Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Dal 22 luglio la provincia di Napoli è stata coinvolta in una serie di black-out dell’energia elettrica di crescente gravità. La prima ad essere colpita è stata una delle zone più centrali della città, che comprende la Prefettura, il Municipio ed il Palazzo Reale. Sette ore che hanno paralizzato ogni attività amministrativa, commerciale e turistica.
Il 10 agosto è toccato all’isola d’Ischia di sprofondare in un black-out infinito, il 14 agosto a Capri. Nei casi di Napoli e di Ischia le giustificazioni della società Terna - un alter ego dell’ENEL - , che gestisce il sistema di linee ad alta tensione, è la stessa: una ditta (estranea alla stessa società), nell'esecuzione di lavori di scavo, ha tranciato un cavo. E’ una giustificazione ad effetto, che scarica il gestore di ogni responsabilità di fronte all’opinione pubblica, ma che non regge di fronte ad una elementare analisi della rete elettrica esistente in tutta Italia da alcuni decenni.
Tutte le stazioni elettriche ad alta e media tensione fanno parte di una rete a maglie per cui, se viene meno l’alimentazione da un lato della maglia, immediatamente viene attivata l’alimentazione da uno degli altri lati. Non ci vogliono sette ore per ovviare ad un guasto come quello descritto dalla società Terna; se si fosse trattato di un guasto diverso (fuori servizio simultaneo di uno o più trasformatori o altro) sarebbe stato comprensibile, ma non giustificabile.
Potrebbe anche darsi che, per difetto di manutenzione - magari voluto -, alcuni lati delle maglie non siano pronti a garantire l’alternativa e, in tal caso, si cadrebbe nell’emergenza. Un fatto di questo genere, in un sistema tecnologico pubblico come quello gestito dall’ENEL, sarebbe inammissibile; solo in un sistema in cui i servizi pubblici essenziali siano privatizzati costituisce la norma, perché l’emergenza è molto più remunerativa. Quindi è difficile pensare ad un caso fortuito.
L’importante è saper gestire l’emergenza con un efficiente programma di relazioni pubbliche e di controllo dei media, come ha dimostrato di saper fare la californiana Enron, la quale usava i black-out, con le relative emergenze, per estorcere finanziamenti pubblici che, in più, consentivano alle sue azioni di schizzare in alto non appena giungeva la notizia del finanziamento pubblico.
È ancora nella memoria di molti il megablack-out del 28 settembre 2003, che colpì tutta l’Italia, da Nord a Sud. Anche per quell’incredibile episodio non vi fu alcuna spiegazione decente, e i media arrivarono a raccontare della caduta di un albero su un traliccio dell’energia elettrica, come se i tralicci fossero dei semplici pali di legno, piuttosto che, come minimo, delle strutture di cemento armato; ma nella generalità dei casi si tratta oggi di strutture di acciaio zincato, tecnologicamente molto complesse, studiate e progettate, caso per caso, da pool di architetti ed ingegneri per rispondere in condizioni estreme a sforzi eccezionali, altro che caduta di alberi.
L’omertà mediatica non fu sufficiente al governo Berlusconi di allora per trarre dall’emergenza i risultati sperati. Si farfugliò di ritorno al nucleare, ma poi l’ipotesi cadde, in attesa di tempi migliori, che sono poi quelli attuali, dato che la decisione di costruire delle nuove centrali nucleari è stata presa dal Parlamento poche settimane fa. Il fiasco di allora fu evidente quando nessun impulso efficace alla ulteriore privatizzazione dell’ENEL riuscì a sortire dal pretesto dell’emergenza.
Sono quattordici anni che i governi, sia di centro-destra che di centro-sinistra, cercano di privatizzare sul serio l’ENEL. Nel 1999 il governo Amato - il terzo della legislatura, dopo quelli di Prodi e di D’Alema -, sembrò riuscire finalmente a fare il colpo, e l’ENEL venne trasformata in una SPA. Nel luglio del 2001 la Corte dei Conti dovette però constatare che la privatizzazione non procedeva, poiché non c’erano investitori in grado di comprare le azioni ENEL al loro valore effettivo. La Corte dei Conti concludeva che, visti i profitti giganteschi ottenuti dall’ENEL e la modernità dei suoi impianti, occorresse evitare di operare delle svendite.
