Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
La ricorrenza del cinquantenario della strage di Piazza Fontana è stata inaspettatamente l’occasione per qualche lampo di lucidità. In un dibattito organizzato dall’ANPI si è riconosciuta finalmente l’inattendibilità della storiella mainstream secondo la quale i probi magistrati sarebbero stati vittime dei depistaggi orditi dai cattivissimi “servizi deviati”. In realtà è un dato storico che in più circostanze la magistratura sia stata essa stessa in prima persona a operare per intralciare la ricerca dei fatti e per nascondere le responsabilità più evidenti.
La cosiddetta “deviazione” non è stata quindi la caratteristica di un solo apparato del sedicente Stato ma ha riguardato più “istituzioni” nel loro complesso. In base ad una visione marxista lo Stato nella concezione liberale o hegeliana è, nel migliore dei casi, una “falsa coscienza”, mentre nel peggiore dei casi è una mistificazione ideologica. La tradizione marxista ha perciò definito lo “Stato” come un “apparato di classe”. Sarebbe una buona definizione, ma solo traendone appieno le conseguenze.
Come apparato di classe lo “Stato” tende a ridefinire, riadattare e reinterpretare continuamente le proprie regole in base non solo alle esigenze del conflitto di classe ma anche in base alle oscillazioni del conflitto intercapitalistico e del prevalere di questa o quella lobby. A ciò bisogna aggiungere le vicende del conflitto imperialistico, con le conseguenti ingerenze imperialistiche, particolarmente pesanti per Paesi in condizione coloniale come l’Italia. È ovvio che, sotto questa massa di sollecitazioni, l’apparato tenda a dissolversi nei rivoli della destabilizzazione, a produrre destabilizzazione. Lo “Stato” perciò non si configura come ordine costituito o ordine pubblico, bensì come un luogo di conflitto che finisce per assumere la confusione come proprio marchio di fabbrica. Se le parole devono avere un senso, definire come “Stato” un organo di destabilizzazione, appare quantomeno azzardato.
C’è l’abitudine a considerare l’Italia un caso estremo e a sé stante, in nome di un mitico “altrove” dove le cose andrebbero diversamente. A smentire questo luogo comune arrivano le attuali cronache statunitensi, con la procedura di “impeachment” che la maggioranza del Congresso USA sta cercando di attuare a carico del presidente in carica, il cialtrone Trump. Il caso da cui la procedura è partita è di per sé abbastanza strano. Il cialtrone Trump avrebbe cercato di fare pressione su un capo di Stato straniero per ottenere informazioni circa gli intrallazzi affaristici di un suo concorrente alla corsa presidenziale, il democratico Joe Biden. L’eventualità che Biden andasse in Ucraina per fare i propri affari, quindi non farebbe scandalo, ma diventa invece scandalo il fatto che il presidente in carica abbia cercato di assumere informazioni a riguardo.
Ma ciò riguarda solo l’aspetto folcloristico ed estemporaneo della vicenda, mentre è più interessante cercare di capire come mai un apparato politico-istituzionale sia andato a favorire l’elezione alla presidenza di un personaggio esteriormente arrogante ma intrinsecamente debole, che ha in sé la configurazione e la vocazione del facile bersaglio. Anche in questo caso una fiaba mediatica ci presenta un CialTrump asceso alla Casa Bianca per volere della “pancia” della nazione contro le manovre dell’establishment. Sennonché, guardando i numeri, si scopre che CialTrump è stato eletto pur prendendo due milioni di voti in meno della sua rivale Hillary Clinton. Un presidente eletto soltanto per effetto delle alchimie elettorali del sistema americano. Occorreva quindi ben poco per scongiurare quell’elezione, se davvero si fosse voluto impedirla.
Sarebbe bastato anche un candidato appena meno impresentabile della Clinton per evitare l’ascesa di CialTrump. Non a caso la Clinton ha dovuto far ricorso ad ogni genere di trucco e di raggiro per raggiungere l’obbiettivo della candidatura. Se fosse stata eletta, quindi anche la Clinton si sarebbe rivelata esposta ad ogni genere di attacco.
