Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Pochi giorni fa è arrivata la notizia di un ennesimo record della produzione di oppio in Afghanistan. Non è una sorpresa, dato che dal 2002 ogni anno ha segnato un ulteriore incremento della produzione di papavero da oppio in quel Paese, casualmente dopo la sua occupazione da parte della NATO. In base ai dati ufficiali, si tratterebbe di un incremento sia in quanto a raccolto che a terreno coltivato.
Una notizia un po' più inattesa è giunta l'anno scorso, quando sono stati pubblicati i dati sulla produzione di cannabis in Afghanistan. Manco a dirlo, anche nella produzione di cannabis si è registrato il solito record. Il dato sulla cannabis è coerente con l'attuale business dell'eroina afghana, che è economica ed abbondante, e quindi destinata non all'ago - come negli anni '80 -, ma al fumo, per poter conquistare sempre nuovi consumatori. Anche se non esiste alcuna prova scientifica che l'uso di cannabis in se stesso predisponga al consumo di droghe più pesanti, è però frequente che nello spaccio si offrano contemporaneamente vari tipi di fumo per favorire la confusione dei consumatori.
Oggi un vero scoop sarebbe consistito nel registrare un decremento della produzione di droga in Afghanistan, ma si tratta di un'eventualità che al momento non avrebbe alcuna base realistica. Gli organi di stampa che hanno riportato la notizia, hanno insistito sul dettaglio che il governo statunitense avrebbe speso 7,6 miliardi di dollari per contrastare la produzione ed il traffico di oppio, ma senza risultato.
La cosa fa sorridere, dato che, da almeno cinque anni, neppure il diretto coinvolgimento della NATO nel business dell'oppio rappresenterebbe più uno scoop. Lo scorso anno qualche barlume di notizia a riguardo è trapelato anche sulla stampa ufficiale, ma riferendosi solo ai casi di soldati della NATO coinvolti nel traffico; casi, peraltro, tutti rigorosamente insabbiati, sia in Italia, che in Canada, che nel Regno Unito. La stampa ha fatto finta di credere che il coinvolgimento riguardasse soltanto dei militari di bassa forza o, al più, dei sottufficiali, oltre che i già ampiamente screditati "contractors". Il massimo della critica che ci si è concesso è stato quello di fustigare il cinismo o l'ingenuità della NATO, la quale, pur di sconfiggere i cattivissimi Talebani, avrebbe "chiuso gli occhi" sui loschi traffici di personaggi legati al governo filo-occidentale di Karzai. Si tratta della solita fiaba ufficiale sugli "scomodi alleati" degli USA.
Se dalla carta stampata si passa alla "informazione" televisiva, le cose vanno addirittura peggio, poiché lì è obbligatorio far finta di credere che siano i malvagi Talebani ad autofinanziarsi con l'oppio, perciò persino accennare alla "giovane narcodemocrazia" afghana rappresenta ancora un tabù. Eppure si tratta di notizie ufficiali che si riscontrano sui siti delle organizzazioni internazionali. La Banca Mondiale ha recentemente dedicato un rapporto alla situazione in Afghanistan, osservando che il 90% della produzione mondiale di eroina proviene oggi dall'Afghanistan. La Banca Mondiale si lancia in solenni ammonimenti al governo afghano circa i rischi di "deragliamento" che la drug-economy potrebbe provocare ad un Paese così faticosamente avviato verso la democrazia e lo sviluppo.
Lo stesso carosello di ipocrisie lo si riscontra da parte dell'organizzazione gemella della Banca Mondiale, cioè il Fondo Monetario Internazionale. Più di dieci anni fa, addirittura nel 2003, il FMI già ammoniva il governo afghano circa i rischi di trasformarsi in un narco-stato. La colpevolizzazione anche allora era tutta per il Paese colonizzato, mentre non si accennava alle responsabilità dell'occupante USA-NATO, il quale, se "sbaglia", lo farebbe solo per troppa bontà. Del resto il FMI e la NATO sono praticamente la stessa cosa.
Quindi si può riscontrare una pseudo-informazione a doppio livello: uno per le masse, le quali devono credere che i Talebani, oltre che fanatici, siano anche narcotrafficanti; ed un altro livello per i "cittadini più informati", ai quali è concesso di sapere che il governo Karzai è coinvolto nel traffico, e per questo ogni tanto è costretto a beccarsi una reprimenda dagli organismi internazionali. Paradossalmente, il maggior grado di infantilizzazione tocca proprio ai "cittadini più informati", ai quali spetta di credere che il "troppo buono" papà statunitense spenda 7,6 miliardi per redimere dalla droga il figlioletto discolo, ma che questi continua a deluderlo. La realtà è invece che come narcostato e narcodemocrazia, l'Afghanistan di Karzai ha ancora parecchio da imparare dai Narcostati Uniti d'America. Ma legioni di giornalisti e di intellettuali si incaricano di narrare alle masse la storia inversa, secondo la quale i guai del mondo deriverebbero dal parassitismo e dall'indisciplina dei poveri, ritratti come sempre pronti ad estorcere favori da governi troppo generosi e premurosi.
