Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
A distanza di sette anni dall'avvio del negoziato, ed in prossimità della scadenza del 2015, finalmente la questione del TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership, la "NATO economica") sta arrivando a conoscenza della gran parte della pubblica opinione. Quando i giochi sono già fatti, e tutto è stato deciso, allora è il caso di dare avvio al "dibattito democratico", anche se con gli opportuni accorgimenti. I post sulle testate online sono infatti equamente distribuiti tra favorevoli e contrari, in modo da fornire l'impressione di un equilibrio. Se un'opinione vale l'altra, questo TTIP non sarà poi così spaventoso da giustificare certe preoccupazioni. In tal modo, anche i sette anni di segretezza diventano un dettaglio trascurabile.
Queste tecniche di manipolazione puerili, ma sempre efficaci, vengono messe in atto in questo periodo anche per la "riforma" della Scuola. Il governo Renzi ha spinto la finzione al punto da allestire uno sportello di "ascolto" per le proposte dei cittadini. La "Buona Scuola" di Renzi si concede un bagno di democrazia, e molti cittadini, pur consapevoli di non contare nulla, si offrono volentieri all'abluzione rituale.
Si tratta poi dello stesso Renzi che ha dichiarato il suo appoggio "incondizionato" all'iniziativa del TTIP. A fronte di un negoziato ufficialmente ancora in corso, un aggettivo come "incondizionato" risulta piuttosto pesante da parte di un capo di governo, poiché compromette l'esito della trattativa. In altri tempi una tale dichiarazione avrebbe configurato il reato di alto tradimento, cioè la conclamata volontà di non tenere conto degli interessi del proprio Paese pur di compiacere il cosiddetto "alleato". Ma oggi un Presidente del Consiglio" può permettersi di sbracare tranquillamente, tra i canti di laude dei cori angelici della stampa ufficiale.
Il fatto grave è che l'aggettivo "incondizionato" non è semplicemente una delle tante boutade renziane, ma si riferisce proprio all'aspetto cruciale del TTIP, che non riguarda certo la libera circolazione delle merci. I dazi in vigore nell'interscambio commerciale USA-EU sono già bassissimi, e potevano essere pacificamente aboliti senza bisogno di un ulteriore trattato. Ma la diatriba storica tra protezionismo e liberoscambismo è puramente di facciata, e serve solo a gettare fumo negli occhi. Il cosiddetto "liberoscambismo" non è altro che uno slogan di copertura per una forma più subdola e aggressiva di protezionismo, dato che i vari trattati di "libero scambio" - dal WTO, al NAFTA al costituendo TTIP - sono costellati di clausole tendenti a favorire, in modo palese o occulto, le compagnie multinazionali.
Il punto cruciale del TTIP riguarda infatti la normativa di protezione degli interessi delle multinazionali, a cui verrebbe concesso anche il privilegio di citare in giudizio gli Stati che danneggino i loro interessi, eventualmente con legislazioni a favore dell'ambiente o del consumatore. Un privilegio del genere non verrebbe mai concesso ai comuni cittadini, ma alle multinazionali sì. Nessun pensionato potrà mai citare in giudizio lo Stato per la riforma Fornero, e nessun disoccupato potrà trascinare Renzi davanti ad un giudice per il "Jobs Act". L'uguaglianza davanti alla Legge è sempre stata un mito, ma è interessante il fatto che si voglia seppellire persino il mito con un apposito trattato.
Nella ricorrenza del venticinquennale della Caduta del Muro di Berlino, sta diventando popolare anche da noi un luogo comune che circola da tempo nei Paesi dell'Est Europa, secondo il quale i regimi comunisti mentivano sul comunismo, ma dicevano la verità sul capitalismo. In realtà la menzogna era più complessiva e insidiosa, poiché il cosiddetto "socialismo reale" condannava sì il capitalismo, ma offrendone nel contempo un'immagine piuttosto edulcorata e rassicurante, un celebrativo ritratto "nature", uno scenario suggestivo di competizione selvaggia e di individualismo sfrenato. Al contrario, il "capitalismo reale" costituisce uno squallido fenomeno di criminalità comune, che nel corso dei secoli si è specializzato nel rivendicare e ottenere ogni tipo di assistenza e protezione da parte dello Stato. Mentre gli economisti ci narrano la fiaba del mercato, le multinazionali praticano la predazione assistita dallo Stato.
