La Brexit ha infranto il tabù europeo, specialmente in un Paese come l’Italia, dove l’anglolatria costituisce una vera religione; quindi la Brexit ha suscitato in molti, che prima non avrebbero osato, la voglia di riportare nel dibattito l’espressione “interesse nazionale”. Un esempio di “interesse nazionale” dovrebbe essere rappresentato dall’istruzione pubblica, soprattutto nel versante tecnico e professionale. In un articolo del gennaio scorso sul quotidiano confindustriale “Il Sole-24 ore”, l’ex Presidente del Consiglio Romano Prodi ha perorato
la causa dell’istruzione tecnica nella Scuola, esaltando la sua funzione nello sviluppo industriale di un Paese e lamentando la sua decadenza, dato che il numero di iscritti nei licei tecnici tende a calare paurosamente. L’articolo è piuttosto generico e meramente esortativo, evitando accuratamente di smascherare gli interessi che hanno portato allo smantellamento dei gloriosi istituti tecnici così decisivi in passato.
Prodi mette sì in evidenza l’assurda dilatazione delle competenze universitarie a scapito di quelle scolastiche, ma si trova a parlare di corda in casa dell’impiccato, sia perché dimentica le responsabilità del suo primo governo e del ministro Berlinguer nell’affossare la Scuola, sia perché Confindustria non ha mai levato una protesta nei confronti delle riforme Moratti e Gelmini, tutte rivolte a liquidare l’istruzione tecnica pubblica, e ciò perché Confindustria ha anteposto gli interessi della sua Università, la LUISS, alla produttività che l’istruzione tecnica della Scuola pubblica determinava. Lo studente oggi deve pagare a prezzi sempre più elevati all’Università ciò che una volta otteneva gratuitamente dalla Scuola statale, quella stessa Scuola statale oggi invece costretta a sperperare i fondi per l’istruzione per mantenere la costosa farsa dell’alternanza Scuola-lavoro, che è una mera distribuzione di soldi pubblici alle aziende. La Scuola non svolge oggi più alcuna funzione sociale riconoscibile, anzi, costituisce un mero luogo di dissoluzione antropologica, sia dei docenti che degli studenti.
L’interesse nazionale quindi non ha mai sfiorato la mente di Confindustria, e tantomeno l’interesse produttivo, mentre quello finanziario sì. L’istruzione pubblica non era nata per “interesse nazionale” ma per la spinta sociale dei ceti lavoratori, che volevano un avvenire migliore per i propri figli. Il padronato si è giovato di questa spinta in termini di produttività del sistema, ma non ha gradito né favorito questa spinta. L’odio di classe anzitutto.
Oggi Confindustria è preoccupata per le sofferenze bancarie determinate dalla austerità e spera in un salvataggio delle banche con denaro pubblico, ciò dopo il terrorismo del “Bail in”, che non avrebbe altro esito che la cannibalizzazione delle banche italiane da parte di quelle tedesche e francesi. Il quotidiano confindustriale “Il Sole-24 ore” sta quindi conducendo una campagna per indurre il governo a rifinanziare le banche. Il “Financial Times” ha diffuso la notizia secondo cui il governo Renzi sarebbe già pronto a
foraggiare direttamente le banche, anche in presenza di un veto tedesco e della Commissione Europea. Renzi però ha smentito, e il quotidiano confindustriale spera che la smentita di Renzi sia solo tattica diplomatica.
In fondo si tratta dell’interesse nazionale. Ma “interesse nazionale” sarebbe stato anche evitare il “Jobs Act” con i suoi effetti depressivi sulla domanda interna; anzi, interesse nazionale sarebbe stato soprattutto impedire ad uno come Renzi di mettere piede a Palazzo Chigi. Il problema è che il padronato non ha una visione generale dei propri interessi, ed il suo riflesso condizionato è l’aggiotaggio sociale, cioè deprimere con ogni mezzo, soprattutto illecito, il valore della merce lavoro. Confindustria estende l’aggiotaggio sociale all’intera nazione, paventando il
rischio del caos politico e persino dell’arretramento del Prodotto Interno Lordo in caso di vittoria dei no al referendum costituzionale di ottobre. Affermare l’insostituibilità di Renzi e presentarlo come l’ultima spiaggia suona assolutamente ridicolo e si risolve in un mero discredito nei confronti di un intero sistema istituzionale, anzi di un intero Paese. Siamo sempre nella “logica” del vittimismo padronale, cioè della convinzione dei sedicenti “imprenditori” di vivere in un Paese che non li merita, troppo arretrato per le loro lungimiranti visioni.
A proposito di persone di cui l’Italia non ha saputo dimostrarsi all’altezza, c’è l’ex Governatore della Banca d’Italia, ex Presidente del Consiglio ed ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, il quale ha scritto un libro dal titolo in cui traspare tale delusione: “Non è il Paese che sognavo”. Ciampi è noto anche per la decisione, presa nel 1981 insieme con il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, del “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia, cioè la cessazione dell’obbligo da parte della banca centrale di sottoscrivere i titoli di Stato rimasti invenduti. Grazie a quella
eroica decisione il Tesoro fu costretto a cercare di vendere i suoi titoli sui “mercati”, facendo quindi schizzare alle stelle gli interessi da pagare agli investitori e facendo lievitare il debito pubblico. Il solito “Sole-24 ore” riporta le vanterie di Ciampi su quella sua storica bravata.
Risulta però chiaro che Ciampi si sopravvaluta, poiché ciò che Andreatta aveva fatto, un altro ministro del Tesoro avrebbe potuto poi disfarlo, magari senza neppure andare a bussare al portone della Banca d’Italia, ma semplicemente adottando, come già si era fatto nel 1977, i cosiddetti “prestiti forzosi”, magari pagando i fornitori della Pubblica Amministrazione e gli scatti di stipendio degli alti funzionari direttamente con titoli di Stato. Non si è fatto perché del cosiddetto “interesse nazionale” non fregava nulla a Ciampi ma nemmeno agli altri. Il colonialismo trova infatti il suo vero punto di forza nel collaborazionismo dei ceti dirigenti locali.
Molti ricordano il
discorso di Craxi alla Camera nel 1993, quando chiamò tutti i partiti alla corresponsabilità nel fenomeno delle tangenti. Lo “statista” Craxi non trovò di meglio per giustificarsi che uno squallido “così fan tutti”. Eppure Craxi aveva ben altro da denunciare che gli spiccioli delle tangenti, poiché nel 1992, Ciampi, da governatore della Banca d’Italia, aveva sperperato migliaia di miliardi in riserve valutarie per sostenere un insostenibile cambio della lira, che all’epoca era sotto attacco da parte del solito George Soros. La lira poi fu svalutata ugualmente, ma giusto in tempo per consentire a coloro che avevano esportato i loro capitali di farli rientrare rivalutati del 30%. Ma forse Craxi aveva pensato che queste cose la “gente” non le avrebbe capite. In fondo si trattava di denunciare il colonialismo, e la “gente” pensa che si tratti di roba che riguarda l’Africa. Meglio ridurre tutto il dibattito all’infanzia della questione morale.
Ciampi ha sempre goduto di ottima stampa, “nonostante” che lo si trovi coinvolto spesso in vicende losche, tra cui anche il sacco del Banco di Napoli e del suo patrimonio immobiliare. Viene da chiedersi se esista una Scuola tecnica per formare Presidenti della Repubblica del tipo di Ciampi o Napolitano, o se invece le loro siano virtù innate.