Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di comidad (del 13/02/2016 @ 22:53:49, in Storia, linkato 3130 volte)
E' uscito postumo per sole poche ore, lo scorso 24 novembre 2015, l'ultimo libro di Guido Barroero, “Cento anni di storia operaia: la Camera del Lavoro di Sestri Ponente e l'Unione Sindacale Italiana”. Il libro era stato pensato per il centenario dell'Unione Sindacale del 2012, ma per una serie di circostanze e di eventi, come è spiegato e documentato nella prefazione, i tempi si sono allungati, e il libro uscirà ben tre anni dopo il previsto, a poche ore dalla sua morte. Guido Barroero, proprio per un soffio, non farà in tempo a vederlo.
Perchè Sestri Ponente? Come spiega lo stesso autore: “Questa storia è dunque storia della presenza dell'Unione Sindacale a Sestri, ma è anche storia della sua Camera del Lavoro, è storia del movimento operaio sestrese (e genovese) e delle sue lotte...” Sestri è stata una roccaforte del sindacalismo rivoluzionario, con un'importanza fondamentale non solo nell'ambito genovese, ma anche in quello nazionale. Quindi storia dell'Unione Sindacale, e della sua espressione nel Genovesato, soprattutto Sestri Ponente, dove notevole e proficua era la presenza dell'USI. Ricordiamo brevemente la nascita dell'Unione Sindacale: nel novembre del 2012 si tiene a Modena il congresso dell'Azione Diretta (così si chiamava il coordinamento dei gruppi sindacalisti-rivoluzionari all'interno della Confederazione Generale del Lavoro, costituita nel 1906, nella quale la parte rivoluzionaria del movimento operaio, dopo una prima scelta di non aderirvi per la sua tendenza riformista e la sua dipendenza dal partito socialista, era successivamente confluita), e in quella circostanza viene decisa la costituzione dell'Unione Sindacale Italiana.
A Sestri Ponente la Camera del Lavoro nasce nel 1896, e cresce nonostante le difficoltà iniziali (venne sciolta d'autorità per ben due volte, e altre volte accadrà negli anni a venire). I suoi appartenenti, tra i quali era prevalsa la componente rivoluzionaria, diedero un fondamentale contributo alla costituzione e alla crescita dell'USI.
Il libro racconta quegli anni, intensi e duri, le lotte dei lavoratori per migliorare le proprie condizioni di lavoro e di salario, ad esempio molto importante e strenuamente combattuta la lotta per le otto ore, contro un padronato altrettanto agguerrito, ma spesso perdente di fronte alla forza e alla combattività degli operai, il periodo bellico, il dopoguerra, l'occupazione delle fabbriche del 1920, dove fondamentale fu l'apporto dell'USI fino al “tradimento” della CgdL e del partito socialista, gli anni della clandestinità e dell'esilio con l'avvento del fascismo, le dure persecuzioni, quindi, nella seconda parte, il dopoguerra, il ritorno dell'USI e il suo successivo declino. Il libro si chiude con l'ultimo Convegno nazionale di Carrara del 1970. Il testo è arricchito da una grande quantità di tabelle, documenti e testimonianze, che permettono al lettore di immergersi il più possibile dentro quegli anni gloriosi e difficili, dentro una storia rimasta per troppo tempo nell'oblio, storia che questo lavoro ci riporta, in tutta la sua vitalità.
E' arricchito inoltre dall'ottima introduzione di Mario Spagnoletti, che ripercorre con attenzione gli argomenti trattati nel libro, la “documentata e appassionata “resa dei conti” con l'esperienza e la storia dell'Unione Sindacale” che Barroero ha inteso realizzare, e così conclude: “Il volume, che è corredato ed impreziosito da una cospicua Appendice di tabelle, documenti e schede biografiche dei principali protagonisti della storia dell'Unione Sindacale e della Camera del Lavoro sestrese, merita ogni attenzione e positivo apprezzamento per il grande equilibrio con cui intreccia le analisi rigorosamente scientifiche -proprie della ricerca storica e della sistemazione storiografica- e la robusta “passione militante”, che ne attraversa tutte le pagine e lo immunizza contro i virus di uno storicismo o di un biografismo esangui e falsamente neutrali.”
