Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Se una settimana fa la guerra tra USA e Iran appariva inevitabile, ora la prospettiva di escalation militare sembra allontanarsi. La reazione ultra-contenuta alle provocazioni statunitensi del governo iraniano ha assunto anche risvolti gravi, come la scelta sconsiderata di continuare i voli civili pur di simulare una “normalità” che non c’era. È uno di quei casi in cui voler tenere a tutti i costi un atteggiamento “responsabile” scivola nell’irresponsabilità (per il PD c’è di che riflettere).
La guerra però continua sul piano della propaganda, accreditando l’immagine, non sostenuta da notizie certe, di un Iran in rivolta contro il regime. Si tratterebbe di capire che attendibilità possa accampare una “opposizione” interna che assuma come referente proprio gli USA, facendo finta di credere che il bersaglio dell’aggressività statunitense sia il regime, quando invece è l’Iran stesso. I precedenti delle riconversioni ideologiche della Russia e della Libia, rimaste comunque bersagli degli USA, non avrebbero insegnato nulla. Un “Occidente” malato di senso di superiorità continua ad inventarsi avversari ideologici che non ha, prestando fede alla fiaba del regime religioso in Iran, omettendo il dettaglio che attualmente al potere in Iran è tornata l’ala clepto-clericale, legata agli affari, che ha fatto fuori i laico-nazionalisti di Ahmadinejad. Attualmente in Iran i benestanti hanno già uno standard di vita occidentale, con i loro frigoriferi e le loro BMW, quindi con i conflitti la religione non c’entra. Lo stesso Isis-Daesh ha sempre avuto il suo nerbo nel personale proveniente da istituzioni laicissime come il partito Baath iracheno e la Guardia Repubblicana di Saddam Hussein; un personale spodestato dagli USA e poi riciclato dagli stessi USA in funzione antisiriana ed anti-iraniana con le trasfusioni del denaro saudita. Si sottovaluta enormemente il potere del denaro quando lo si fraintende come semplice avidità di denaro, mentre invece i flussi di denaro creano la corrente di fatti e di opinioni a cui poi si tende ad adeguarsi, ritenendola la “realtà” tout court.
La finzione di uno scontro ideologico tra regimi alimenta nelle “sinistre radicali” opportunismi e falsi “equidistantismi”, che poi finiscono per pendere dal lato di chi possiede maggiore potenza propagandistica. L’opinione pubblica “occidentale” viene adesso addestrata ad invocare un intervento armato per tutelare i diritti umani in Iran contro una presunta “repressione”, la cui
narrazione mediatica ricorda moltissimo i trascorsi del 2011 in Libia. Si comincia persino a rimproverare al cialtrone Trump di non essere in grado di mantenere la promessa di “proteggere” il popolo iraniano dal suo regime. Si ripete il copione del 2011, quando i media ci narravano di un “Occidente” troppo esitante di fronte al suo dovere morale di difendere i diritti umani nel mondo. Tra poco si arriverà persino ad accusare CialTrump di non essere abbastanza bellicista.
La Libia, già “salvata” nel 2011, è l’altro scenario su cui i media ci hanno intrattenuto in questi giorni. Putin ed Erdogan sono riusciti a strappare alle fazioni in conflitto un accordo di tregua, i cui esiti appaiono ancora molto incerti. L’Italia, al di là degli incontri formali, è tagliata fuori dalle scelte che contano, anche se è in buona compagnia, insieme con la cosiddetta “Europa” e con l’ONU. La propaganda mediatica continua ad insistere sull’inettitudine dimostrata dal governo italiano nella circostanza, come se questa inettitudine avesse svolto qualche parte negli eventi.
Si parla del crescente ruolo internazionale di Putin, ma i media si guardano bene dal sottolineare che tutti gli accordi di cessate il fuoco degli ultimi anni vedono sempre un ruolo attivo della Russia; mentre per ricordare un ruolo analogo sostenuto dagli USA e dalla NATO occorre andare indietro sino a tempi immemorabili. Anche l’Italia perciò fa indirettamente le spese della propaganda bellicistica che tende a distrarre dal punto fondamentale e cerca di rovesciare i ruoli effettivi di aggredito ed aggressore.
