Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Le elezioni presidenziali statunitensi hanno per un po’ distratto l’opinione pubblica italiana dalla scadenza referendaria di dicembre. I media si ostinano ad attribuire alla figura del presidente USA un rilievo che in realtà è ben lungi dall’avere, visto che il ruolo presidenziale si è ormai ridotto a quello di portavoce e addetto alle pubbliche relazioni. Se autentico, il voto americano potrebbe essere attendibilmente interpretato come un referendum popolare contro i toni guerrafondai della Clinton, dato che l’opinione pubblica americana, in grande maggioranza, non vuole rischiare guerre nucleari con la Russia. D’altra parte proprio un presunto “amico” di Putin come Trump potrebbe vendere una campagna anti-russa pubblicizzandola come una necessità ineluttabile e non come una scelta dell’establishment. Sul risultato elettorale americano allo stato attuale l’unico concreto commento possibile è che per la prima volta si vedrà un miliardario andare ad occupare un alloggio appena abbandonato da una famiglia di neri.
Non che la nostra scadenza referendaria possa vantare maggiore importanza, tutt’altro, ma risulta comunque molto più ricca di aspetti istruttivi.
Un’altra adesione imbarazzante per il fronte del no al referendum costituzionale è stata infatti quella dell’ex Presidente del Consiglio Mario Monti. In molti hanno osservato che la posizione di Monti avrebbe l’effetto di depotenziare il significato anti-europeistico di un’eventuale vittoria del no. Monti ha motivato la sua scelta come opposizione al renzismo, a suo avviso basato sull’espansione della spesa pubblica per acquistare consenso. La motivazione montiana riecheggia toni decisamente euro-rigoristi; tanto che, in caso di vittoria del no, commentatori ufficiali particolarmente spregiudicati potrebbero usarla come base per spiegarci che il no andrebbe interpretato proprio come una punizione dell’elettorato nei confronti delle polemiche anti-europee di Renzi. Che le polemiche di Renzi avessero un carattere puramente di facciata, sarà un dettaglio che sfumerà dalla memoria.
La critica di Monti a Renzi si basa quindi più su forzature narrative che su dati di fatto, ma del resto lo stesso Monti è stato a suo tempo un prodotto narrativo, ricalcato sull’eroe di un romanzo di uno scrittore della fine dell’800, Emilio De Marchi. Il romanzo di De Marchi narrava di un personaggio, Demetrio Pianelli, che, come Monti, accorreva a salvare una famiglia che “aveva vissuto al di sopra dei propri mezzi”, e che poi si ritirava in buon ordine a lavoro compiuto. Sennonché Emilio De Marchi non si limitava a raccontare vicende umane, ma aspirava apertamente al ruolo di ideologo reazionario, al punto da scrivere un libello per convincere le masse riottose a sottomettersi alle oligarchie (un precursore di Eugenio Scalfari). Il “Demetrio Pianelli” quindi non era un semplice romanzo, bensì uno schema narrativo/propagandistico da applicare ai tanti “salvatori dell’Italia”, cioè ai Monti di allora e del futuro.
Negli anni ‘50 e ‘60 un establishment italiano ipocritamente attaccato a valori in cui era il primo a non credere, cercava di mascherare la sua cattiva coscienza reagendo con aggressiva e astiosa diffidenza verso qualunque letterato o artista che potesse essere lontanamente sospettato di contestare quei valori. Il mondo della cultura era quindi costretto a ”buttarsi a sinistra” per cercare protezione. Il risultato però non fu quello di arricchire la sinistra di contenuti culturali, bensì di colonizzare la sinistra con suggestioni ad essa estranee, spesso incompatibili e persino reazionarie. L’equazione tra sinistra e cultura (il “culturame” di scelbiana memoria) diventava così una sorta di trappola per la stessa sinistra, indotta a far propri edifici narrativi e intellettuali costruiti solo per negare l’evidenza, cioè per soppiantare i dati di fatto con l’aneddotica finto-realistica degli apologhi morali. La dimensione “colta” dell’identità della sinistra si è sostanziata perciò in un abito mentale portato ad ignorare la questione del contrasto degli interessi, e dei relativi rapporti di forza, per divagare invece nella sfera delle astrazioni moralistiche.
La consuetudine è diventata talmente scontata che non ci si può più stupire del fatto che gli organi di “opposizione” siano diventati i principali veicoli di messaggi legati ad interessi dell’establishment o del colonialismo euro-atlantico. Su uno di questi “organi di opposizione”, il giornale “Il Fatto Quotidiano”, è apparso un articolo-panegirico del “modello polacco”, un articolo che a sua volta ricalca i temi di una puntata di “Report” (e figuriamoci se non c’entrava la Gabanelli).