Il libro inizia con un breve ricordo personale. Barroero entrò in contatto con l'Unione Sindacale Italiana alla fine degli anni Sessanta, poco prima del suo scioglimento. (Verrà poi ricostituita agli inizi degli anno Ottanta, come sappiamo). Così racconta: “Unione Sindacale Italiana. Sestri Ponente. Primo piano, una targa: Unione Sindacale Italiana. Un locale piccolissimo, non più di 6-8 mq, occupato quasi interamente da un armadio, un casellario, una scrivania su cui troneggia una vecchia Olivetti, un ciclostile ancora più vecchio, qualche seggiola, nient'altro. (…) In questo “loculo” due anziani compagni: Dall'Olio, ex-impiegato dell'Ansaldo Meccanico e Piana, falegname in pensione, attivo sindacalmente fin dai tempi del Biennio rosso; poi uno della generazione di “mezzo”, Carlo Boccardo (sulla quarantina), operaio tubista ai Cantieri Navali di Sesti, eletto delegato di reparto nel primo Consiglio di fabbrica. In questo contesto “caliamo” io e un gruppo di giovani compagni (…..) Di lì a poco più di un anno, Dall'Olio e Piana, gli unici rimasti, chiudono la Segreteria nazionale USI e la sede di Sestri. Nessuno li sostituisce nell'incarico e l'Unione Sindacale sparisce praticamente di scena fino al 1978, anno in cui si terranno alcuni attivi nazionali per la sua ricostituzione. La piccola sede di Sestri Ponente la “ereditiamo” noi che nel frattempo ci siamo costituiti in OdCL (Organizzazione dei Comunisti Libertari) di forte ispirazione arscinovista. Rientrando in quel locale, trovo in un armadio un piccolo mazzo di tessere di operai dell'Italcantieri e penso al lavoro sindacale umile e silenzioso che i vecchi compagni avevano continuato a fare per tanti anni, senza mezzi, tentando di ridare consistenza all'Unione Sindacale. Mi sembra che ci sia un debito da saldare. Oggi penso che sia venuto il momento di saldare quel debito, ripercorrendo la storia dell'Unione Sindacale a Sesti, fuori da ogni retorica, ma col preciso intento di riportare alla luce un'esperienza che il tempo e il prevalere di altre culture politiche, non certo libertarie, hanno oscurato”.
Barroero presenta un quadro completo di Sestri Ponente, ripercorrendo la storia di Sestri e del ponente cittadino fin dai tempi più antichi.”Sestri Ponente è Sestri e basta. E' l'altra, l'omonima del Tigullio, che ha bisogno dell'aggettivazione: Sestri Levante. Sestri è Sestri e non è Genova, come non sono Genova le altre delegazioni ponentine e valpolceverasche e a rimarcare queste specificità rimangono i modi di dire comuni: ancora oggi non si dice “andare in centro”, ma “andare a Genova”. Parte quindi dall'epoca antica e medievale, dall'origine del nome di quel piccolo borgo che tanto muterà, ripercorrendone brevemente l'evoluzione fino alla massiccia industrializzazione dei tempi moderni. E l'intensa vita sindacale con le coraggiose lotte degli operai.
Guido Barroero si era già dedicato a questi argomenti, collaborando a un libro su Maurizio Garino, Il sogno nelle mani – Torino 1909-1922 e ad un altro sul sindacalismo rivoluzionario e Alibrando Giovannetti.
