Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Il saccheggio dei patrimoni immobiliari delle Università a favore dei privati, alla fine dell’ottobre scorso ha assunto il pomposo nome di Riforma Gelmini. Ciò che l’articolo 16 della Legge133/2008 (più nota come Decreto Tremonti) dava ancora come opzione, ora è diventato obbligo di legge, perciò ai Rettori delle Università si assegna il ruolo istituzionale di organizzare e perpetrare il furto.
Pare che alcuni Rettori abbiano accolto con entusiasmo la notizia, resa più gioiosa dal fatto che la sedicente riforma del ministro Gelmini, come già faceva la 133/2008, assegna alla Università trasformate in Fondazioni private anche i beni demaniali dello Stato attualmente in uso alle stesse Università. Le Fondazioni universitarie private potranno così incamerare qualsiasi bene immobile con cui siano venute in qualche modo in contatto, e non è da escludere che questo anno di attesa tra le due leggi sia servito proprio ad allargare a dismisura, con ogni pretesto, la lista dei beni in oggetto.
Vi è stato entusiasmo anche da parte della Confindustria, ed è pienamente comprensibile, se si considera che gli imprenditori privati, una volta entrati di diritto nelle Fondazioni, potranno mettere le mani su patrimoni immobiliari sterminati e di valore incalcolabile. La cosiddetta opposizione, come sempre, non si è opposta, dato che al saccheggio sarà ammessa anche la Lega delle Cooperative.
Piovono intanto le finte critiche di rito, del tipo: se i privati mettono i loro soldi nelle Università, le useranno a loro vantaggio; oppure si accusa la pseudo-riforma di essere “meritocratica”, come se il merito potesse essere valutato da persone che si distinguono solo per i loro demeriti.
Anche la fiaba secondo cui “gli imprenditori privati mettono i loro soldi” fa il paio con quella degli americani che invadono gli altri Paesi per portarvi la democrazia. I privati veri, a differenza dei privati delle fiabe, i soldi se li portano via, non li mettono. Nel caso delle Università poi non si tratta solo di soldi, ma anche di patrimoni immobiliari.
Ci si è sempre raccontato che c’erano due soggetti: i privati da una parte e lo Stato dall'altra, salvo poi scoprire che esiste in effetti un solo soggetto, cioè lo Stato privatizzatore, che distribuisce ai ricchi il denaro pubblico ed i beni pubblici accumulati tassando i poveri. Infatti, sempre in ossequio alla solita 133/2008, articolo 23bis, in questi giorni il parlamento viene chiamato a privatizzare anche la distribuzione idrica, così gli acquedotti costruiti con i soldi dei contribuenti e degli utenti saranno regalati ai privati; e, per le prevedibili rivolte popolari causate dalla mancanza d'acqua, il Trattato di Lisbona ha già previsto per il reato di insurrezione nientemeno che la pena di morte, da eseguire con rito sommario.
Se la Gelmini può ora pavoneggiarsi di aver varato una “riforma”, il ministro Brunetta viene addirittura accreditato dai media di star attuando una “rivoluzione”, che, manco a dirlo, consiste nel distribuire appalti pubblici a ditte private legate allo stesso ministro, che non solo fa comprare allo Stato sistemi informatici di dubbia funzionalità, ma persino tornelli. In questo ruolo di collettore di denaro pubblico per aziende private, il ministro Brunetta può essere definito il “Rumsfeld Italiano”. Come il Rumsfeld originale, anche Brunetta è uno squilibrato, ma svolge diligentemente il suo ruolo di saccheggiatore della spesa pubblica, agitando di volta in volta slogan di intransigente moralismo o efficientismo, a seconda del pubblico da abbindolare.
Che dei ministri sfacciatamente impresentabili, come l’abietto Brunetta e l’abulica Gelmini, che per di più fanno parte di un governo presieduto da un latitante, riescano poi ad accreditarsi comunque di un ruolo efficientistico e moralizzatore, è l’effetto di una criminalizzazione del lavoro, per cui chiunque lavora è sospettabile, come minimo, di essere un “fannullone”. Questa criminalizzazione non è accidentale o episodica, ed era riscontrabile anche prima delle campagne propagandistiche di un Pietro Ichino. Si tratta di una criminalizzazione ideologica e preventiva, che non si dà quindi caso per caso, semmai sono i lavoratori a doversi discolpare e a cercarsi di liberarsi dai sospetti singolarmente, poiché, come categoria, si trovano sempre in uno stato di inferiorità morale.