Oggi improvvisamente si scopre l'acqua calda, e cioè che l'attuale presidente della Commissione Europea - quella mezza figura di Juncker -, può vantare come suo unico merito quello di essere stato per anni a capo di un Paese, il Lussemburgo, diventato un paradiso fiscale per le multinazionali. Allo scopo di favorire l'evasione, per Juncker ogni espediente era buono, sia "legale" che fraudolento. Altro che "burocrate"! Anzi, uno Juncker missionario dell'assistenzialismo per ricchi.
Il Decreto "Sblocca-Italia" si caratterizza già per l'arroganza del suo nome, uno slogan che manifesta le pretese messianiche di tutta la comunicazione del governo Renzi. Come se il mondo non avesse aspettato altro che lui, Matteo Renzi si spaccia come un novello redentore che ordina all'Italia paralitica di alzarsi e di camminare. Ciò è in linea con le attuali tendenze del "management", sia pubblico che privato, in cui ogni nuovo dirigente si presenta come colui che è destinato alla missione di guarire le piaghe causate dalle gestioni precedenti. Ma l'arroganza pubblicitaria degli slogan ovviamente è solo la copertura di un'arroganza lobbistica, perciò il sedicente "Sblocca-Italia" si sta rivelando come uno sblocca-multinazionali. In questi giorni è arrivato agli onori delle cronache il caso della multinazionale americana GlobalMed che ha riscosso agevolmente dal governo la concessione per ricerche petrolifere nel Salento, con tutte le prospettive di devastazione ambientale che ciò comporta.
Al di là della retorica ufficiale sui benefici mirabolanti derivanti dagli "investimenti esteri", gli effetti della calata delle multinazionali su un territorio sono invariabilmente quelli del saccheggio indiscriminato delle risorse locali. La distruzione non è un semplice effetto collaterale, ma un approccio brutale che tende a disarmare materialmente e psicologicamente un Paese. Una nazione ricca di risorse minerarie come la Nigeria, è oggi ridotta allo stremo dall'invadenza ed ingerenza delle grandi multinazionali del petrolio. La propaganda dei media occidentali scarica tutte le colpe del disastro nigeriano sulla "corruzione" locale, e dietro questo alibi anche l'Agip fa la sua parte nel "saccheggia e distruggi".
Il calo del prezzo del petrolio non sta determinando un corrispondente calo della produzione, ma una crescente attività estrattiva per continuare ad aumentare in qualsiasi modo i profitti. La caduta del prezzo delle materie prime è trattata dai media con i consueti toni catastrofici, come se un petrolio al di sotto dei cento dollari al barile non continuasse a coprire di un centinaio di volte l'effettivo costo di produzione del petrolio stesso. Vittimismo ed emergenzialismo rappresentano infatti la linea comunicativa obbligata in qualsiasi questione in cui siano in gioco gli interessi delle multinazionali, poiché terrorizzando ed avvilendo l'opinione pubblica si può far passare come stato di necessità qualsiasi provvedimento a favore del business.
Dalla famosa messinscena delle domeniche di "austerity" dell'inverno del 1973/1974, tutto ciò che concerne il petrolio è stato fatto vivere sotto la cappa dell'emergenza. In quel caso la colpa fu scaricata sulla protervia degli sceicchi e dell'OPEC, ma rimane il dato storico di una colossale mistificazione politico-mediatica a livello europeo, poiché un semplice aumento dei prezzi fu presentato addirittura come un blocco delle forniture.
L'ultimo decennio è stato caratterizzato dall'allarme crescente sull' esaurimento delle risorse petrolifere del pianeta; così il petrolio si è avvalso narrativamente anche dell'alone romantico del moribondo. Oggi l'allarme si concentra invece sull'eccesso di produzione dovuto alle nuove tecniche estrattive, con tutti i rischi di riscaldamento globale e di caduta dei prezzi che ciò comporta. Da un'emergenza a quella opposta, ed all'opinione pubblica spetta invariabilmente di inchinarsi e di credere.
A fronte del vittimismo occidentale, la Russia di Putin sembra aver adottato invece un atteggiamento più "virile". Putin infatti si dichiara pronto a gestire la crisi dei prezzi dell'energia, e contestualmente inasprisce la polemica contro gli USA, accusati di boicottare tutte quelle decisioni del G-20 che mettano in forse il predominio statunitense sugli organismi sovranazionali come il Fondo Monetario Internazionale. Se da un lato Putin ha buon gioco nel mettere in evidenza la storica inaffidabilità statunitense, dall'altro lato egli continua a dar credito a quel "mondialismo" che costituisce il migliore veicolo dell'invadenza delle multinazionali.
|