Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
In Francia il presidente Hollande persiste nel suo progetto di “riforma” del lavoro, incurante delle proteste dei lavoratori, perché tanto “glielo chiede l’Europa”, anzi la Banca Centrale Europea. Un’altra spirale di recessione e di compressione della domanda interna che farà saltare anche ogni previsione di bilancio a causa del calo delle entrate fiscali dovuto al crollo dei redditi.
In base alle statistiche la Francia è l’unico Paese che può insidiare all’Italia il primato in fatto di ricchezza delle famiglie (altrimenti Balzac che ci stava a fare), quindi sia l’Italia che la Francia hanno un ceto medio proprietario di immobili e titoli che sarebbe in grado di finanziare interamente il debito pubblico, anzi non aspetta altro. Ma, a differenza dell’Italia, la Francia non è un Paese occupato militarmente, non ha basi USA e possiede persino proprie armi nucleari, non in gran numero ma tecnologicamente avanzate; perciò il governo francese potrebbe fare tutte le politiche espansive tranquillamente infischiandosene dei “mercati”, dello spread, della Merkel e persino del nostro idolo nazionale “Super-Mario” Draghi.
Eppure Hollande brucia le sue possibilità di rielezione per varare una riforma del lavoro che mina le basi del ceto medio francese perché elimina i clienti del commercio, delle imprese e delle professioni. Si tratta di un segno che Hollande ed i suoi colleghi non affidano le loro prospettive personali di carriera alla politica ma al lobbismo delle banche multinazionali. Il Fondo Monetario Internazionale ha candidamente ammesso che non esiste alcun riscontro oggettivo alla tesi secondo cui la “flessibilità” del lavoro aumenterebbe la produttività e l’occupazione; in compenso esiste un nesso consequenziale preciso tra la precarizzazione e l’aumento della finanziarizzazione dei consumi, cioè la sostituzione dei salari con i prestiti.
Intanto, contro le previsioni che davano una risicata, ma certa, vittoria del “remain”, la Brexit sembra oggi ufficializzata dal referendum nel Regno Unito, sebbene si sia trattato di una scadenza meramente consultiva, senza effetti legali diretti. Secondo la rivista “Le Monde Diplomatique” il “remain” aveva l’appoggio del Fondo Monetario Internazionale, di JP Morgan, della City e della Confindustria inglese, oltre che della maggioranza trasversale del parlamento, perciò la vittoria del “leave” apparirebbe piuttosto indecifrabile. Che il risultato del referendum fosse inatteso è stato dimostrato dalle facce funeree della Merkel e di Juncker, che non erano di circostanza ma esprimevano autentica paura.
Sarebbe comunque interessante sapere chi abbia consigliato Matteo Renzi di lanciare quell’assurdo appello all’elettorato britannico per il “remain” (forse l’ambasciatore Christopher Prentice?). Era infatti esattamente quanto serviva ai sostenitori della Brexit per contrastare gli effetti della “italianizzazione” strisciante del dibattito interno, una italianizzazione dovuta ai toni autorazzistici di Cameron ed alla criminalizzazione del dissenso in seguito alla uccisione di una deputata europeista ad opera di un attentatore presunto nazionalista. L’appello di Renzi ha costituito contro tutto questo una sorta di terapia shock, poiché gli elettori britannici si sono trovati tutti di un colpo, senza la dovuta gradualità, di fronte agli esiti ultimi della “italianizzazione”, con un premier mezza calzetta di un Paese colonia di serie B a fargli la predica. La reazione di rifiuto era scontata.
D’altra parte non si deve sopravvalutare l’effetto-opinione nei referendum, in quanto, a meno di voler dare retta agli entusiasmi “democratici” di Giulietto Chiesa, non è realistico credere che, senza un appoggio di una parte dell’establishment britannico, la Brexit non sarebbe stata in qualche modo bloccata. Un Paese come il Regno Unito, che è un broglio elettorale istituzionalizzato, avrebbe rinunciato ai brogli a fronte di un risultato del tutto indesiderato?
L’appoggio silenzioso di settori dell’establishment britannico alla Brexit potrebbe avere motivazioni confessabili, come le preoccupazioni per il cronico passivo della bilancia commerciale, o come gli effetti di sempre maggiore predominio della finanza tedesca a causa del cannibalismo bancario a spese dei Paesi del Sud innescato dal “bail in”. Il governo tedesco sta imponendo alla UE regole bancarie confezionate sulle esigenze dei propri istituti di credito, per cui i titoli di Stato dei PIGS nelle casseforti delle banche sono considerati a rischio, mentre invece non sono considerati a rischio i titoli derivati di cui è stracolma Deutsche Bank! Potrebbero però esserci da parte dell’establishment britannico anche motivazioni inconfessabili, come dare una mano indirettamente al TTIP, prendendo la burocrazia e la iper-regolamentazione europee come finto bersaglio per dirottare il tutto verso una deregulation del commercio su base transatlantica. Quando la burocrazia europea viene definita “sovietica”, sorge il sospetto che non si tratti solo di ignoranza ma che ci sia qualche secondo fine.