Si è sempre raccontato che il cosiddetto capitalismo - che sarebbe più realistico definire "assistenzialismo per ricchi" - abbia rappresentato una rottura rispetto al feudalesimo; si è raccontato anche che il sedicente capitalismo abbia liberato il lavoro dai vincoli feudali proiettandolo sul mercato, riducendolo a merce. In realtà neppure la Rivoluzione Francese ha mai liberato il lavoro da questi vincoli feudali.
Nella sua Storia della Rivoluzione Francese, Kropotkin notava con stupore che una delle misure dei governi “rivoluzionari” era stata quella di istituire dei “tetti” salariali, impedendo perciò ai lavoratori di vendere il proprio lavoro alle migliori condizioni. Il lavoratore quindi non poteva considerarsi proprietario della sua forza-lavoro, anzi questa era considerata di proprietà dello Stato.
A questo punto non ci si stupirà di scoprire che anche nell’Inghilterra ultra-liberista si limitavano per legge i salari, e il padronato inglese gridò allo scandalo di un ritorno al feudalesimo soltanto quando la legislazione limitò lo sfruttamento della manodopera infantile, grazie anche alle denunce di scrittori di grande popolarità come Charles Dickens.
Il Diritto Civile napoleonico sancì ufficialmente la disuguaglianza tra padrone e lavoratore, stabilendo che nei conflitti di lavoro per il tribunale solo il padrone era da ritenere credibile sulla parola, mentre l’operaio era tenuto a portare prove tangibili. Ciò che il Codice napoleonico stabiliva in modo esplicito, oggi costituisce ancora un implicito senso comune. La condizione servile del lavoratore, il suo stato di inferiorità morale, conferisce automaticamente un piedistallo di superiorità morale a chiunque voglia criminalizzarlo, proprio perché l’onere della prova risulta rovesciato. Ad esempio, molti lavoratori del Pubblico Impiego sono finiti sotto il mobbing di Brunetta e al ludibrio dei media, non perché lavorino poco e male, ma, al contrario, perchè il loro buon rendimento mantiene basso il costo del servizio, e quindi impedisce di giustificare la cessione di quello stesso servizio in appalto a una ditta privata amica del ministro.
Le privatizzazioni sono furti, ma a causa dello status di subordinazione feudale del lavoro, possono essere fatte apparire come ventate moralizzatrici che mettono in riga dei lavoratori discoli.
Nel “Manifesto dei Comunisti”, Marx ed Engels contribuirono a perpetuare l’equivoco, proponendo di organizzare i lavoratori delle campagne in un esercito agricolo a leva obbligatoria, e quindi suggerendo che il comunismo non consista tanto nella proprietà comune dei mezzi di produzione, ma nella proprietà comune della forza lavoro; quindi un comunismo feudale, in cui il lavoratore vede confermata la sua condizione di servo della gleba.
Il distacco progressivo dell’idea comunista dalla difesa del lavoro, la deriva moralistica ed educazionistica del comunismo attuale, sempre impegnato nell’autocritica e nell’autofustigazione, costituiscono l’effetto di questo ingorgo ideologico, cioè del non aver mai affermato con chiarezza che la condizione preliminare del comunismo è la libertà del lavoro: la forza-lavoro deve appartenere al singolo e i mezzi di produzione a tutti.
Il maggiore quotidiano di “opposizione”, “La Repubblica”, ci ha fatto immediatamente capire da che parte stia sulla questione della privatizzazione dell’acqua, allorché, il giorno dopo l’approvazione del decreto legge di privatizzazione da parte del senato, ha dedicato il titolone di prima pagina alla vicenda dell’estradizione o meno di Cesare Battisti dal Brasile. Il terrorismo, o presunto tale, rappresenta da sempre per la disinformazione ufficiale il principe dei diversivi, così “La Repubblica” ha indicato chiaramente ai propri lettori quali siano le sue vere priorità.
