Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
È davvero arduo trovare nei documenti preparatori alla prossima manovra finanziaria dell’attuale governo dei segnali di sostanziale discontinuità rispetto al passato. La difficoltà aumenta se il confronto viene fatto con il governo Gentiloni, che aveva già rinunciato alle “riforme strutturali”, aveva avviato qualcosa di simile al reddito di cittadinanza ed aveva persino abolito i voucher, reintrodotti invece dall’attuale governo. Anche nella politica migratoria, occorrerebbe rilevare che lo strapotere delle ONG nel Mediterraneo aveva già subito dei colpi all’epoca del ministro degli Interni Minniti.
Il campo in cui il governo in carica presenta invece una discontinuità è quello della comunicazione. Il governo Conte considera infatti l’ostilità dei media interni ed esteri come un dato di fatto scontato, un contesto con cui fare normalmente i conti. La comunicazione polemica del governo si appunta infatti sul nemico esterno e non più, come per i governi precedenti, sul nemico interno. Ancora ci si ricorda infatti gli epiteti dei passati ministri contro i propri cittadini: “fannulloni”, “bamboccioni”, “sfigati”, “corrotti”, ecc.
Pesano probabilmente su questa scelta anche le teorie di uno degli intellettuali di riferimento del governo, Marcello Foa, il quale presenta nei suoi testi la comunicazione mainstream come un terreno intrinsecamente conflittuale e manipolatorio, legato ad interessi di parte. Per qualunque esperto di psywar si tratta di un’ovvietà, ma la novità è che queste tesi siano arrivate al dibattito politico istituzionale e siano propugnate da un neo-presidente della RAI (certo, per quello che può contare il presidente della RAI, cioè poco).
La comunicazione ideologica del governo Conte si muove sulla linea di un improbabile idillio interclassista all’ombra del cosiddetto “interesse nazionale”. Questa comunicazione fa comunque presa su gran parte della pubblica opinione, poiché vi è ormai la diffusa consapevolezza che qualsiasi governo si fosse trovato oggi in carica in Italia (persino un eventuale governo dell’attuale beniamino dei media, Carlo Cottarelli), avrebbe dovuto scontrarsi con pregiudizi ostili e con severi ammonimenti da parte della Commissione Europea.
Il segnale era arrivato già nel febbraio scorso, quando il commissario UE Pierre Moscovici aveva additato all’Italia la consueta strada obbligata delle “riforme strutturali”, cioè la strada della guerra civile permanente, che consiste nello spezzare le cosiddette “rigidità” e i cosiddetti “interessi corporativi”; in definitiva criminalizzare il lavoro e trattare i propri cittadini come una manica di parassiti da disinfestare, poiché impedirebbero al Paese di diventare “moderno” ed “europeo”, che tradotto significa in deflazione permanente. Con le sue parole Moscovici aveva delegittimato anche l’operato di tutti i governi italiani di questi ultimi anni, come a dire che tutte le innumerevoli riforme strutturali che sono state fatte sinora, in effetti non sarebbero state vere “riforme strutturali”: la guerra civile non era stata abbastanza guerreggiata.
Non è un caso che la comunicazione ostile nei confronti del governo Conte abbia finito per coinvolgere nel giudizio negativo anche il governo Renzi con le sue “mance” e le sue smanie di “flessibilità” dei conti. L’invadenza mediatica e narrativa del triennio renziano (“un incubo a reti unificate”, secondo la definizione di Giulio Tremonti) è un dato di fatto; anche se Renzi ha approfittato di quell’immenso spazio mediatico per scavarsi la fossa, poiché anche lui ha passato il tempo ad insultare i suoi potenziali elettori.
Ma è pure un fatto che la lobby della deflazione considerasse l’esperienza renziana come uno yogurt con la scadenza, una mera esperienza preparatoria di soluzioni più drastiche per “rimettere ordine nei conti pubblici”, cioè il commissariamento da parte della Troika (FMI, UE, BCE). Nel 2014 l’invocazione alla Troika fu considerata da molti come uno dei tanti deliri senili di Eugenio Scalfari; ma a quell’epoca l’invocazione alla Troika arrivò persino dall’allora direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, cioè da uno dei più ligi e pedissequi esecutori dei dettami della lobby della deflazione.