L'impunità che gli USA e la NATO possono ostentare nella vicenda della droga afghana, è davvero totale; nel senso che, grazie all'armatura propagandistica del "troppobuonismo", riescono a sfuggire persino a sanzioni puramente morali. L'impunità viene addirittura percepita da gran parte dell'opinione pubblica come garanzia di moralità, perciò non vi è nulla di strano nel fatto che agli USA si riconosca tranquillamente un ruolo internazionale di giudice e di censore nei confronti di altri Stati; cosa che consente agli USA ogni genere di provocazione e di doppio gioco. Infatti, mentre l'amministrazione Obama dichiara di essere in guerra contro l'ISIS, in realtà sta ancora cercando di colpire e isolare la Siria di Assad con insistenti accuse per il presunto uso di armi chimiche.
Era il 1979, e Frank Zappa pubblicava un disco triplo, la cui copertina lo ritraeva con la faccia sporca di grasso di auto: "Joe's Garage". Anche Zappa versava così il suo tributo alla fiaba americana secondo cui si può conquistare un grande futuro armeggiando in un garage; ma almeno c'erano la musica ed una spassosa parodia di Scientology.
Matteo Renzi si è ispirato piuttosto al mitico garage di Steve Jobs, quello che costringeva le ragazzine cinesi a lavorare per Apple con turni così massacranti da spingerle al suicidio. Il mito americano racconta che puoi anche partire da un umile garage, ma se hai l'idea giusta, diventerai ricco e creerai lavoro; così Matteo, col patetico provincialismo che lo caratterizza, ha riunito alla Leopolda, squallidamente decorata da officina, una banda di cialtroni e malviventi, con il pretesto di "produrre idee per il lavoro". Come premio del suo pedissequo provincialismo, pare che Renzi abbia incassato nientemeno che il plauso di un certo Mike Moffo, spacciato da "la Repubblica" per uno stretto collaboratore di Obama.
Alla fine l'idea più originale che si è riuscita a fabbricare nel Renzi's Garage, è sembrata quella di un losco figuro, un certo Davide Serra, delinquente della finanza con sede sociale alle isole Cayman. La grande idea di Serra consisterebbe nella cancellazione del diritto di sciopero nel Pubblico Impiego. Soltanto uno che aveva battezzato con il nome di "Algebris" la propria associazione a delinquere di stampo finanziario, poteva essere in grado di produrre un tale sforzo di inventiva.
Al di là delle sue esteriori schermaglie dialettiche con la Commissione Europea, Renzi rimane il più ligio in Europa alle direttive della stessa Commissione, che sono in effetti le direttive del Fondo Monetario Internazionale. Le "idee" di Renzi possono ricordare quelle di una famosa metafora di Giorgio Gaber: sono come quei legnetti che il FMI lancia al proprio cane Matteo, che gliele riporta tutte biascicate. Ma forse il paragone è ingeneroso per i cani, e troppo generoso per Matteo e per il FMI. In fondo non si tratta neppure di idee, ma di slogan di pubblicità ingannevole, che servono a mascherare la prassi criminale delle multinazionali: arrivare in un posto e fare terra bruciata (le "riforme strutturali") in modo da tenere tutti per il collo. Il giornalismo celebrativo nei confronti di Renzi cerca di spacciarlo come un "liberale" a capo della sinistra, uno che vorrebbe coniugare equità ed efficienza. Queste litanie propagandistiche si fondano sul luogo comune dell'arretratezza italiana nei confronti delle economie più aduse alle regole del mitico "mercato".
Ma il mito del capitalismo come rischio d'impresa ha dovuto subire negli ultimi tempi smentite clamorose, e note a buona parte dell'opinione pubblica, e ciò proprio nei templi del "vero" capitalismo, a cominciare dal finanziamento statale di ottocento miliardi di dollari per le banche americane. Per ringraziare i contribuenti di tanto sacrificio, gli istituti di credito statunitensi non hanno esitato a mettere sul lastrico milioni di loro piccoli debitori; e l'amministrazione Obama non ha avuto niente da obiettare. L'assistenzialismo è sempre e solo a favore dei ricchi. Guidata da esempi così luminosi, la cancelliera Merkel ha stanziato duecentocinquanta miliardi di euro per "salvare le banche tedesche". Sarebbe stato forse più utile spendere quei miliardi per "salvarci dalle banche tedesche"; ma tant'è. Fra tre giorni la Germania festeggerà solennemente il venticinquennale della caduta del Muro di Berlino, ma solo per scoprire che in piedi è rimasto di peggio.
