Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Presentiamo un breve testo di Piercy Ravenstone, economista
inglese, il cui vero nome era Richard Puller. Il testo è ancora
valido per una serie di motivi: demolisce la mitologia del Capitale,
rivela l'aspetto magico/religioso del concetto, mette in ridicolo i
suoi profeti e cantori, lo pone in concreta relazione con la spesa
pubblica e con la rendita, lo oppone al lavoro umano, dimostrando che
non c'è capitalismo senza appropriazione e gestione a fini
privati del pubblico denaro. Soprattutto, è un testo del 1821,
quindi il carattere mistificatorio del capitalismo era già
chiaro allora, per chi lo voleva vedere. Anche Marx conosceva
Ravenstone, perché lo ha citato in nota nel "Capitale"(Libro I,
sez. IV, cap. 13, nota n.° 196), però per questioni diverse,
quindi è stata una precisa scelta di Marx quella di non tenere
conto della sua denuncia del capitalismo, e della "scienza" economica
che lo supporta, come fenomeni ideologici. Nell'attuale retorica
ufficiale il dio Capitale è stato in parte soppiantato dal dio
Mercato, un'altra astrazione mitologica, utile ad attribuire tutti i
problemi ad una presunta necessità superiore e impersonale,
contro la quale sarebbe vano opporsi, distraendo così
l'attenzione dalla vera questione: gli interessi affaristici di precise
oligarchie finanziarie e commerciali.
Comidad, dicembre 2007
Nel 1821 un certo Richard Puller aveva pubblicato con lo pseudonimo di
P. Ravenstone un libro dal titolo "Qualche dubbio sull'esattezza di
alcune opinioni generalmente accolte in materia di popolazione ed
economia politica". Ecco quel che Ravenstone dice all'inizio del
capitolo intitolato "Del capitale":
Ma arriveremmo a una visione molto imperfetta degli effetti
della rendita e delle tasse, se dimenticassimo le conseguenze che
derivano dalla creazione di capitale. Il capitale è figlio della
rendita e delle tasse, il loro costante alleato, il loro confederato in
tutte le intromissioni e usurpazioni che esse compiono nei confronti
dell'operosità umana. Esso è per meglio dire, il pioniere
che apre loro la strada. È la grande causa che opera a gonfiare
il numero degli oziosi, e ad addossarne il fardello all'intera
società. Tuttavia non è molto facile farsi un'idea
precisa della natura del capitale. Esso è certamente un essere
affatto diverso dai suoi associati. La rendita e le tasse hanno
un'esistenza aperta e dichiarata: il modo in cui operano lo abbiamo
sotto gli occhi. Calcolandone l'ammontare siamo in grado di fare una
stima dei loro effetti; i loro movimenti avvengono alla luce del
giorno, le loro pretese non sono dissimulate. Si tratta di sostanze
visibili e tangibili. Le loro proprietà possono venire accertate
nel crogiuolo dell'esperienza; possono venire sottoposte alla prova dei
loro effetti pratici. Ma per il capitale non è così. Esso
non ha che un'esistenza metafisica. Per quanto i suoi effetti possano
essere ovunque toccati con mano, la sua presenza non può essere
individuata da nessuna parte. La sua natura incorporea è per
sempre al di fuori della nostra portata. Nessuno ha mai visto la sua
forma; nessuno sa dove dimori. Il suo potere non sta in se stesso; non
agisce se non con mezzi presi a prestito. I suoi tesori non sono una
ricchezza reale, ma soltanto rappresentazioni della ricchezza. Possono
venire accresciuti fino a ogni quantità immaginabile, senza
aggiungere nulla alle reali ricchezze di una nazione. Il capitale
è come l'etere sottile degli antichi filosofi: sta vicino a noi,
attorno a noi, si mescola in tutte le cose che noi facciamo. Per quanto
di per sé invisibile, i suoi effetti sono anche troppo evidenti.