Per quanto riguarda la storia del libro, come abbiamo detto all'inizio, l'idea nasce per il centenario dell'Unione Sindacale. Guido Barroero nel 2010 era stato eletto segretario dell'attuale Unione Sindacale Italiana, e si era gettato subito con impegno in questo compito, per lui particolarmente importante, proprio per la sua conoscenza di una storia tanto gloriosa, e per il suo desiderio, oltre alla “resa dei conti” e al “debito da saldare” cui si accennava in precedenza, di contribuire il più possibile a una rivitalizzazione dell'USI odierna. Purtroppo il suo impegno venne fermato. Ancora oggi questa vicenda è tenuta nascosta, confinata anch'essa nell'oblio. Dovrà tornare alla luce, raccontata nel dettaglio e documentata, perché anche questa è storia, per quanto assai poco lusinghiera, e perché lo dobbiamo all'autore del libro. La prefazione che Guido Barroero chiese al compagno Gino Ancona fu una delle cause che ritardarono l'uscita del libro.
Guido Barroero fu irremovibile su questo punto. La prefazione rimase e la raccolta dei fondi si allungò nel tempo. Solo grazie all'impegno di pochi compagni determinati a portare a termine questo compito e rispettare quindi la volontà dell'autore, si è giunti infine, pur in mezzo a mille difficoltà, alla pubblicazione.
Oggi comunque riteniamo sia prima di tutto importante conoscere e far conoscere questo lavoro, per il suo grande spessore e per la sua rilevanza storica, al di là delle vicende suaccennate. Questo libro è qualcosa di notevole e prezioso, che non merita di venire sprecato. E' anche un monito e un insegnamento, per tutti noi, perché la lotta per la nostra emancipazione dalla schiavitù del lavoro, dallo sfruttamento e dal capitale è tutt'altro che conclusa.
Silvia Ferbri
Chi desidera ordinare il libro, può farlo inviando una mail a rivoltalibera@libero.it con i propri dati, ed effettuare il versamento (il prezzo è 15 euro), su Poste Pay n.4023600623382308 intestata a Roberto Dammicco, via Bissolati 15 F Bari, C.F. DMMRRT56B28A662R
Più di un commentatore ha notato l’assoluto nonsenso della lettera di risposta di Matteo Renzi ad Eugenio Scalfari, il quale sollecitava una posizione del governo italiano sulla proposta del presidente della BCE, Mario Draghi, di istituire la figura del ministro del Tesoro europeo. Renzi ha infatti ripresentato, persino nelle virgole, la stessa litania che ripete da due anni: l’austerità non basta, la Germania non rispetta le regole, mentre noi le rispettiamo, ecc.
Se Renzi avesse voluto, o potuto, spostare la polemica su un piano più incisivo, avrebbe quantomeno messo in evidenza l’inganno insito nella proposta di Draghi,
la quale non fa altro che prospettare ai governi del Sud-Europa altre deleghe in bianco in cambio di promesse generiche. In queste condizioni di impotenza, la strada maestra per Renzi sarebbe di tacere di più e di fare di meno in termini di “riforme”, dato che ogni atto di obbedienza non fa altro che ribadire la sottomissione ai diktat di Bruxelles e di Francoforte. Se è vero che Draghi tiene il Tesoro italiano per i cosiddetti, dato che è proprio la BCE oggi a sostenere il debito pubblico italiano comprando i suoi titoli, è anche vero che un default dell’Italia non sarebbe una buona notizia per le banche del Nord-Europa.