Se la politica estera italiana fosse in mano a soggetti competenti, questa “competenza” dovrebbe comunque scontrarsi con un dato insormontabile e cioè che gli USA sono sempre in prima fila nell’opera di destabilizzazione, sia nel Vicino-Medio Oriente che in America Latina. La Turchia di Erdogan può permettersi di essere un membro indisciplinato della NATO poiché sfrutta la sua posizione di confine. Un Paese come l’Italia, che è invece una colonia della NATO, è costretto a fare della fedeltà supina alle “alleanze” il suo tratto caratterizzante, quindi si trova sistematicamente a scontrarsi con l’infedeltà dei cosiddetti “alleati”.
I media ci hanno narrato del presunto “isolazionismo” del cialtrone Trump, dell'altrettanto presunta necessità degli USA di ritirarsi dagli scenari internazionali che per loro sarebbero meno strategici; come se cambiasse qualcosa l’alternarsi dei fantocci di turno alla Casa Bianca, o come se le scelte venissero fatte in base a considerazioni strategiche e non, come accade, per le pressioni delle lobby finanziarie e commerciali.
Non c’è stato infatti nessun ritiro degli USA, il cui interesse rimane quello di far saltare gli equilibri in ogni parte del mondo, particolarmente quelle aree dove si produce petrolio. La nozione di “guerra per il petrolio” viene banalizzata nel senso di credere che le guerre si facciano per prendersi il petrolio. Spesso c’è anche quell’aspetto ed è arcinoto che gli USA abbiano fatto contrabbando di petrolio iracheno estratto abusivamente, così come ora stanno rubando il petrolio siriano. La nozione di “guerra per il petrolio” però è più complessa.
Sino a dieci anni fa l’obbiettivo statunitense era di impedire che i profitti della vendita del petrolio medio-orientale fossero reinvestiti in loco, in modo da costringere le oligarchie arabe a riciclare i propri capitali nel circuito finanziario internazionale. Ora gli USA sono persino diventati esportatori di un costoso petrolio di scisto, per cui è diventato per loro urgente fare una concorrenza sleale a chi produca un petrolio più economico e conveniente. In una fase economica recessiva come questa, il prezzo del petrolio non può aumentare più di tanto, perciò per gli USA è oggi prioritario sabotare le vie d’accesso al Golfo Persico per rendere sempre più insicuri i trasporti del petrolio venduto dai suoi concorrenti. Nel mirino degli USA quindi non c’è solo l’Iran ma, indirettamente, anche un “alleato” come l’Arabia Saudita. Il sospetto che alla base della destabilizzazione di marca USA vi sia un imperialismo commerciale è però ancora inibito dai fumi della propaganda sui diritti umani e sulle armi di distruzione di massa, di cui il nucleare iraniano è solo l’ultimo specchietto per le allodole.
La Banca Centrale Europea ha preso per i fondelli il governo italiano con una lettera in cui gli rinfacciava di non essere in grado di dimostrare che l’introduzione dei nuovi limiti all’uso del contante abbia dei reali effetti sulla riduzione dell’evasione fiscale. La notizia è stata banalizzata da molti commenti nel senso che anche la BCE oggi ammetterebbe che la limitazione del contante non ha effetti positivi, semmai deleteri. In realtà il PD non s’è inventata la fobia per il contante, ma l’aveva adottata con il tipico entusiasmo conformistico che oggi caratterizza le sinistre di fronte ad ogni direttiva che piova dalle organizzazioni sovranazionali.
L’attuale presidente della BCE, Christine Lagarde, era sino a pochi mesi fa direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, cioè proprio quell’istituzione che negli anni passati ha condotto una furiosa lotta contro il contante, presentando il “no cash” come misura indispensabile per sollevare le masse povere del mondo dal loro analfabetismo finanziario. Il primo Paese ad adottare in modo drastico questa misura è stato l’India, che è diventata un laboratorio di finanziarizzazione di massa. Il FMI, pur riconoscendo gli inconvenienti che l’abolizione del contante aveva comportato in India, ne celebrava ugualmente i presunti benefici effetti per la “salvezza” delle masse povere.