Il capitale non è meno utile ai nostri economisti di quanto lo
fosse l'etere per i filosofi. Serve a dar conto di qualunque cosa non
possa essere spiegata altrimenti. Dove la ragione viene meno, dove
l'argomentare è insufficiente, esso opera come un talismano per
mettere a tacere tutti i dubbi. Nelle loro teorie occupa lo stesso
posto che era tenuto dalle tenebre nella mitologia degli antichi.
È la radice di tutte le loro genealogie, la grande madre di
tutte le cose, la causa di ogni evento che accade nel mondo. Il
capitale, secondo loro, è il padre dell'operosità, il
precursore di ogni processo. Esso costruisce le nostre città,
coltiva i nostri campi, canalizza le acque vaganti dei nostri fiumi,
ricopre di boschi le nostre aride montagne, trasforma i nostri deserti
in giardini, decide che sorga la fertilità ovunque prima era la
desolazione. Esso è la divinità della loro idolatria, che
hanno innalzato al culto nei luoghi sacri del Signore; e se la sua
potenza fosse quale essi la immaginano, non sarebbe certo indegno della
loro adorazione.
Piercy Ravenstone,
A few doubts as a correctness of some opinions generally entertained on subjects of population and political economy, London, J. Andrews, 1821.
A proposito del testo qui sopra abbiamo ricevuto una replica e si è sviluppato un
piccolo dibattito. Gli interessati lo trovano su questa pagina.
(Osservazioni sul libro "Stalin, Storia e Critica di una Leggenda Nera" di Domenico Losurdo)
Stalin fu celebrato in vita dai più illustri uomini di Stato "occidentali", per poi subire da morto la sorte di essere criminalizzato e presentato come un'incarnazione del Male. Questo paradosso costituisce il punto di partenza del libro del filosofo Domenico Losurdo: "Stalin, Storia e Critica di una Leggenda Nera".
Il paradosso potrebbe però essere solo apparente. Stalin può aver riscosso tanta ammirazione da parte dei controrivoluzionari proprio per la sua attività controrivoluzionaria, per poi diventare un comodo bersaglio propagandistico dopo la sua morte, quando la sua figura poteva essere strumentalizzata in funzione anticomunista.
Losurdo dimostra che a Stalin sono stati attribuiti dalla propaganda "occidentale" molti crimini non provati, ma è anche vero che non gli vengono contestati crimini su cui invece abbonda una precisa documentazione ufficiale. Ad esempio, se da una parte non c'è nessuna prova che Stalin sia effettivamente responsabile del genocidio per fame in Ucraina, dall'altra sono invece accertate le sue responsabilità - sia pure indirette - nel genocidio dei Palestinesi nel 1948, quando furono proprio la decisa azione diplomatica e l'aiuto materiale dell'Unione Sovietica, contro le remore della Gran Bretagna, a consentire la nascita dello Stato di Israele. È un tema ritornato da poco alla ribalta della storiografia, anche se lo storico comunista Luciano Canfora nell'aprile 2002 si presentò addirittura ad una manifestazione di piazza pro-Israele (organizzata dal giornalista - e confesso agente della CIA - Giuliano Ferrara), per vantare in quella pubblica occasione i determinanti meriti di Stalin nella nascita di Israele.
Nel 1948 i sionisti costituivano già da mezzo secolo una banda di mercenari al soldo del colonialismo britannico, ma la Gran Bretagna e gli Stati Uniti temevano che la nascita di uno Stato di Israele costituisse una provocazione eccessiva e insostenibile verso gli Arabi, perciò risultò decisivo alla fine l'atteggiamento favorevole di Stalin. La propaganda ufficiale non soltanto ha taciuto sul fatto che Stalin sia il vero padre dello Stato di Israele, ma è arrivata ad inventarsi un suo presunto antisemitismo, in modo che il nesso Stalin-Israele sia considerato inconcepibile.
A differenza dei leader "occidentali", Stalin non si lasciò mai andare a dichiarazioni razzistiche, ma la sua scarsa sensibilità verso le spinte anticolonialistiche nel mondo arabo fa comunque pensare che subisse dei pregiudizi in tal senso.