Ultimo baluardo del capitalismo imprenditoriale, indipendente ed individualista sembrava quello dei creatori di Internet, di Apple, di Facebook e degli altri social network. Ma anche questa bella fiaba rimane appannaggio dei creduloni più integralisti. Il cosiddetto "libero mercato" è un'imposizione per le colonie come l'Italia, ma negli Stati Uniti vige il sistema delle partecipazioni statali. Il Pentagono e la National Security Agency finanziano, a spese del contribuente, le ricerche e le innovazioni tecnologiche, che poi vengono attribuite a santini/icone di facciata alla Steve Jobs o alla Mark Zuckerberg. La finta diatriba tra stato e privato è puramente propagandistica, e serve a coprire l'operato di lobby trasversali tra istituzioni e multinazionali, vere e proprie cosche che finanziano gli investimenti con denaro pubblico, ma poi fanno intascare i profitti a compagnie private. Che poi i vari Google, Apple o Amazon non paghino assolutamente tasse congrue rispetto a ciò che sono precedentemente costati al contribuente - anzi, spesso grazie ai paradisi fiscali non le pagano affatto -, rappresenta il dettaglio che aggiunge la beffa al danno.
La regola vuole che quanto più alto sia il grado di menzogna sociale, tanto più intensa debba essere da parte del sistema di potere l'attività di criminalizzazione dell'opposizione e del dissenso, anche quando questi provengano da ambiti istituzionali o semi-istituzionali. Il sindacalismo confederale non può essere certo catalogato come opposizione, eppure ciò non gli ha evitato di incorrere nei manganelli della polizia, come è successo pochi giorni fa a Roma, durante la manifestazione degli operai delle acciaierie di Terni. Un governo che manganella i propri operai per difendere una multinazionale come la Thyssenkrupp, costituisce un'immagine molto rappresentativa della situazione attuale.
Ma il pestaggio di Roma aveva anche un precedente di circa una settimana prima, a Torino, quando cariche poliziesche al corteo FIOM erano state attribuite ad intemperanze studentesche. In quell'occasione il segretario generale della FIOM, Maurizio Landini, aveva preso le distanze dalle violenze, sottolineando il ruolo di unità sociale rivendicato dal sindacalismo confederale; come a dire: a noi queste cose non possono capitare perché facciamo i bravi. Invece sono successe appena una settimana dopo.
In questi mesi, anche in seguito alla delusione determinata dalle ambiguità e dal dilettantismo del Movimento 5 Stelle, si sono affacciate varie ipotesi di un ruolo di leadership politica da attribuire a Landini. Ma la eccessiva rapidità e la poca dignità con cui lo stesso Landini ha "fatto pace" con Renzi, dimostrano che il segretario FIOM, come persona, è ricattabile come chiunque, se non per magagne presenti o passate, per l'ovvia fragilità umana di chi ha famiglia e affetti. Il punto non è Landini, ma la FIOM. Una resistenza sindacale, per quanto simbolica, contro la liquidazione dei contratti nazionali potrebbe diventare un momento di catalizzazione per i ceti medi, e non solo quelli impiegatizi, ma anche piccolo-medio imprenditoriali, che con il Jobs Act si troverebbero di colpo senza relazioni industriali trasparenti, quindi ancora più esposti all'ingerenza delle multinazionali e ad una serie di indebite pressioni per delocalizzare le proprie aziende. A Renzi forse non basterebbe l'aver arruolato nelle proprie file il presidente di Confindustria, Squinzi, per poter continuare a prendere in giro la massa dei piccoli imprenditori.
Sul "Jobs Act" Renzi non può accettare nemmeno un finto tavolo di trattativa con le parti sociali, perché anche una minima scossa potrebbe far crollare il castello degli slogan. Che dal "garage" di Renzi non siano piovute idee, ma manganellate, è del tutto consequenziale, dato che gli slogan non hanno altre gambe su cui camminare, ed oggi l'emergenza di ordine pubblico appare l'unica risorsa per la sopravvivenza del governo. Intanto si cominciano a stabilire anche dei precedenti giudiziari, colpendo, per ora, i soggetti più deboli. A Piacenza un sindacalista di base è stato condannato per aver indetto uno sciopero, che il tribunale ha voluto considerare come una manifestazione non autorizzata. Un'altra lezione per i creduloni della fiaba dell'indipendenza della magistratura.
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