Un Renzi appena insediato era quindi già considerato bruciato e transitorio dalla lobby della deflazione. Ogni “Salvatore della Patria” che ci è stato propinato in questi anni aveva già in sé i crismi del limone da spremere e da buttare. È capitato a Renzi ma anche a Mario Monti, indotto a bruciarsi in una improbabile avventura elettorale e poi prontamente accantonato.
Il rancore di Monti verso i suoi ex mandanti traspare dalle sue dichiarazioni attuali. Ad una domanda di un intervistatore su un’affermazione di Matteo Salvini che individuava George Soros come uno degli speculatori che manovrano sullo spread, Monti ha risposto uscendo dal copione ufficiale che gli avrebbe imposto di liquidare le parole di Salvini come “complottismo”. Monti ha infatti ricordato di quando Soros gli telefonò nel 2011 per “consigliargli” di affidarsi alla Troika. Monti quindi ci fa sapere che Soros era nella posizione di chi può permettersi di telefonare ad un capo di governo per dargli dei “consigli”.
L’insaziabilità della lobby della deflazione, la sua ansia di divorare i propri figli (o i propri sicari di turno) ha finito per materializzare quel fantasma del “populismo” che era usato solo come spauracchio e referente negativo. Per ora la sfida del “populismo” è solo ideologica e l’attuale governo italiano si guarda bene dal fare sul serio. Per di più la sfida ideologica è ancora parziale, poiché il governo Conte persiste nella pantomima di spiegare la manovra ai “Mercati”; come se gli investitori prestassero qualche attenzione alle manovre finanziarie dei governi e non si regolassero invece unicamente in base agli acquisti di BTP gestiti dalla BCE. D’altra parte per una lobby della deflazione assuefatta al monopolio ideologico assoluto, anche una sfida ideologica così parziale potrebbe essere troppo.
A chiacchiere tutti (tranne i mistici cultori della “decrescita”) si dichiarano per lo sviluppo economico. All’inizio di quest’anno ha fatto un certo scalpore la lettera di Larry Fink, il superboss di BlackRock, ai vertici aziendali; una lettera in cui si auspicava un ruolo più “sociale” della finanza. In realtà se un fondo d’investimento come BlackRock ha potuto acquisire in questi anni un ruolo preminente persino rispetto a quello dei tradizionali colossi bancari, è stato proprio a causa del lungo periodo di recessione e deflazione.
Nel complesso tutta la finanza è a favore della deflazione, poiché vede, anche in una minima inflazione, una minaccia al valore dei crediti. Lo sviluppo economico comporta inevitabilmente un aumento dell’occupazione, con l’ineluttabile aumento della domanda di beni di consumo, di conseguenza almeno un po’ di inflazione. Ciò spiega le direttive di “austerità” apparentemente illogiche della centrale operativa della lobby della deflazione: il Fondo Monetario Internazionale. È solo la disoccupazione infatti a poter garantire l’assenza di inflazione e quindi a preservare il valore dei crediti.
Per le banche però la deflazione ha anche delle controindicazioni, non solo perché in recessione economica le piccole imprese falliscono e non possono ripagare i debiti alle banche. Uno dei più grandi business bancari di questo periodo è infatti il credito ai consumi, per il quale vanno sì benissimo i bassi salari, in quanto costringono i lavoratori a indebitarsi per consumare; ma non va sempre bene l’esclusione totale dal reddito di crescenti fasce di popolazione. In questo senso misure affini al reddito di cittadinanza vanno a favore delle banche, poiché sono utili a rilanciare non solo i consumi ma anche il credito ai consumi.
I fondi di investimento invece di questi inconvenienti non ne hanno avuti, anzi la recessione economica li ha miracolati, poiché la deflazione ha reso inossidabili nel tempo i loro crediti in titoli di Stato. La deflazione è il paradiso dei creditori e l’inferno dei debitori e dei salariati.