La Polonia ci viene proposta come un “modello” da imitare in quanto, a differenza di noi pigri Italioti, i Polacchi si sono dimostrati capaci di spendere il 97% dei contributi europei che ricevono. Tra le righe dell’articolo si nota (così di passaggio) che la stessa Polonia è un beneficiario netto di tali contributi, cioè riceve molto di più di quanto versi. Si tratta della situazione esattamente contraria a quella dell’Italia, che è invece un contributore netto, cioè versa alla UE molto di più di quanto non riceva.
Insomma, prima ci prendono i soldi e poi ci si prende per i fondelli, con i ministri polacchi chiamati a farci la morale nella trasmissione della Gabanelli. Tra l’altro ci si dimentica che la Polonia è fuori dalla zona euro, quindi ha una libertà di manovra fiscale e monetaria che è preclusa al governo italiano. Il risultato è uno sviluppo industriale polacco in gran parte gonfiato dalle delocalizzazioni industriali, a loro volta incentivate da fondi UE. La Polonia ha potuto così attirare immigrazione qualificata persino dalla Germania. Gratificato da questa immigrazione “ariana”, il governo polacco può oggi permettersi di chiudere le frontiere all’immigrazione africana e orientale, la cui gestione e i cui costi vengono lasciati, ovviamente, all’Italia. Anche in questa circostanza Renzi finge di lamentarsi e polemizzare ad uso dei media, ma poi, come sempre, si dimostra il più zelante a sottomettersi.
La classe operaia polacca è ripagata da questo sviluppo economico con bassissimi salari e ritmi di lavoro massacranti, ma per l’oligarchia polacca si aprono continuamente nuove opportunità di arricchimento. Qual è il motivo di una condizione così privilegiata per l’oligarchia polacca? La risposta ce la fornisce la NATO. Parrebbe infatti che la Polonia sia a rischio di invasione da parte della Russia, un pericolo che viene evocato in tutti i vertici della NATO e che il governo polacco si preoccupa di strombazzare quotidianamente. Ecco quanto rende la negazione dell’evidenza. Per tenere in piedi questa messinscena imperialistica della NATO, il governo polacco infatti viene ricoperto di privilegi da parte della UE, mentre il contribuente italiano è chiamato a subire il danno di pagare la messinscena ed anche a subire la beffa di sorbirsi i predicozzi.
L’imperialismo è un intreccio di militarismo e finanza; ma, mentre le oligarchie finanziarie e affaristiche hanno la consistenza delle bolle di sapone che si dissolverebbero se lasciate al proprio destino, è il militarismo a costituire invece la vera ossatura dell’impianto. Quell’impalcatura di burocrazie e lobby chiamata Unione Europea sopravvive e prospera solo in funzione della NATO e sotto la sua costante protezione. Persino i decantati vincoli di bilancio sono stati prontamente abbandonati di fronte all’esigenza di aumentare le spese militari, così come “richiesto” dagli Stati Uniti. Nel 2014 il servilismo di Renzi è arrivato al punto di invocare uno svincolo delle spese militari dal patto di stabilità, una misura che però la NATO aveva già in progetto di imporre, dato che era stato lo stesso segretario generale dell’alleanza, Stoltenberg ad anticiparlo. La conseguenza è che il governo italiano dovrà portare la spesa militare dall’attuale 1,5% al 2% del PIL.
L’ex giudice Luciano Violante svolge nell’attuale Partito Democratico il ruolo di una sorta di ideologo, perciò è stato proprio lui a fornire al partito gli slogan per la campagna per il sì al referendum sulla revisione costituzionale. Secondo Violante nel mondo globalizzato occorre una “democrazia decidente” per poter governare la stessa globalizzazione e non subirla. Lo slogan si presenta auto-contraddittorio, poiché se si cambia la Costituzione in funzione della globalizzazione, non è più la democrazia a decidere ma la globalizzazione. Un testo costituzionale vale l’altro, tanto non se ne è mai rispettato nessuno, perciò parrebbe proprio che il vero scopo di questa “revisione costituzionale” sia quello di elevare alla gloria degli altari il moloc della globalizzazione a cui sacrificare tutte le regole della convivenza civile (comprese le regole della grammatica, a giudicare dagli strafalcioni sintattici del testo sottoposto a referendum).