Restano comunque poco attendibili certe reazioni eccessive di cordoglio in Italia per la scelta britannica. Un “europeista in buona fede” (ma probabilmente è un ossimoro, una contraddizione in termini) avrebbe dovuto considerare soprattutto gli effetti positivi dell’uscita della Gran Bretagna, un Paese sempre propenso ad un atteggiamento corrivo nei confronti della Germania, un atteggiamento congegnato in questi termini: fai pure quello che ti pare con i tuoi Paesi scagnozzi, basta che a noi lasci uno spazio privilegiato e condizioni di favore. Il Regno Unito non è mai stato un contrappeso alla Germania, anzi un suo oggettivo alleato, perciò per il governo tedesco è una copertura che viene a saltare, con l’apertura di molti margini di deroga ai diktat di Berlino per i Paesi minori come l’Italia; purché queste deroghe se le prenda e non le aspetti. Al contrario, all’ultimo vertice a tre con la Merkel e Hollande, Renzi si è presentato con le solite brache in mano a mendicare ancora le stesse concessioni, cercando di mascherare l’imbarazzante situazione con qualche battuta da deficiente.
Il punto è che gli europeisti in buona fede non esistono. L’Europa è diventata l’alibi ideologico del lobbismo e del carrierismo personale nel settore privato. Intervistato da Lili Gruber sul risultato referendario, l’ex Presidente del Consiglio Enrico Letta non ha trovato di meglio, allo scopo di rilanciare il rapporto con i cittadini, che abolire la politica come professione, con ciò esaltando la prospettiva della “porta girevole”, cioè di lasciare ogni tanto la politica per razziare guadagni in carriere nelle multinazionali, come hanno già fatto Giuliano Amato e Vittorio Grilli. Come a proclamare che le istituzioni sono solo un trampolino per farsi i fatti propri. A riguardo Renzi ha solo da scegliere tra uno dei tanti a cui ha fatto favori: Apple, Philip Morris, Goldman Sachs o Soros. A proposito di Soros, egli appare il più catastrofista sulle sorti dell’Unione Europea. Forse è in preparazione qualche altro shock speculativo per presentare il conto ai contribuenti. Tanto qualunque emergenza finanziaria sarà sempre fatta digerire all’opinione pubblica con i consueti slogan del “colpanostrismo”.
La Brexit ha infranto il tabù europeo, specialmente in un Paese come l’Italia, dove l’anglolatria costituisce una vera religione; quindi la Brexit ha suscitato in molti, che prima non avrebbero osato, la voglia di riportare nel dibattito l’espressione “interesse nazionale”. Un esempio di “interesse nazionale” dovrebbe essere rappresentato dall’istruzione pubblica, soprattutto nel versante tecnico e professionale. In un articolo del gennaio scorso sul quotidiano confindustriale “Il Sole-24 ore”, l’ex Presidente del Consiglio Romano Prodi ha perorato la causa dell’istruzione tecnica nella Scuola, esaltando la sua funzione nello sviluppo industriale di un Paese e lamentando la sua decadenza, dato che il numero di iscritti nei licei tecnici tende a calare paurosamente. L’articolo è piuttosto generico e meramente esortativo, evitando accuratamente di smascherare gli interessi che hanno portato allo smantellamento dei gloriosi istituti tecnici così decisivi in passato.
Prodi mette sì in evidenza l’assurda dilatazione delle competenze universitarie a scapito di quelle scolastiche, ma si trova a parlare di corda in casa dell’impiccato, sia perché dimentica le responsabilità del suo primo governo e del ministro Berlinguer nell’affossare la Scuola, sia perché Confindustria non ha mai levato una protesta nei confronti delle riforme Moratti e Gelmini, tutte rivolte a liquidare l’istruzione tecnica pubblica, e ciò perché Confindustria ha anteposto gli interessi della sua Università, la LUISS, alla produttività che l’istruzione tecnica della Scuola pubblica determinava. Lo studente oggi deve pagare a prezzi sempre più elevati all’Università ciò che una volta otteneva gratuitamente dalla Scuola statale, quella stessa Scuola statale oggi invece costretta a sperperare i fondi per l’istruzione per mantenere la costosa farsa dell’alternanza Scuola-lavoro, che è una mera distribuzione di soldi pubblici alle aziende. La Scuola non svolge oggi più alcuna funzione sociale riconoscibile, anzi, costituisce un mero luogo di dissoluzione antropologica, sia dei docenti che degli studenti.
L’interesse nazionale quindi non ha mai sfiorato la mente di Confindustria, e tantomeno l’interesse produttivo, mentre quello finanziario sì. L’istruzione pubblica non era nata per “interesse nazionale” ma per la spinta sociale dei ceti lavoratori, che volevano un avvenire migliore per i propri figli. Il padronato si è giovato di questa spinta in termini di produttività del sistema, ma non ha gradito né favorito questa spinta. L’odio di classe anzitutto.