Non è questione di “sovranità” o di indipendenza, dato che ci sarebbe da discutere sul fatto che l’Italia tale indipendenza l’abbia mai avuta davvero. Molti storici tedeschi ritengono, legittimamente, che l’Unità d’Italia sia una creatura prussiana. Senza la guerra austro-prussiana del 1866 - quella che in Italia è passata come Terza Guerra d’Indipendenza -, non solo l’Italia non avrebbe potuto ottenere il Veneto dall’Austria sconfitta, ma la stessa Austria non avrebbe cessato la sua assistenza alla guerriglia legittimista del Meridione d’Italia (il famoso “brigantaggio”, ma oggi lo si chiamerebbe “terrorismo”); guerriglia che infatti si esaurì di lì a poco. La guerra franco-prussiana del 1870 e la sconfitta francese consentirono inoltre l’annessione di Roma al Regno d’Italia, poiché il cancelliere Bismark aveva neutralizzato il protettore del papa, Napoleone III. Non a caso la “Breccia di Porta Pia” e l’ingresso delle truppe sabaude a Roma avvennero venti giorni dopo la disfatta francese di Sedan contro i Prussiani. Insomma, la tesi storica secondo cui l’unificazione italiana sarebbe stata un sottoprodotto dell’unificazione tedesca operata dal cancelliere prussiano Otto Von Bismark, ha un suo fondamento oggettivo.
La schizofrenia renziana, ed in genere della classe “dirigente” italiana, consiste nel voler combinare il servilismo tremebondo con l’illusione di poter un giorno discutere allo stesso livello con i padroni; cioè non si pone la propria condizione di debolezza come un dato scontato da cui partire per far valere le proprie ragioni. La cognizione della propria debolezza non è autorazzismo, mentre lo è la smania di rendersi “degni” dei propri padroni, magari dimostrando di saper fare i “compiti” che ci assegnano. L’autorazzismo si esprime con un senso di inadeguatezza nazionale; un’inadeguatezza che andrebbe colmata attraverso le solite “riforme”.
Sarebbe un errore però considerare tutto questo come se si trattasse di un problema psicologico o culturale degli Italiani. Non si comprende nulla dell’imperialismo se non si sottolinea il suo carattere bilaterale: ogni oligarchia locale tende a vedere nel dominio straniero un’occasione per regolare i conti al proprio interno contro le classi povere. La sottomissione imperiale può avere i suoi aspetti duri anche per i ricchi, ma comunque i poveri rimangono per loro il primo nemico. L’imperialismo non si configura quindi come un confronto di potenza tra le nazioni, ma come una guerra mondiale dei ricchi contro i poveri.
Questo schema bilaterale dell’imperialismo può essere applicato alla stessa oligarchia tedesca, che è sì sottomessa agli USA nel quadro dell’imperialismo NATO, ma comunque in una posizione di forza nei confronti degli altri Paesi europei. Il sub-imperialismo tedesco ha i suoi effetti anche interni, dato che la classe operaia tedesca ha visto comprimere sempre più il proprio salario negli ultimi quaranta anni.
In Italia le critiche nei confronti del sub-imperialismo tedesco sembrano farsi sempre più esplicite. Sul quotidiano “Il Giornale” l’ex ministro Renato Brunetta non esita ad accusare la Germania di volersi “mangiare” le banche italiane. Tutto vero, ma questo frammento di verità viene inserito in un contesto che lo falsifica e che ribadisce la sottomissione al quadro imperialistico, dato che si colloca in un organo di stampa che fa dell’allarmismo anti-islamico il suo cavallo di battaglia.
L’Islam come religione è ovviamente solo un pretesto propagandistico, che serve ad evocare un presunto assalto dei poveri del mondo alla cittadella dei ricchi, cioè il Sacro Occidente. L’accostamento subliminale tra Islam e poveri non è un’esclusiva della destra palese, ma riguarda anche ambienti della cosiddetta “sinistra”. Su un numero del gennaio 2016 del settimanale “Charlie Hebdo” la giornalista Angélique Kouronis narra su ben due pagine di un suo tour di vari giorni nella periferia di Parigi per registrare la reazione della gente alla vista del giornale “Charlie Hebdo” nelle sue mani. Le reazioni sarebbero state molto più pacate di quanto ci si aspettasse, o si sperasse. Ma il punto è che la redazione della rivista francese non coglie il paradosso del proprio comportamento, cioè l’andare a stuzzicare dei poveri, come se il problema fossero loro.
|
|
|