Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Il filo-americanismo presenta sempre risorse insospettate. Come già otto anni fa la vittoria di Obama aveva rilanciato il mito della “più grande democrazia del mondo”, persino l’attuale “trionfo” di Trump ha dato il via ai consueti inni in onore degli USA, capaci di sovvertire quel “pensiero unico” che proprio loro avevano imposto al mondo. Ogni speculazione ed ogni elucubrazione andrebbero peraltro corredate di qualche pezza d’appoggio, che invece manca all’appello.
Hillary Clinton è stata abbandonata da una parte consistente dell’elettorato democratico, riscuotendo oltre sei milioni di voti in meno dello spompato Obama delle elezioni di quattro anni fa. Nonostante abbia spaventato l’elettorato democratico con i suoi toni guerrafondai, Hillary Clinton ha strappato comunque più voti di Trump, ed assolutamente nulla indica che i voti da lei persi siano andati al suo avversario, il quale, in definitiva non è riuscito neppure a raggiungere la percentuale elettorale raggiunta dai precedenti candidati repubblicani, McCain e Romney. Trump è risultato alla fine vincente non per aver trascinato le masse, ma solo per le
alchimie elettorali del sistema americano, in altre parole per il velato appoggio di una parte dell’establishment.
Cosa vogliono le lobby che hanno sostenuto Trump? Certamente non solo il protezionismo in sé, che nessun presidente gli aveva fatto mai mancare. Già nel 2007 l’Unione Europea infatti segnalava il
protezionismo mascherato degli USA, che ammantava con motivi di sicurezza il blocco delle merci straniere. Oggi c’è in ballo qualcosa di più, cioè una revisione dei trattati commerciali internazionali che, dopo l’orgia delle delocalizzazioni, hanno determinato dei feedback sfavorevoli per il sistema industriale americano.
Chi in Italia si aspetta una replica della Brexit e del trumpismo al prossimo referendum costituzionale, dovrebbe anzitutto chiedersi se in Italia vi sia una parte dell’establishment disposta, come nel Regno Unito, a supportare la probabile vittoria numerica dei no consentendole di risultare al computo dei voti finali. La possibilità di brogli infatti non è un’ipotesi peregrina o complottistica, in quanto trova la sua ragion d’essere nella legislazione vigente sul
segreto di Stato, varata nel 2007 dal ministro Amato e concretizzata dallo stesso ministro nel regolamento ministeriale del 2008. Nel regolamento, tra le materie da considerare possibile oggetto del segreto di Stato, vi è infatti la “tutela della sovranità popolare”. L’introduzione di questo concetto appare abbastanza paradossale. Cosa può esservi da segretare in ciò che concerne la “sovranità popolare” se non i brogli elettorali?
Alcuni commentatori hanno correttamente segnalato nella propaganda di Renzi il suo punto di forza, ma anche il suo punto di debolezza. La propaganda è un genere narrativo seriale, analogo a quello delle fiction televisive, nelle quali si attira l’attenzione dello spettatore con drammatizzazioni esagerate. Le attese così create nello spettatore vengono però regolarmente deluse dalle stesse esigenze del serial, che non si preoccupa del peso attribuito di volta in volta a personaggi e situazioni, ma solo della sua continuità narrativa, perciò tutto ciò che era stato enfatizzato nelle puntate precedenti viene prontamente dimenticato nelle puntate successive. Se il “Jobs Act” aveva costituito quella svolta epocale che avrebbe dovuto attirare investimenti da ogni dove, come mai oggi quegli stessi investimenti sarebbero invece condizionati al sì al referendum? E prossimamente quale altra condizione ci sarà? Le “riforme” non riformano mai abbastanza ed ormai servono soltanto a preparare altre “riforme”, all’infinito.
D’altra parte questo “epocalismo” e queste attese palingenetiche di cui il renzismo si nutre, costituiscono il minore degli aspetti del problema. Gli aspetti più gravi riguardano il non detto, l’ignoto ai più, o addirittura il falso. Tutta la questione dell’illegalità istituzionale viene infatti percepita nei suoi risvolti infimi, come le ruberie ed i privilegi.