Oggi Confindustria è preoccupata per le sofferenze bancarie determinate dalla austerità e spera in un salvataggio delle banche con denaro pubblico, ciò dopo il terrorismo del “Bail in”, che non avrebbe altro esito che la cannibalizzazione delle banche italiane da parte di quelle tedesche e francesi. Il quotidiano confindustriale “Il Sole-24 ore” sta quindi conducendo una campagna per indurre il governo a rifinanziare le banche. Il “Financial Times” ha diffuso la notizia secondo cui il governo Renzi sarebbe già pronto a foraggiare direttamente le banche, anche in presenza di un veto tedesco e della Commissione Europea. Renzi però ha smentito, e il quotidiano confindustriale spera che la smentita di Renzi sia solo tattica diplomatica.
In fondo si tratta dell’interesse nazionale. Ma “interesse nazionale” sarebbe stato anche evitare il “Jobs Act” con i suoi effetti depressivi sulla domanda interna; anzi, interesse nazionale sarebbe stato soprattutto impedire ad uno come Renzi di mettere piede a Palazzo Chigi. Il problema è che il padronato non ha una visione generale dei propri interessi, ed il suo riflesso condizionato è l’aggiotaggio sociale, cioè deprimere con ogni mezzo, soprattutto illecito, il valore della merce lavoro. Confindustria estende l’aggiotaggio sociale all’intera nazione, paventando il rischio del caos politico e persino dell’arretramento del Prodotto Interno Lordo in caso di vittoria dei no al referendum costituzionale di ottobre. Affermare l’insostituibilità di Renzi e presentarlo come l’ultima spiaggia suona assolutamente ridicolo e si risolve in un mero discredito nei confronti di un intero sistema istituzionale, anzi di un intero Paese. Siamo sempre nella “logica” del vittimismo padronale, cioè della convinzione dei sedicenti “imprenditori” di vivere in un Paese che non li merita, troppo arretrato per le loro lungimiranti visioni.
A proposito di persone di cui l’Italia non ha saputo dimostrarsi all’altezza, c’è l’ex Governatore della Banca d’Italia, ex Presidente del Consiglio ed ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, il quale ha scritto un libro dal titolo in cui traspare tale delusione: “Non è il Paese che sognavo”. Ciampi è noto anche per la decisione, presa nel 1981 insieme con il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, del “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia, cioè la cessazione dell’obbligo da parte della banca centrale di sottoscrivere i titoli di Stato rimasti invenduti. Grazie a quella eroica decisione il Tesoro fu costretto a cercare di vendere i suoi titoli sui “mercati”, facendo quindi schizzare alle stelle gli interessi da pagare agli investitori e facendo lievitare il debito pubblico. Il solito “Sole-24 ore” riporta le vanterie di Ciampi su quella sua storica bravata.
Risulta però chiaro che Ciampi si sopravvaluta, poiché ciò che Andreatta aveva fatto, un altro ministro del Tesoro avrebbe potuto poi disfarlo, magari senza neppure andare a bussare al portone della Banca d’Italia, ma semplicemente adottando, come già si era fatto nel 1977, i cosiddetti “prestiti forzosi”, magari pagando i fornitori della Pubblica Amministrazione e gli scatti di stipendio degli alti funzionari direttamente con titoli di Stato. Non si è fatto perché del cosiddetto “interesse nazionale” non fregava nulla a Ciampi ma nemmeno agli altri. Il colonialismo trova infatti il suo vero punto di forza nel collaborazionismo dei ceti dirigenti locali.
Molti ricordano il discorso di Craxi alla Camera nel 1993, quando chiamò tutti i partiti alla corresponsabilità nel fenomeno delle tangenti. Lo “statista” Craxi non trovò di meglio per giustificarsi che uno squallido “così fan tutti”. Eppure Craxi aveva ben altro da denunciare che gli spiccioli delle tangenti, poiché nel 1992, Ciampi, da governatore della Banca d’Italia, aveva sperperato migliaia di miliardi in riserve valutarie per sostenere un insostenibile cambio della lira, che all’epoca era sotto attacco da parte del solito George Soros. La lira poi fu svalutata ugualmente, ma giusto in tempo per consentire a coloro che avevano esportato i loro capitali di farli rientrare rivalutati del 30%. Ma forse Craxi aveva pensato che queste cose la “gente” non le avrebbe capite. In fondo si trattava di denunciare il colonialismo, e la “gente” pensa che si tratti di roba che riguarda l’Africa. Meglio ridurre tutto il dibattito all’infanzia della questione morale.
Ciampi ha sempre goduto di ottima stampa, “nonostante” che lo si trovi coinvolto spesso in vicende losche, tra cui anche il sacco del Banco di Napoli e del suo patrimonio immobiliare. Viene da chiedersi se esista una Scuola tecnica per formare Presidenti della Repubblica del tipo di Ciampi o Napolitano, o se invece le loro siano virtù innate.
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