolore in questo momento. Sono queste inaccettabili menzogne a ferirci davvero, quelle che vorrebbero tramutare la vittima in colpevole.
Quelle che vorrebbero far ricadere la colpa di questo licenziamento di massa sugli stessi che lo subiscono e non su un’azienda che l’ha sempre voluto, che da anni usa questa minaccia per intascare soldi e commesse pubbliche, che da anni vessa i propri dipendenti e li mette gli uni contro gli altri. Un’azienda che mentre chiude le sedi di Roma e Napoli dove i lavoratori sono più anziani e le costano di più perché hanno ancora dei diritti, non si fa scrupolo di delocalizzare in Romania e chiedere ore di straordinario nelle sedi di Milano e Rende.
Perché la vera notizia di oggi doveva essere quella per cui in questo paese pieno di ricatti, di paura, di un servilismo alimentato da piccole promesse e illusioni, qualcuno, nonostante il prezzo, ha provato a dire NO: no a un accordo che altro non era che l’ennesimo attacco alla nostra dignità di lavoratori ed ai nostri diritti conquistati in anni di lavoro. Questa la proposta “indecente” avanzata da azienda e Governo, proposta che prevedeva la rinuncia agli scatti di anzianità maturati, controllo individuale e cassa integrazione. Tutte condizioni che se accettate avrebbero decurtato stipendi già miseri, reso ancora più insopportabile la nostra vita lavorativa e reso noi lavoratori ancora più vessati ed umiliati. Tutte proposte, guarda caso, avanzate dall’associazione padronale di categoria (ASSTELL) per il rinnovo del contratto nazionale dei dipendenti delle telecomunicazioni.
La pezza che ha provato a metterci il Governo consisteva soltanto in una proroga della trattativa di altri tre mesi. Uno stillicidio pagato con le tasche dei contribuenti in forma di cassa integrazione, per imporre poi lo stesso taglio del costo del lavoro e il controllo individuale che avevamo dichiarato inaccettabile e quindi concludere il tutto comunque con i licenziamenti. E per far passare questa schifezza, che nei titoli dei giornali era già “salvataggio” ancor prima che la trattativa si concludesse, hanno fatto una forzatura inaccettabile: quella di separare le vertenze di Napoli e Roma, che finora avevano corso insieme, per metterle l’una contro l’altra.
E ora vorrebbero mascherarsi dietro i formalismi procedurali e con questi assolvere ancora una volta dalle sue responsabilità un’azienda da sempre arrogante e spietata!
La verità è che Almaviva voleva il plebiscito e non l’ha ottenuto. Perché è vero che la paura si è fatta strada, assecondata dalle dirigenze sindacali che, anziché rafforzare quelli che resistevano, l’hanno pure alimentata con raccolte firme e un referendum che non aveva nulla di democratico, che chiamava libero un voto svolto sotto ricatto. Per una volta però questo non è bastato. Perché nonostante questo, in quel referendum, il 44% dei lavoratori ha comunque detto NO. Noi capiamo i nostri colleghi del SI, quelli disposti alla fine ad accettare e non gli facciamo una colpa delle loro decisioni. I colpevoli dei ricatti non solo quelli che cedono, ma quelli che li architettano. Capiamo adesso la loro delusione, molto di più quanto non lo facciano quelli che li hanno provati a sfruttare contro di noi, che si sono gettati come sciacalli sulle incertezze e difficoltà di noi tutti, le difficoltà che chiunque proverebbe di fronte a una lettera di licenziamento. Perché nonostante le nostre scelte diverse noi siamo e ci sentiamo nella stessa condizione.
Però nonostante gli enormi sacrifici che questa comporta, rivendichiamo con orgoglio di aver messo un punto, un freno all’arroganza di chi chiama “responsabilità” accettare di essere servi pur di lavorare. Perché a tutto c’è un limite, ancora siamo uomini e non ancora schiavi, nonostante le politiche di questi governanti che ora voglio apparire salvatori ci stiano portano in questa condizione.
Per questo hanno provato a infamarci, perché abbiamo dimostrato che la loro arroganza non può tutto. E questo non lo riescono proprio a tollerare. Perché ci tengono ad apparire più forti di quanto siano e hanno il terrore che anziché farci la guerra tra noi per le briciole che ci concedono potremmo cominciare a unirci e lottare.