Hegel diceva che lo Stato è l’ingresso di Dio nel mondo. Il problema è che l’esistenza dello Stato è persino più dubbia di quella di Dio. Anche rappresentare lo Stato come un apparato di classe gli attribuirebbe un’organicità che in effetti non possiede. Lo Stato è in parte un’astrazione giuridica, in parte una superstizione, ma soprattutto esso rappresenta un’etichetta ed un alibi per le lobby affaristiche prevalenti, lobby delle privatizzazioni, lobby finanziarie, lobby coloniali. E non c’è certezza del diritto che tenga di fronte agli interessi delle lobby che operano nelle istituzioni pubbliche.
Nel 2013 i ministeri hanno imposto
un balzello di seicento euro (poi portato addirittura a seicentocinquanta) per poter presentare il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. Per i dipendenti pubblici che sono vittime dei soprusi della lobby delle privatizzazioni ciò rappresenta un ulteriore ostacolo alla possibilità di difendersi. Il Consiglio di Stato ha rilevato l’incostituzionalità, l’illegittimità e l’illegalità del balzello, ma poi lo stesso Consiglio di Stato, invece di pronunciarsi per la sua abolizione, ha demandato al governo la risoluzione della questione con un’apposita legge, che ovviamente non si farà, se non in senso peggiorativo. In pratica il Consiglio di Stato se ne è lavato le mani (o, meglio, se le è sporcate insieme col governo).
Un altro risvolto del tutto oscurato dalle fumerie mediatiche riguarda le vere finalità della legislazione fiscale. L’opinione pubblica più “arrabbiata” percepisce il fisco come un’austerità che si è resa necessaria per tamponare i buchi creati dalle ruberie presenti e passate, ignorandone i risvolti lobbistici e coloniali. Ad esempio, nell’ultimo ventennio le tasse sulla casa hanno determinato un
crollo dei valori immobiliari. La Banca Centrale Europea ci fa sapere che l’Italia non è riuscita neanche ad agganciarsi alla ripresa europea del valore degli immobili.
Sta di fatto che il crollo dei prezzi degli immobili italiani ha consentito una penetrazione di “investitori” esteri, i quali non hanno atteso la vittoria del sì per arraffare quegli immobili a prezzi stracciati.
Le acquisizioni degli immobili sono operazioni coloniali condotte con capitali esteri, ma anche da lobby italiane che concorrono a manovrare quei capitali. Si è quindi creato un establishment interno che trae profitto e vantaggio dalla collaborazione coloniale. Occorrerà vedere se questo establishment consentirà la vittoria dei no, o anche se non sia già pronto a gestirne gli effetti con nuove misure di “austerità”.
A dettare le scadenze di un Paese non sono i risultati elettorali ma le “emergenze”, specialmente quelle artificiose. L’europeismo, come già ci aveva fatto sapere Altiero Spinelli, si alimenta di emergenze, la più ghiotta delle quali sarebbe quella di una guerra, fredda o calda, contro la Russia. La recentissima mozione del parlamento europeo che paragona la
minaccia russa a quella dell’Isis, va certamente in questo senso.
La morte di Fidel Castro ha dato il via ad una pioggia di commenti, più istruttivi su chi li ha formulati che sull’oggetto dei commenti stessi. La maggiore preoccupazione è stata infatti quella di incasellare il personaggio nella categoria dei “buoni” o dei “cattivi”, ciò in linea con l’attuale civiltà (o inciviltà) del “rating”, cioè della valutazione a tutti costi che soppianta ogni tentativo di comprensione. Dopo la riforma Renzi della Scuola anche gli studenti non vanno più a scuola per imparare qualcosa, bensì per “valutare” gli insegnanti.
