Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Proprio a metà agosto, quando tutti erano distratti, il governo ha rettificato le cifre sulle assunzioni a tempo indeterminato in conseguenza dell'entrata in vigore del "Jobs Act". Gli assunti effettivi sarebbero in realtà poco più della metà dei seicentotrentamila annunciati in un primo momento. Probabilmente a Natale, o a Capodanno, dalla pagina interna di qualche quotidiano, verremo a sapere che anche questa seconda cifra sarà stata ulteriormente rettificata al ribasso.
Fin qui niente di strano, poiché alla spinta occupazionale del "Jobs Act" non aveva creduto nessuno, meno che meno quelli che avevano fatto finta di crederci. Il problema è che queste "riforme strutturali" falliscono anche, e soprattutto, laddove persino gli oppositori più decisi si aspetterebbero un risultato, cioè nell'aumento della produttività e della competitività nei confronti delle cosiddette "economie emergenti". La scorsa settimana l'agenzia Reuters ha raccolto una serie di pareri di esponenti del Fondo Monetario Internazionale e dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo, per spiegare come mai queste "riforme strutturali" non soltanto non raggiungano nessuno degli obiettivi di aumento della competitività, ma, all'opposto, deprimano ancora di più l'economia.
Le spiegazioni fornite da questi "prestigiosi esperti", come al solito, si dimostrano piuttosto fumose e contraddittorie. Sì, sono venti anni che in Italia si fanno "riforme strutturali" in tutti i campi, ma non sono poi strutturali-strutturali come dovrebbero essere. Come diceva Sergio Endrigo, manca sempre una lira per fare un milione.
Insomma, le mitiche "riforme strutturali" non falliscono mai, falliscono solo i governi che le attuano, o perchè non hanno saputo fare i decreti attuativi, o perché la Pubblica Amministrazione non le ha sapute applicare, visto che è rimasta inefficiente nonostante le "riforme strutturali". Qualcuno, come l'ex del FMI Vito Tanzi, si atteggia a maoista del sedicente liberismo, e si spinge a dire che l'Italia avrebbe bisogno di una "rivoluzione culturale". Queste "argomentazioni" sono inattaccabili proprio perché non argomentano su nulla. Lo straparlare di questi "prestigiosi tecnici" serve solo a ribadire il vincolo gerarchico e coloniale che sottopone i governi nazionali come quello italiano alle direttive delle organizzazioni sovranazionali come il FMI e l'OCSE.
In realtà gli effetti recessivi di queste riforme strutturali non sono poi così male, se si considera che la stagnazione europea ha determinato una stagnazione mondiale che sta mettendo in crisi i piani di industrializzazione dei Paesi più poveri, perciò la gerarchia imperialistica è salva. Né il FMI, né l'OCSE, sono mai stati minimamente interessati allo sviluppo dei Paesi più poveri, semmai il contrario; e non ci vuole una mente superiore per capirlo. Più un Paese è povero, più il suo PIL arranca, più alti dovranno essere gli interessi che questo Paese paga sui suoi titoli di Stato. Uno Stato che possa esibire tassi di crescita vivaci, non sarebbe un debitore interessante per le grandi banche internazionali, poiché il suo basso rischio di insolvenza gli permetterebbe di pagare interessi bassi sui propri titoli.
Il concetto di "crisi del capitalismo" va quindi completamente rivisto, se si considera che, proprio nel periodo di "crisi", i ricchi sono diventati molto più ricchi ed i poveri molto più poveri. C'è infatti da sottolineare che le "riforme strutturali" hanno favorito lo sviluppo di una serie di business tipici della recessione. Ci sono, ovviamente, le privatizzazioni/svendita. In Grecia la compagnia telefonica OTE, che era di Stato, oggi è controllata in maggioranza da Deutsche Telekom.
I vari "Jobs Act" favoriscono l'intermediazione parassitaria delle agenzie di "somministrazione del lavoro" (quelle che una volta si chiamavano agenzie di lavoro "interinale"). Il caporalato istituzionalizzato delle agenzie di somministrazione del lavoro rappresenta un business trasversale, che piace molto anche alle "sinistre", visto che il ministro del Lavoro (?), Giuliano Poletti, era a capo di una di queste agenzie, Obiettivo Lavoro. Quindi, se c'è qualcuno a cui la disoccupazione fa piacere, è proprio Poletti.
Poi, visto che i salari sono bassi ed i posti precari, c'è l'esplosione del credito ai consumi, con il proliferare di agenzie finanziarie, che vengono, direttamente o indirettamente, generate dalle banche. Più sei povero, e più sei costretto ad indebitarti. Ed, infine, ultime, ma non meno importanti, ci sono le agenzie di recupero crediti, perché anche l'insolvenza dei troppo poveri può diventare un grosso business se sai come organizzare la loro persecuzione.
In questi mesi di recrudescenza dell'emergenza profughi, il Sacro Occidente ha scoperto di avere un altro nemico (o un altro alibi): gli "scafisti". Lo "scafismo" rappresenta una categoria ancora incerta, ma non c'è dubbio che, con il tempo, la narrazione mediatica si arricchirà di connotazioni e di sfumature inquietanti che renderanno il nuovo nemico più familiare e riconoscibile da parte dell'opinione pubblica. Potrebbe venirne fuori un bell'ibrido mostruoso, magari un cocktail di jihadismo e mafia russa.