Al di là delle chiacchiere, la politica estera statunitense non ha presentato con il nuovo presidente alcuna sostanziale differenza. Il caso recente della Siria ne è stato un’ulteriore dimostrazione. In altre parole, CialTrump non rappresenta alcun pericolo né per il cosiddetto “deep State” americano, né per l’establishment finanziario e infatti alla Casa Bianca sono giunti immediatamente gli sponsor della Clinton, cioè i lobbisti di Goldman Sachs. Dopo essere rientrata trionfalmente alla Casa Bianca con il nuovo presidente, dal 2018 però anche Goldman Sachs ha preso le distanze da CialTrump, pubblicando un’improbabile analisi sugli effetti negativi dei tweet (sic!) del presidente sui mercati finanziari. I mitici “Mercati” al cui sacro volere bisogna tutti prostrarsi, poi si rivelerebbero così fragili e isterici da andare in tilt per un tweet del cialtrone della Casa Bianca e persino per una boutade di Salvini o Di Maio.
La vera natura del cosiddetto capitalismo è l’assistenzialismo per ricchi, quindi il lamento ed il vittimismo dei ricchi non sono per loro soltanto ideologia ma anche strategia esistenziale. Alla grande finanza vengono quindi offerti comodi capri espiatori per dissimulare le proprie frodi. Il lobbying finanziario oggi sponsorizza il discredito delle istituzioni e gli “apparati” non solo si adeguano ma si impegnano a prendersi tutte le colpe, perché devono abbassarsi al di sotto del già bassissimo livello del loro assistito. Ecco perché oggi i “servitori dello Stato” come poliziotti e carabinieri si specializzano nel dare la caccia ad altri “servitori dello Stato” come i pubblici impiegati e gli insegnanti. L’obbiettivo è fornire alibi alle magagne dei padroni della finanza e dell’industria.
Perché i capitalisti privati non investono? Mica perché non vogliono tirare fuori un soldo in proprio e aspettano il denaro pubblico per fare "prendi i soldi e scappa”. No, i meschini non investono perché ci sono la burocrazia, l’inefficienza dell’amministrazione pubblica, la giustizia lenta e tutte le altre colpe dello “Stato”. Una volta si parlava di “senso dello Stato”, invece si sarebbe dovuto dire “senso di colpa dello Stato”.
Ci sono quindi gli elementi per pensare all’elezione di CialTrump non come un effetto del prevalere della “pancia” del Paese, bensì come risultato della vocazione alla destabilizzazione che caratterizza gli apparati del sedicente “Stato”. Un “deep State” che avesse voluto fermare CialTrump avrebbe avuto mille strumenti efficaci per farlo, invece ha scelto la strada di improbabili accuse di connivenza col nemico Putin e di manipolazione elettorale da parte di emissari russi. Presentare CialTrump come un agente straniero sarebbe risultato assurdo persino se fosse stato vero, in quanto la “Ragion di Stato” dovrebbe trovare altre soluzioni meno clamorose per problemi del genere. Al contrario si è assistito al compiacimento del gettare un intero sistema istituzionale nel discredito.
Che l’economia reale non possa basarsi sul “mercato”, dovrebbe risultare evidente. Da decenni il settore dell’acciaio è afflitto da una crisi di sovrapproduzione che lo rende non remunerativo, quindi un Paese che non voglia dipendere esclusivamente dall’incertezza delle importazioni, non potrebbe evitare la soluzione della nazionalizzazione, che consentirebbe di preservare le strutture produttive nella prospettiva del loro pieno utilizzo quando si rendesse di nuovo necessario.
Nel 2017 sembrò che la nazionalizzazione tornasse a rappresentare un’opzione praticabile nell’Unione Europea, quando il governo francese, per evitare che la propria industria cantieristica STX venisse acquisita dall’italiana Fincantieri, ne annunciò la nazionalizzazione. Si è scoperto poi che non era così: le trattative con Fincantieri sono continuate, sino ad un’apparente soluzione nell’ottobre scorso. Sennonché, pare per richiesta dello stesso governo francese, la Commissione Europea ha avviato un’indagine a carico di Fincantieri in nome delle regole anti-trust. Insomma, un vero pasticcio.
I Trattati dell’Unione Europea funzionano come quei dispositivi di traffico disseminati di divieti di accesso e sensi unici che riconducono sempre al punto di partenza. Chi è che si giova di questa situazione di paralisi e confusione?
Il caso Ilva presenta anch’esso dei paradossi abbastanza plateali e forse istruttivi. All’inizio dell’anno in corso la stampa annunciava che la multinazionale Arcelor Mittal, che aveva acquisito l’Ilva con uno strano contratto di fitto/promessa d’acquisto, stava incrementando gli utili e addirittura metteva da parte quattrocento milioni di euro da investire nell’Ilva.
Si viene a sapere invece adesso che Arcelor Mittal è in difficoltà ed una delle principali agenzie di rating condiziona la valutazione dei titoli azionari della multinazionale alla chiusura del capitolo Ilva. O ti liberi di Ilva o il rating crolla. Il valore azionario di Arcelor Mittal era aumentato per aver acquisito l’Ilva, ora ci dicono che il valore potrà aumentare di nuovo quando si sarà definitivamente disfatta dell’Ilva. Qualcosa non torna.