Durante la guerra di Spagna, dalle colonne del suo giornale "Guerra di Classe", l'anarchico Camillo Berneri si batté perché il governo repubblicano concedesse l'indipendenza al Marocco spagnolo, in modo da togliere a Franco la sua base di appoggio; ma anche in quel caso prevalsero nel governo, controllato dagli stalinisti, sia i pregiudizi contro società arretrate e tribali, che avrebbero potuto costituire un ostacolo al progresso se liberate dall'oppressione coloniale, sia - e soprattutto - il timore di infastidire le grandi potenze coloniali. Considerando nella giusta dimensione l'importanza della questione marocchina, l'assassinio di Berneri potrebbe essere stato concepito dagli stalinisti anche come un favore nei confronti di Francia e Gran Bretagna.
In tutta la visione staliniana pare completamente assente la consapevolezza che anche l'Unione Sovietica costituisce un bersaglio per il colonialismo "occidentale"; un fatto che risulta evidente oggi che la Russia post-comunista non costituisce più una sfida ideologica per il sedicente "Occidente", che però continua a cercare di accerchiarla e smembrarla per impadronirsi dei suoi serbatoi naturali di materie prime.
Avendo svolto la sua funzione controrivoluzionaria da vivo, Stalin poteva essere poi infangato da morto, poiché la sua figura funziona da comodo pretesto per mettere sotto accusa ogni istanza rivoluzionaria. La destalinizzazione dell'Unione Sovietica ha sicuramente favorito questa propaganda, poiché gli argomenti contro Stalin contenuti nel rapporto segreto del XX Congresso del PCUS del 1956 finivano, volontariamente o meno, per mettere sotto accusa la stessa idea di Rivoluzione.
Losurdo riferisce nel suo libro di una testimonianza del ministro degli Esteri sovietico Molotov, secondo cui Stalin avrebbe avuto una premonizione sul fatto che la sua tomba sarebbe stata ricoperta di immondizia. Stalin poteva profetizzarlo con cognizione di causa, dato che doveva essere a conoscenza dell'opportunismo del gruppo dirigente che egli stesso aveva selezionato. Alla morte di Stalin, il suo pupillo Beria, e l'annessa mafia georgiana, vennero eliminati, ma il resto del gruppo dirigente sovietico era comunque di derivazione staliniana e, dal punto di vista ideologico, non rappresentò mai una rottura in tal senso.
In un discorso all'Assemblea Costituente, Benedetto Croce affermò che il fascismo continuava nell'antifascismo, poiché la nuova classe dirigente seguita alla caduta del regime mussoliniano proseguiva nel costume fascista di denigrare l'Italia. Anche lo stalinismo è continuato nella destalinizzazione, poiché è proseguita la pratica staliniana di trovare il nemico soprattutto a sinistra, e di cercare il potenziale interlocutore sempre a destra.
Oggi, con Veltroni, siamo addirittura allo stalinismo senza comunismo e senza sinistra, poiché il segretario del PD è persino riuscito, contro ogni evidenza, ad attribuire il fallimento del governo Prodi alla mitica "politica dei no" della cosiddetta "sinistra radicale", isolandola da ogni futura ipotesi di governo, anche a costo di condannare se stesso ed il suo Partito Democratico all'estinzione.
Quando Losurdo deve smantellare molti dei miti negativi su Stalin costruiti dalla propaganda anticomunista, allora si serve di una puntuale documentazione, che certamente mette in crisi i luoghi comuni sul fenomeno Gulag. Ma allorché Losurdo si trova di fronte all'evidenza della eliminazione del gruppo dirigente della Rivoluzione di Ottobre, allora deve ricorrere a sofismi o a illazioni. Se abbiamo ben compreso l'argomentazione di Losurdo, Stalin sarebbe stato costretto ad eliminare la vecchia guardia rivoluzionaria per la propensione dei sovversivi di professione a continuare la loro attività anche contro il governo rivoluzionario; quindi la sovversione viene interpretata come nevrotica coazione a ripetere, anche quando le circostanze lo sconsiglierebbero.