Per noi, infatti, la lotta non si conclude qui.
Ogni tanto qualcuno si distrae e per abitudine superstiziosa ricomincia a credere all’esistenza dello Stato. Meno male che ogni tanto arrivano anche le sentenze della sedicente magistratura a riportare tutti alla realtà. La recente sentenza della Corte di Cassazione che legittima il licenziamento motivato dal “maggiore profitto”, è indicativa non solo e non tanto perché santifica il valore del profitto rispetto a quello del lavoro, ma soprattutto perché sposta la motivazione del licenziamento su un piano del tutto ipotetico ed oggettivamente indimostrabile all’atto del licenziamento stesso. A meno che il risparmiare su uno stipendio non venga di per sé considerato “maggior profitto”; o che non venga considerato foriero di maggior profitto soprattutto l’effetto terroristico che un licenziamento provoca sul resto del personale.
La sentenza della Corte di Cassazione è quindi antigiuridica in quanto stabilisce una sistematica incertezza della norma che si presta ad ogni abuso.
Alcuni giuristi hanno constatato che la sentenza della Cassazione può persino sortire un effetto di vera e propria istigazione a delinquere, in quanto conferisce, grazie alla generica motivazione del “maggior profitto”, una patente di impunità al padronato. Ecco che la legalità può esercitarsi in funzione dell’illegalità; ed il bello è che la “sinistra” (compresa quella “radicale”) si è suicidata ideologicamente proprio in nome del mito della legalità.
Che la giurisprudenza e la stessa legislazione possano risultare criminogene è dimostrato anche dal caso delle varie “riforme” del lavoro, tra cui il “Jobs Act”. L’uso dei cosiddetti “voucher” era stato ampliato a dismisura e giustificato dal governo Renzi con l’esigenza di far emergere il lavoro nero. Un pur edulcorato studio dell’INPS ha smentito completamente questa pretesa, in quanto la tanto decantata “emersione” del lavoro nero, in quasi quindici anni di vita dei voucher, non solo non è risultata statisticamente rilevabile, semplicemente non c’è.
Il punto è però che i voucher costituiscono, al contrario delle dichiarazioni ufficiali, un incentivo al lavoro nero, dato che consentono tuttora, nonostante le presunte “correzioni”, di sanare legalmente a posteriori le assunzioni irregolari in caso di incidenti sul lavoro. I voucher creano una zona grigia al confine tra legalità ed illegalità e perciò configurano oggettivamente un’istigazione a delinquere (anche soggettivamente, se è per questo: basti considerare la facies da sociopatico criminale del ministro Poletti). Un’istigazione a delinquere proprio da parte del cosiddetto “Stato” o, per meglio dire, da parte delle lobby che usano questa etichetta che fa leva sulla pubblica superstizione.
Chiunque non sia TG-dipendente oggi sa che l’attuale crisi finanziaria non è stata generata dal debito pubblico, bensì dal sistema bancario. Bisogna però sfatare il luogo comune secondo cui oggi si cercherebbe di far pagare la crisi ai lavoratori. Le “riforme strutturali” contro il lavoro hanno preceduto di gran lunga la crisi finanziaria e, in un certo senso, ne hanno posto le basi deprimendo i redditi. La crisi dei titoli derivati è scoppiata negli USA tra il 2007 ed il 2008, mentre le politiche di massiccia precarizzazione del lavoro sono cominciate in Europa ben cinque anni prima, nel 2003, con il piano Hartz in Germania e, in Italia, con la Legge 30/2003; quella legge che ha istituito per prima i voucher e quella stessa legge, non a caso, collocata sotto l’icona del martire del “terrorismo” Marco Biagi, a dimostrazione che il delitto va sempre a vantaggio del “maggior profitto”.
Il terrorismo delle sparatorie è stato accompagnato e integrato da un terrorismo giudiziario contro i dirigenti sindacali. L’ex segretario della CGIL Sergio Cofferati fu scagionato dalla Procura di Bologna dall’accusa di concorso nell’assassinio di Biagi solo dopo aver ottenuto il calo di brache della stessa CGIL sulla questione del precariato.
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