La contraddizione però, oltre che teorica, è anche pratica, dato che da alcuni anni la globalizzazione è sotto attacco proprio da parte di coloro che l’hanno promossa. In altri termini, nulla assicura che la globalizzazione costituisca un processo irreversibile. Del resto la globalizzazione non ha mai costituito una novità, visto che negli ultimi tre secoli si sono avvicendate fasi di libero scambio con fasi protezionistiche. Chi, come il PD, prende sul serio le esibizioni della Trilateral o del Bilderberg rischia di farsi la falsa impressione che le oligarchie posseggano una “visione” del futuro che in effetti non è né nelle loro corde, né tantomeno nelle loro capacità. La propaganda ufficiale presenta ogni volta il quadro imposto dagli interessi dei ricchi come la tappa fondamentale dei destini dell’umanità, ma gli interessi dei ricchi possono cambiare e così anche i presunti “destini”.
Donald Trump ha condotto gran parte della sua campagna elettorale all’insegna della denuncia dei guasti del Trattato NAFTA, l’area di libero scambio tra USA, Canada e Messico, che ha causato la deindustrializzazione di enormi aree degli Stati Uniti. Trump ha scaricato su Bill Clinton la responsabilità di quel trattato, ma in realtà il NAFTA fu una creatura di Bush padre, che ne fu anche il firmatario.
Clinton non ha potuto smentire Trump poiché, una volta pervenuto alla presidenza, non solo non abolì il trattato, come invece gli chiedevano i sindacati americani, ma ne divenne il lobbista più zelante. Fu così che i Clinton, da famiglia di piccoli lobbisti immobiliari dell’Arkansas, si trovarono lanciati nel grande giro, sino a proiettarsi verso i talami nuziali di Goldman Sachs.
I Democratici non hanno creato il NAFTA ma ora rimangono col cerino acceso in mano, mentre i Repubblicani mandano avanti Trump per defilarsi dalle proprie responsabilità e per spacciarsi come i difensori dei lavoratori. Ovviamente a Trump ed ai Repubblicani non frega nulla del fatto che gli operai perdano il lavoro. C’è anche da dubitare di quell’ adesione plebiscitaria degli operai alla candidatura Trump che ora i media cercano di accreditare.
Il protezionismo torna di moda, si forma una lobby dei dazi e la globalizzazione viene messa sotto accusa perché gran parte dell’oligarchia statunitense si trova a fare i conti con un deficit ormai cronico della bilancia commerciale; un deficit che vota al declino l’apparato industriale statunitense. La posizione “in God we Trump” di una gran parte della destra “sovranista” europea non tiene conto del fatto che si tratta di un protezionismo ad uso dei ricchi e delle multinazionali, perciò le ricadute positive del “trumpismo” per Paesi deboli come il nostro risultano del tutto aleatorie. La politica effettiva del nuovo presidente USA non sarà ovviamente quella degli slogan della campagna elettorale, bensì quella dettata dai rapporti di forza tra le lobby.
Trump non è affatto il miliardario spregiudicato e incontrollabile che i media ci hanno raccontato, dato che è un businessman la cui sopravvivenza dipende in tutto e per tutto dai fidi bancari. La vicenda del Buffone di Arcore ha dimostrato ancora una volta che la ricchezza non è affatto sinonimo di indipendenza, semmai di assoluta ricattabilità. Trump è soltanto il nuovo addetto alle pubbliche relazioni dell’imperialismo USA. Via il gagà Obama e largo al tamarro Trump, l’uomo la cui sguaiataggine comunicativa serve a mettere in discussione le certezze che la destra ha imposto un quarto di secolo fa e che ora la sinistra della parodia del “politically correct” si è trovata ad ereditare e ad accreditare come vangelo. L’abito smesso del capitale è diventato la livrea di una sinistra sempre più servile.
Mentre Trump ha lanciato aperture a Putin, Hillary Clinton, e lo stesso Obama, hanno condotto questa campagna elettorale all’insegna dello scontro con la Russia. D’altra parte questa politica di scontro frontale era stata avviata da un’amministrazione repubblicana. Fu infatti l’amministrazione di Bush figlio a decidere nel 2008 di dislocare in Polonia i missili Patriot. Obama si accodò a quella scelta firmando il relativo trattato con un governo polacco che non chiedeva altro per poter andare a riscuotere privilegi nell’Unione Europea grazie alla patente di figlio prediletto della NATO.
Si sa però che il viso pallido parla con lingua biforcuta. Trump ha lasciato ad Hillary il ruolo della guerrafondaia e si è spacciato per amicone di Putin soltanto perché la Russia si è rivelata un osso più duro del previsto, ma i toni concilianti servono agli USA ad avere il tempo di recuperare una posizione di forza.
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