I commenti hanno finito per lo più per mettere in ombra gli aspetti istruttivi dell’esperienza castrista, ed invece ce ne sono alcuni da mettere in evidenza, a cominciare dalla stessa avventura insurrezionale del 1959. I luoghi comuni che si sono consolidati tra gli anni ‘60 e ‘70 a proposito della guerriglia hanno fatto credere che il fattore-tempo giocasse a favore della guerriglia stessa, una tesi che l’esperienza non ha mai confermato. L’azione di Fidel Castro ha dimostrato infatti che le insurrezioni hanno possibilità di successo in una limitata finestra temporale. Quando Castro ha spinto per un colpo di mano decisivo contro il regime di Batista, ciò poteva apparire prematuro, mentre in effetti preveniva sia la possibilità per il nemico di rafforzarsi, sia lo spegnimento del movimento insurrezionale a causa delle consuete defezioni, divisioni e infiltrazioni, oltre che per il probabile deterioramento dei rapporti con una popolazione sottoposta alle angherie supplementari di una situazione bellica.
Si potrebbe dire che in un certo senso lo stratega Castro ha agito e pensato più da quell’allenatore di baseball che era, quindi consapevole che il tempo a disposizione per vincere non è illimitato, che da marxista (ammesso che marxista lo sia mai stato).
L’altro aspetto interessante dell’esperienza castrista ha riguardato la fase dell’isolamento economico dopo la caduta del blocco sovietico. Dato per spacciato dall’opinione dominante, il regime castrista ha conosciuto la sua maggiore stagione di popolarità proprio dopo la fine del mito del socialismo cubano, quando il senso del castrismo si indirizzava al semplice obiettivo della resistenza all’imperialismo USA, senza più pretendere di rendersi degno di tale opposizione offrendo in cambio la prospettiva di un paradiso in Terra.
L’esperienza cubana degli anni ‘90 ha demistificato molti miti sull’economia, dimostrando che non solo si poteva sopravvivere alle sanzioni, ma che si poteva addirittura allestire un welfare a copertura totale contenendone i costi al minimo. Dato che oggi in Europa la tesi dominante riguarda proprio l’insostenibilità dei costi del welfare, si può facilmente dedurne che l’enfatizzazione e la lievitazione dei costi del welfare sia tutt’altro che una legge economica ineluttabile, bensì l’effetto delle pressioni delle lobby delle privatizzazioni, molte delle quali agiscono sotto l’etichetta di quella superstizione chiamata “Stato”; lobby che spingono per passare da un welfare pubblico ad un
“welfare aziendale”. Che il “welfare aziendale” costi realmente meno sarebbe tutto da dimostrare, dato che già ora si regge grazie alle enormi agevolazioni fiscali. Quando cesserà di essere “alternativo”, si può essere certi che anche il “welfare aziendale” verrà sussidiato apertamente con denaro pubblico.
Con la malattia e l’imbalsamazione in vita del leader massimo, anche a Cuba si è insediata da un po’ di tempo una agguerrita quanto subdola lobby delle privatizzazioni. Dopo le prime privatizzazioni “soft” che hanno riguardato taxi e piccolo commercio, la lobby è riuscita persino ad ottenere che la
gestione dell’aeroporto dell’Avana venisse concessa ad una multinazionale francese. L’evento dà la misura dell’irresponsabilità e dello sradicamento territoriale di queste bolle oligarchiche che si avvantaggiano del business delle privatizzazioni. Fin troppo noto è infatti il rapporto organico che vige tra multinazionali e servizi segreti, una relazione consolidata dal costume delle porte girevoli che consentono agli ex (?) agenti segreti di aprirsi carriere nelle multinazionali. La Francia fa parte della NATO, perciò tanto valeva levarsi il pensiero affidando le chiavi della porta dell’Avana direttamente alla CIA.
Il punto è che lo stesso socialismo va demistificato, in quanto è la fisima di “costruirlo” a portare fuori strada. La gestione privata non si regge senza il costante supporto del denaro pubblico, perciò ogni privatizzazione è a carico del contribuente, che la paga prima, durante e dopo. Le privatizzazioni sono un welfare pubblico a favore dei ricchi. Non si tratta quindi di “costruire il socialismo” ma semplicemente di smettere di privatizzare.