Anche se il nucleo più “hard” della lobby della deflazione è costituito dai fondi di investimento, si può dire che tutta la finanza ne faccia parte, in quanto per ogni finanziere il maggior nemico rimane comunque l’inflazione. Le monete uniche sono poi l’optimum per i finanzieri, da sempre ossessionati dal timore di essere ripagati per i loro crediti in monete svalutate. La dura condizione imposta dall’euro ha spinto molti ad idealizzare il passato della “liretta”, con le sue mitiche “svalutazioni competitive”. In realtà le svalutazioni della lira avvenivano di fatto ed i governi si limitavano a prenderne atto; ma non sempre. Il passato della “liretta” è stato soprattutto pieno di strenue difese della lira, non solo quella di Mussolini nel 1926, ma anche le difese “democratiche”, nel 1964, nel 1976 e nel 1992. Le “difese della lira” non erano altro che deflazionistiche difese degli interessi dei creditori dell’Italia.
Ma la pressione delle sole lobby finanziarie non sarebbe stata sufficiente ad istituire e preservare l’euro. Attorno alla nascita dell’euro sono fiorite le più colorite narrazioni (la più spassosa è quella del tentativo francese di indebolire la Germania togliendole il marco); ma alla fine il fattore davvero determinante è stato quello strategico-militare, cioè la NATO. La deflazione è diventata arma da guerra.
Dopo la caduta del Muro di Berlino per la NATO (o, meglio, per i suoi padroni statunitensi) la questione urgente era diventata quella di impedire l’integrazione economica della Russia con l’Europa. Il processo di adesione alla moneta unica costrinse tutti gli Stati europei a politiche restrittive di bilancio che rallentarono la crescita economica. Per le materie prime russe quindi il mercato si restrinse e gli incassi per la Russia crollarono. In effetti alla fine degli anni ’90, l’euro, sebbene ancora non ufficialmente partito, aveva già ottenuto il suo bell’effetto strategico-militare, riducendo la Russia di Eltsin alla bancarotta.
Tuttora l’euro è un’arma contro la Russia e sono state le esigenze militari della NATO a salvare l’euro dopo il 2011. È chiaro che l’euro non è eterno, che sono probabilmente già in atto trattative riservate per liquidarlo e sostituirlo con altri strumenti deflazionistici; ma nessuna nuova soluzione reggerebbe senza una sponda nella NATO e nel Pentagono. Se non ci fossero gli uomini in uniforme militare a cambiargli regolarmente il pannolone, i banchieri annegherebbero nei propri escrementi.
Una differenza con il passato è che oggi Putin è demonizzato dai media occidentali, mentre Eltsin era osannato. Il lato curioso è che, sebbene Eltsin fosse un idolo per i media occidentali, che plaudivano alle sue “riforme economiche” (chiudendo un occhio sulle sue cannonate, tutt’altro che metaforiche contro il parlamento), il trattamento per la Russia era simile.
È stata la sorte anche di altri idoli dei media, come Mario Monti, che nel 2012 veniva più volte declassato dalle agenzie di rating, nonostante le sue politiche di “salvataggio”. Per l’Italia di Monti arrendersi ai “Mercati” era stato inutile, perché la lobby della deflazione non fa prigionieri. Quando si è trovato il pollo da spennare, non lo si molla. Nonostante la bilancia dei pagamenti italiana tornasse in attivo a causa del crollo della domanda interna, lo spread sul debito pubblico andava alle stelle e ci sono volute le massicce iniezioni di liquidità del Quantitative Easing della BCE (imposte ancora una volta dagli USA) per frenarlo.
Al processo di Trani contro le agenzie di rating per reato di aggiotaggio, Monti testimoniò a loro favore, affermando che nel loro comportamento non vi era stato “complotto”. Ma quelli delle agenzie di rating non erano accusati di aver complottato, ma di aver fatto i “furbetti”. Nella sua suprema saggezza, la Corte di Trani ha però riconosciuto alla fine che “furbetti” è un epiteto di classe che si può applicare solo ai poveri (i “furbetti del cartellino”, i “furbetti dell’assenza il lunedì”, ecc.). I ricchi invece sono sempre innocenti sino all’ingenuità.
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