Per capirci qualcosa in più è sufficiente andare a vedere chi sono gli azionisti “istituzionali” di Arcelor Mittal. C’è anche la solita Goldman Sachs, ma il grosso è nelle mani di grandi fondi di investimento, apparentemente specializzati in finanziamenti all’economia reale, come lo statunitense Luminus Management.
La finanziarizzazione trasforma le imprese in titoli azionari ed in frodi borsistiche, in giochi al rialzo ed al ribasso ed il governo italiano ha offerto l’Ilva in pasto alla speculazione in nome della “soluzione di mercato”.
Certo, il caso Ilva presenta complessità particolari: c’è stato un intervento della magistratura e c’è anche una contiguità dello stabilimento con strutture militari della NATO, desiderose di espandersi a scapito dello stesso stabilimento. Ciò non toglie che i governi di ogni colore, al di là degli scatti retorici a vuoto, abbiano trasformato la crisi dell’Ilva in un’occasione di assistenzialismo per le multinazionali e per i loro azionisti “istituzionali”.
Dopo la prima guerra mondiale, Giovanni Giolitti pronunciò un discorso rimasto famoso sull’ingerenza dei Trattati internazionali, lamentando che all’epoca un governo non avrebbe potuto compiere i più semplici atti amministrativi senza l’avallo del parlamento, ma che lo stesso governo aveva potuto trascinare il Paese in guerra contro il volere del parlamento, semplicemente in base alla firma di un Trattato internazionale. L’Italia usciva “vincitrice” dalla guerra con le ossa rotte e con un indebitamento mostruoso con l’estero; un indebitamento che avrebbe determinato il perdurare dell’ingerenza straniera con la dipendenza dai prestiti esteri.
Dai tempi di Giolitti le cose si sono aggravate: i parlamenti ratificano i Trattati internazionali senza neppure leggerli e gli Stati sono diventati altrettanti Laocoonti nelle spire dei Trattati. Ma forse anche ai tempi di Giolitti ciò che appariva come “Stato” era solo capacità di spesa. Lo Stato è un’astrazione etico-giuridica che prende corpo solo attraverso la capacità di spendere. Ora si è tolta agli Stati la capacità di spesa perché “non ci sono i soldi” ed il risultato si è visto. A causa della perdita dell’autonomia monetaria e della caduta delle entrate fiscali dovuta alla deflazione, lo “Stato” dipende dagli “investitori”, quindi si è ridotto al nulla, non è rimasto neppure il simulacro giuridico. Anzi, ci si racconta che il ruolo dello “Stato” è diventato quello di sapersi rendere “attraente” per gli investimenti esteri. Dalla concezione hegeliana dello Stato come “ingresso di Dio nel mondo”, siamo passati alla concezione dello Stato escort. Ma forse persino il modello escort rappresenta un ideale irraggiungibile per lo Stato odierno, troppo impegnato ad autodenigrarsi ed autodelegittimarsi per potersi rendere attraente. Verrebbe quasi voglia di indirizzarlo ad un corso di autostima del dott. Raffaele Morelli.
Se non si idealizza il passato, ci si accorge però che anche ai tempi di Giolitti lo “Stato” si legava le mani da solo in ossequio ai feticci del pareggio di bilancio e del “gold standard”; ed anche ai tempi di Giolitti il ministro degli Esteri Sonnino e il Presidente del Consiglio Salandra, firmando il Patto di Londra, potevano trascinare l’Italia in una guerra al di sopra dei suoi mezzi finanziari, se non grazie ai provvidi capitali esteri, ai prestiti dei grandi “investitori” internazionali. Per ascendere al consesso delle grandi nazioni, l’Italia anche allora si indebitava con i mitici “Mercati”.
La Storia può essere analizzata sia in base alle continuità che in base alle discontinuità. In questo caso sono le continuità ad essere più interessanti. Anche nel 1979 l’Italia non poteva permettersi l’ingresso nel Sistema Monetario Europeo, cioè in un regime di cambi fissi. L’unico modo per mantenere stabile il valore della lira era infatti quello di offrire alti tassi di interesse per i titoli del debito pubblico per aumentare la domanda di lire da parte dei “Mercati”. L’esplosione del debito pubblico degli anni ’80 ci è stata spacciata come un effetto del bengodi nazionale, invece rappresentava il costo dell’ascesa dell’Italia al paradiso europeo.
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