Comunque si può esser certi che in futuro i dibattiti mediatici sulla privatizzazione dell’acqua non mancheranno, dato che non c’è nulla, come il “dibattito”, che consenta di trasformare tutto in scontro di opinioni, per cui, alla fine, un’opinione varrà l’altra. In particolare sarà interessante osservare il modo in cui affronterà il tema la cosiddetta “informazione alternativa” alla Santoro o alla Gabanelli, magari in trasmissioni che si faranno passare come contrarie alla privatizzazione. Un bel collegamento con Sandro Ruotolo, inviato in qualche sperduto paesino della sperduta Calabria, da dove una folla di cittadini scomposti e vocianti si lamenterà di essere da decenni senz’acqua, nonostante che da loro l’acqua sia pubblica, perciò qualche cittadino griderà, con il suo accento esotico, “ben venga la privatizzazione, se servirà a portarci l’acqua”. Lo spettatore progressista, educato al razzismo antimeridionale, constaterà ancora una volta che razza di reazionari sono i meridionali, mentre in studio, il povero Alex Zanotelli, ospite della trasmissione in quanto attuale alfiere dell’anti-privatizzazione, si troverà incastrato, costretto a prendere atto che il “popolo” non è con lui. A perfezionare la mistificazione, il giorno dopo i soliti portavoce del governo accuseranno Santoro di essere un “fazioso” e ne chiederanno ancora una volta la rimozione.
Qui non si tratta di profezie o di ritorni da viaggi nel futuro, ma semplicemente di copioni già visti. La drammatizzazione mediatica svolge appunto la funzione di sdrammatizzare le alternative, così che, in questa discussione fine a se stessa, anche le denunce degli anti-privatizzatori verranno usate come un rumore di fondo utile a creare assuefazione ed a far passare come “normale” il monopolio privato dell’acqua. Il dibattito democratico serve appunto ad insegnarti che se di una cosa puoi discutere tanto, in fondo quella cosa non è poi così importante. Insomma, se il movimento contrario alla privatizzazione dell’acqua vuole arenarsi, la via maestra è proprio quella di impantanarsi nella palude del dialogo con le finte opposizioni. Il punto è che i privatizzatori non hanno bisogno di convincere che il privato sia meglio del pubblico, ma gli basta far credere che le due scelte siano sullo stesso piano, i disservizi del pubblico da una parte e i disservizi del privato dall'altra; se poi si riesce ad insinuare l'idea che lo Stato non ha i soldi per riparare le condotte idriche e che quindi la privatizzazione costituisce uno stato di necessità, allora è fatta. In realtà lo Stato che non tira fuori i soldi per riparare le condotte, è poi lo stesso Stato pronto a dare ai privati i soldi per gestire il business dell'acqua. Finché la banale evidenza che le privatizzazioni le paga il contribuente non sarà al centro della discussione, ogni dibattito sarà sempre indirettamente a favore delle privatizzazioni.
Mentre le trasmissioni di Santoro sul tema acqua ce le dobbiamo per il momento immaginare, già sappiamo invece come la pensa la Gabanelli, che si è occupata della privatizzazione dell’acqua il 22 novembre, spostando la discussione sulla democrazia ideale, propinandoci perciò una lamentela sul parlamento umiliato dall’abuso dei decreti legge. Ma se è vero che per privatizzare l’acqua il governo ha agito con uno dei suoi soliti colpi di mano, è altrettanto vero che l’opposizione non ha fatto ricorso a nessuno degli espedienti regolamentari per rallentare il decreto.
Il Partito Democratico ha avuto poi la faccia tosta di presentare come un parziale risultato il fatto di aver ottenuto una dichiarazione di principio secondo cui l’acqua rimane un bene pubblico. Il falso è smaccato, dato che questa astratta dichiarazione si trovava già nell'articolo 23bis della Legge 133/2008 del ministro Tremonti, il quale, obbedendo alla direttiva del Fondo Monetario Internazionale, aveva posto le basi della privatizzazione lo scorso anno; e inoltre in nessun Paese in cui l’acqua in precedenza era stata privatizzata si è affermato che l’acqua in quanto tale fosse data ai privati, ma solo la sua distribuzione. D’altro canto, se raccogli un secchio d’acqua piovana per irrigare il tuo orticello, stai violando il monopolio della distribuzione dell’acqua, al quale si attribuisce anche la funzione di tutela della igiene pubblica, minacciata dal tuo secchio, forse infetto. Infatti nei Paesi dell’America Latina in cui la distribuzione dell’acqua era stata privatizzata a favore delle multinazionali, risultava proibito persino raccogliere acqua piovana. Tra l’altro in questi Paesi si sono svolte - e ancora si svolgono - lotte durissime per tornare agli acquedotti pubblici.