A questa pubblica opinione addestrata al wrestling opinionistico dei talk-show, viene offerta intanto una vasta gamma di eroi mediatici con i quali schierarsi, da una Merkel in versione umanitaria, ai "cattivi" Salvini ed Orban. Il giornalista "contor-sionista" Furio Colombo si schiera senza esitazioni con la cancelliera Merkel, che costituirebbe, secondo lui, l'ultimo barlume della politica estera europea. In realtà per parlare propriamente di politica estera non bastano i confronti con la commissaria europea Mogherini, al paragone della quale qualunque figura rischia di giganteggiare. Occorrerebbe qualche passetto in più.
In tutta la rappresentazione della guerra allo "scafismo", la Merkel può permettersi di recitare la parte del personaggio nobile, mentre a Renzi si riserva il ruolo del deficiente, poiché è ovvio che non si può dare la caccia agli scafisti senza mettere a rischio la vita dei profughi. Ma la Germania non sta nel Mediterraneo a ridosso delle coste africane, e non è neppure un Paese di frontiera come l'Ungheria e la Serbia. La geografia consente oggi alla Merkel di far bella figura, prendendosi comodamente anche un milione di profughi siriani, che potranno essere degli ottimi lavoratori sottopagati, dato che la Siria ha sempre speso molto in istruzione e qualificazione professionale.
Anche senza fare della dietrologia, ma attenendosi rigorosamente alle notizie di fonte ufficiale, si comprende immediatamente che qualcosa non torna in questa "emergenza" profughi. Un problema come l'immigrazione di massa potrebbe anche non avere soluzioni, ma la buona fede dei governi europei può essere comunque misurata in base alla loro volontà di circoscrivere il problema e di ricondurlo a numeri più gestibili. Ed è proprio questa volontà che manca. Semmai si può scorgere la volontà contraria. Se si va a scorrere infatti l'infinita lista ufficiale dei Paesi sottoposti a sanzioni da parte dell'Unione Europea, alla lettera elle si scopre che ad essere oggetto di un rigoroso embargo sulle armi c'è ancora la Libia del governo "laico" di Tobruk in guerra con le milizie jihadiste.
In base alle notizie di stampa si scopre anche che le milizie jihadiste beneficiano invece di regolari forniture di armi da parte della Turchia. E, sino a prova contraria, la Turchia fa parte della NATO. La questione delle forniture di armi alle milizie jihadiste non solo ha determinato tensioni tra il governo di Tobruk e la Turchia, ma comporta una situazione di scontro diplomatico tra la stessa Turchia ed il governo egiziano di Al-Sisi, che pure dall'UE viene indicato come un punto di riferimento irrinunciabile per la lotta al terrorismo.
Se l'UE volesse dimostrare di fare appena sul serio nella lotta alla partenza di barconi dalle coste libiche, le basterebbe togliere l'embargo al governo di Tobruk e muovere una protesta diplomatica presso il governo di Ankara. Ma, con tutta probabilità, le direttive della NATO sono ben diverse.
Sta di fatto che a gestire tutta l'operazione mediatica del bimbo siriano morto sulla spiaggia è stata proprio la stampa turca, quindi la versione ufficiale che è stata imposta sull'emergenza profughi viene confezionata dal governo di un Paese NATO non aderente alla UE; ed il governo turco è coinvolto nell'appoggio sia ai jihadisti della Libia che a quelli della Siria. Allora, di che cavolo parla Furio Colombo?
Ma c'è anche di peggio, come i cannoneggiamenti ed i bombardamenti aerei che gli Israeliani riservano alle truppe di Assad ogni volta che queste cercano di stanare le milizie jihadiste dal confine del Golan. Non si tratta proprio di milizie dell'ISIS, ma comunque di un'organizzazione affine, Al Nusra. Non risulta però che nessuna obiezione sia mai stata mossa a riguardo ad Israele; anzi, all'Expo di Milano Renzi ha celebrato l'unità di intenti che esisterebbe con Netanyahu sulla presunta lotta al terrorismo.
Se Assad è per L'UE ancora il principale nemico, quale alternativa si offre a milioni di Siriani in fuga dal Califfato, se non l'emigrazione di massa? Non è che qui si tratta di eliminare con una sorta di genocidio migratorio proprio il popolo siriano, visto che costituisce il principale ostacolo per Israele e per gli USA?
Una volta questa tragedia migratoria sarebbe stata definita aggressione imperialistica; anche perché vi era più lucidità rispetto al fatto che l'imperialismo non è affatto un ordine mondiale, ma una destabilizzazione permanente. Oggi anche le più ardite opposizioni si fermano quasi sempre alla locuzione di "responsabilità dell'Occidente", una nozione abbastanza generica ed ambigua da poterla interpretare nel senso che gli USA e la NATO hanno sbagliato a non bombardare di più. Il presidente francese Hollande si adegua a questa interpretazione delle "responsabilità dell'Occidente", ed ha annunciato voli di ricognizione sulla Siria in vista di bombardamenti contro l'ISIS. Poi, tanto per chiarire le cose, lo stesso Hollande ha dichiarato che il suo principale obiettivo rimane la cacciata di Assad. Parole che, anche se non fossero seguite dai fatti, costituiscono già di per se stesse un incentivo alla migrazione.
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