Che accanto a Stalin non sia rimasto nessuno dei rivoluzionari della prima ora, costituisce una di quelle evidenze che non si possono risolvere con argomenti di questo genere. Far fuori i rivoluzionari, in definitiva, è un'attività controrivoluzionaria; nel caso di Trotzsky il fatto si può spiegare con la terribile radicalità della contrapposizione che si è verificata, ma è un argomento che certo non può valere quando si tratti di un Kamenev o di un Bucharin.
È la propaganda reazionaria a sostenere che la destabilizzazione sociale provenga sempre dalla nefasta azione di mostri mitologici, come i fanatici utopisti, i terroristi, o i tiranni. Un classico dell'antistalinismo, "Animal Farm" di George Orwell, nonostante i suoi pregi letterari, costituisce dal punto di vista politico una colossale mistificazione, poiché colloca la Rivoluzione Russa in una metafora astratta, un mondo ingiusto ma ordinato, che all'improvviso viene sovvertito dall'illusione rivoluzionaria dei "maiali", chiaramente discendenti dei "demoni" di dostoevskiana memoria.
Le motivazioni utopistiche dei "maiali", come quelli dei "demoni", alla fine si rivelano sempre la maschera di un desiderio di privilegi, perciò si ristabiliscono gli schemi reazionari della fiaba ufficialmente imposta, secondo cui la ricchezza soddisfatta viene minacciata dalla invidia sociale.
È sempre lo stesso luogo comune reazionario per cui bisogna votare il ricco perché non avrebbe bisogno di rubare, come se fosse possibile diventare e restare ricchi senza rubare. Già Aristotele avvertiva invece che la minaccia alla stabilità proviene dai ceti privilegiati, sempre ansiosi di ulteriori privilegi. Persino la Rivoluzione Francese cominciò per l'attacco mosso al potere regio da parte di un'aristocrazia desiderosa non solo di difendere, ma di estendere i suoi privilegi.
Che la Rivoluzione Russa sia sortita dal macello della prima guerra mondiale, che si sia radicalizzata sulla questione di uscire dalla guerra, che sia proseguita in una guerra civile fomentata e sostenuta dalla aggressione coloniale degli ex alleati della Russia zarista, sono fatti che si mettono in ombra troppo facilmente. Nel 1919 era pronto persino un corpo di spedizione italiano per aggredire la Georgia e strapparla all'Unione Sovietica. Questo progetto, ispirato e incoraggiato da Francia e Gran Bretagna, fu liquidato solo per l'arrivo alla Presidenza del Consiglio nel 1919 di Francesco Saverio Nitti - che ne riferisce nelle sue memorie -; altrimenti ad aggredire l'Unione Sovietica vi sarebbero state anche truppe italiane, oltre che francesi, statunitensi, britanniche e giapponesi.
La propaganda borghese non ha mai dubbi: dietro ogni mossa dei comunisti c'è sempre un movente utopistico, poiché secondo questa propaganda esistono due mondi separati, quello delle "scelte pragmatiche" e quello delle scelte dettate da utopismo e fanatismo. Il continuo sospetto nei confronti del movente utopistico, ha trasformato la ricerca storica su vicende come la collettivizzazione dell'agricoltura in un processo alle intenzioni a scapito dell'attenzione ai dati di fatto.
In realtà, parlare di una Russia strappata dal suo idillio e trasformata a forza dai rivoluzionari in un laboratorio di Utopie, costituisce un puro falso storico, ma ciò non toglie nulla alla constatazione che Stalin non abbia contribuito assolutamente a render chiaro che "rivoluzione" non significa violazione di un ordine, bensì resistenza ad un'aggressione coloniale e di classe.
Stalin ha condiviso i luoghi comuni reazionari, ed è stato per tutta la vita soprattutto un cacciatore di utopisti, di "demoni" in senso dostoevskiano. E per tutta la vita, Stalin ha cercato intese "pragmatiche" con i mitici e inesistenti "ricchi soddisfatti" di cui Churchill era solito cantare le lodi. I sedicenti "ricchi soddisfatti" - ingrati - hanno poi demonizzato anche Stalin.
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