Da parte del PD è mancata l’osservazione più ovvia, e cioè che sarebbe impossibile per i Comuni privatizzare gli acquedotti rimanendo nella legalità, perché anche il più fatiscente degli acquedotti costituisce comunque una infrastruttura di un valore tale che risulterebbe impensabile per qualsiasi privato, compresa una multinazionale, di poterla acquistare ad un prezzo congruo. Anche solo il mantenimento in efficienza di una tale infrastruttura comporta costi talmente proibitivi che nessun privato sarebbe interessato ad acquisirla in quanto tale.
Non sarebbe possibile vendere regolarmente gli acquedotti, ma è possibile solo rubarli. Il furto viene perciò perpetrato attraverso l'inghippo di privatizzare la gestione della distribuzione mantenendo pubblica la rete, ovvero lo Stato e i Comuni tirano fuori i soldi per mantenere le infrastrutture in quanto ne sono proprietari, mentre il privato incamera i profitti. Quindi la funzione del privato è esclusivamente parassitaria e illegale. Quella norma che il PD ha presentato come un suo successo costituisce la base di tutto l'inganno: la rete idrica rimane pubblica, cioè a spese del contribuente, mentre le crescenti bollette degli utenti verranno pagate ad un privato che non tira fuori un soldo per mantenere in efficienza gli acquedotti. E queste non sono ipotesi, ma la cronaca di quanto accaduto laddove la gestione idrica sia stata privatizzata, come ad Arezzo.
Il PD, come anche “La Repubblica”, rappresenta interessi affaristici favorevoli alle privatizzazioni, dato che le imprese organizzate nella Lega delle Cooperative non vedono l’ora di partecipare alla spartizione delle infrastrutture idriche ed al relativo business. Sia la Lega delle Cooperative che la Compagnia delle Opere - legata a Comunione e Liberazione - agognavano da anni di partecipare all’affare, anche se sanno in anticipo che la parte del leone la faranno le multinazionali.
Si ricorre spesso al luogo comune secondo il quale ci sarebbe da una parte un capitalismo “cattivo” delle banche e delle multinazionali, e dall’altra parte un capitalismo “dal volto umano”, composto dallo sforzo produttivo di tanti piccoli e medi imprenditori. In effetti non esiste nessun “capitalismo”, né buono né cattivo, ma solo un affarismo privato assistito dallo Stato; ed all'interno di questo affarismo si verificano diversi gradi di capacità di vampirizzare la spesa pubblica. Quindi in democrazia esiste un partito unico degli affari, che non prevede l’esistenza di vere opposizioni.
La piccola e media impresa organizzata è una sanguisuga della spesa pubblica, e non a caso oggi la piccola e media impresa organizzata, tramite il controllo che esercita sui dipendenti, costituisce il maggiore serbatoio di voto organizzato a disposizione del sistema politico. Il fatto che la piccola e media impresa sia spesso vittima della prepotenza delle multinazionali e delle banche, non elimina questo dato di fondo. È vero che la piccola e media impresa può avere interesse ad uno sviluppo del mercato interno, e quindi non opporrà mai ai miglioramenti salariali e normativi dei lavoratori degli ostacoli paragonabili a quelli delle multinazionali, che esigono il costo del lavoro più basso possibile. È però altrettanto vero che la piccola e media impresa organizzata obbedisce allo stesso richiamo della foresta delle multinazionali, e quindi non vuole rimanere fuori del paradiso delle privatizzazioni.
La faccia pacioccona di un Bersani, la sua “comprensione” pelosa verso i diritti del lavoro, non devono far dimenticare che, quando si tratti di privatizzare, egli sarà sempre complice e battistrada delle multinazionali, anche se si tratta di partecipare solo alle briciole dell’affare.
|
|
|