Il FMI rappresenta la principale agenzia di lobbying finanziario, quindi il vero scopo della lotta al contante era quello di favorire l’indebitamento esponenziale dei poveri attraverso il microcredito o microfinanza. Il denaro contante facilita gli scambi mentre il denaro elettronico facilita l’indebitamento: puoi far indebitare le masse di ogni angolo del mondo senza la difficoltà di doversi trasferire materialmente il denaro contante.
Adottata parallelamente a forme di biometrizzazione, come il riconoscimento attraverso la mano, o l’iride, al posto delle tradizionali carte di credito, la digitalizzazione finanziaria consente di allargare a dismisura ciò che il FMI definisce, con subdola retorica umanitaria, come “inclusione” finanziaria. Gli strumenti biometrici consentono infatti di esercitare un controllo molto più pervasivo e incisivo sui debitori di quello che si potrebbe attuare con il contante.
In Europa ci sono però Paesi che contano, come la Germania, i quali non hanno nessuna intenzione di privarsi dell’agevolazione che il contante comporta negli scambi, perciò la BCE prende le distanze dal “no cash” mettendo alla gogna i governi gonzi che si erano bevuta la propaganda lobbistica del FMI. La protervia del lobbying di marca FMI non ha limiti nell’evocare palingenesi salvifiche o catastrofi incombenti pur di imporre le misure che fanno comodo ai potentati finanziari e industriali.
Da anni nel mirino del Fmi c’è la previdenza pubblica. Per le lobby finanziarie non si tratta solo di favorire la previdenza privata, ma anche di impedire che il sostegno alle famiglie garantito da una pensione renda i giovani lavoratori meno ricattabili e meno disponibili ad accettare salari sempre più bassi e condizioni di lavoro sempre meno dignitose. E, se i salari sono bassi, tanto più bisogna rivolgersi al credito ai consumi; insomma, i prestiti sostituiscono i salari. Ecco perché il FMI non perde occasione per paventare apocalissi previdenziali, che sarebbero dovute alla presunta lievitazione delle “aspettative di vita”, apocalissi da scongiurare ovviamente con drastiche “riforme strutturali”. Il fatto che proprio tutte queste “riforme” determinino una crescente disoccupazione e sottooccupazione e quindi una diminuzione dei contributi previdenziali, non viene minimamente posto in evidenza.
L’obbiettivo del lobbying finanziario quando attacca le pensioni, è di impoverire i lavoratori e i ceti medi. La povertà rafforza la dipendenza: il rapporto gerarchico basilare è quello tra ricchi e poveri.
In Francia la “riforma” delle pensioni imposta da Macron in obbedienza alle direttive del Fmi, ha determinato un’opposizione energica e di una durata inaspettata. Per inciso, nel caso che rivolte simili avvenissero in Paesi come l’Iran o il Venezuela, ciò sarebbe considerato motivo sufficiente dalla sedicente “Comunità Internazionale” per imporre un intervento militare o sanzioni in difesa dei diritti umani.
Almeno in Francia la propaganda lobbistica non è bastata e il sospetto che gli allarmismi sul buco previdenziale abbiano altri scopi comincia a diventare senso comune. Attaccando le pensioni il lobbying colpisce un fondamentale ammortizzatore sociale, un fattore di equilibrio che per decenni ha funzionato per smussare le tensioni e per impedire che intere parti della popolazione sprofondassero verso il basso. Un intero sistema di mediazione sociale viene oggi liquidato con la prospettiva di poterlo sostituire con strumenti di controllo tecnologico.
La pauperizzazione non crea alle oligarchie alcun problema morale poiché il divario di classe viene da loro percepito come una differenza razziale. L’idea che le classi dominanti condividano con i propri dominati un senso di comune umanità, è una pia illusione. Il razzismo non riguarda solo il colore della pelle o i tratti somatici, bensì è una visione complessiva dei rapporti sociali. Ma le attuali oligarchie finanziarie sono ancora più sradicate dai territori in confronto alle oligarchie che le avevano storicamente precedute. Ciò comincia a mettere in questione la stessa nozione di società.
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