La strada imboccata dal privatizzatore per eccellenza - il finto socialista e vero sicario delle multinazionali, Giuliano Amato, colui che nel 1993 aveva operato la prima privatizzazione del Pubblico Impiego - si era rivelata senza sbocco, frutto di inesperienza.
Nessun investitore privato disponeva infatti delle cifre necessarie per avvicinarsi al valore effettivo dell’azienda elettrica. Neppure le multinazionali del settore pensarono seriamente di sborsare cifre del genere, perché se si fossero regolate acquistando regolarmente ciò che possiedono, oggi non lo possiederebbero affatto.
Occorre anche considerare che la parte del gruppo dirigente dell’ENEL ostile alla privatizzazione, dispone di risorse finanziarie immense, in grado di inceppare con argomenti molto concreti il processo di privatizzazione, spegnendo l’entusiasmo dei privatizzatori ed assottigliando le loro file, grazie a tangenti di proporzioni rispettabili. ENEL ed ENI sono oggi i gruppi industriali che producono i maggiori profitti in Italia, sono delle SPA solo di nome - dato che la maggioranza delle loro azioni è ancora nelle mani dello Stato -, e inoltre rappresentano due enti complementari, facce della stessa medaglia. L’attuale Amministratore Delegato dell’ENI, Scaroni, aveva già ricoperto lo stesso incarico nell’ENEL e, prima ancora, era stato rieducato nelle patrie galere ai tempi di Mani Pulite.
Oggi Amato e i suoi discepoli hanno studiato meglio l’argomento, hanno messo da parte la mitologia del capitalismo e i libri di fiabe sul libero mercato, con quei leggendari personaggi chiamati “imprenditori”, meno realistici di elfi, folletti e gnomi. Amato ha scoperto così che le privatizzazioni non sono il risultato di vendite, e neppure di svendite, ma di furti. Furti non solo in senso morale, ma in senso tecnico-giuridico, cioè una somma di illegalità di Stato e di atti terroristici compiuti sotto il ricatto di emergenze provocate ad arte.
L’atteggiamento indifferente di una parte dell’opposizione sociale di fronte al tema delle privatizzazioni, si alimenta di una visione in cui si confrontano i modelli astratti del capitalismo privato da una parte e del capitalismo di Stato dall’altro; una visione che non tiene conto del fatto che è proprio lo Stato a pagare le privatizzazioni, attraverso la rapina ai danni del contribuente. È la spesa pubblica a finanziare le privatizzazioni, ed è la spesa pubblica a sostenerle, dato che il privato, appena supera la dimensione artigianale, è in realtà un sussidiato dallo Stato.
Privatizzazioni e nazionalizzazioni hanno seguito storicamente un percorso pendolare: alla fine dell’800 lo Stato italiano ha finanziato la nascita dei settori industriali e delle infrastrutture fondamentali (energia elettrica, siderurgia, ferrovie, ecc.), poi ne ha attuato la privatizzazione, spesso a vantaggio di compagnie con partecipazione straniera; successivamente si sono rese necessarie le nazionalizzazioni per salvare le infrastrutture dal decadimento, e i privati hanno intascato i proventi del risarcimento statale. Una volta che le infrastrutture siano state risanate e rimodernate, si ripropone l’urgenza di privatizzare di nuovo, ovviamente senza che i privati ci rimettano un soldo, perché sarà sempre la spesa pubblica a pagare le privatizzazioni.
Paradossalmente, le tasse e la spesa pubblica vanno a vantaggio proprio di quel settore della società che esprime il maggior numero di evasori fiscali. La propaganda ufficiale alimenta la menzogna secondo cui le tasse e la spesa pubblica servono a sostenere la spesa sociale, i pubblici servizi; mentre, in effetti, solo una minima parte della spesa pubblica diventa spesa sociale, e il pubblico denaro viene impiegato soprattutto per sostenere l’artificio della proprietà privata dei grandi mezzi di produzione e delle banche.
La sedicente “democrazia occidentale” ricorre anche alle armi del raggiro pur di nascondere all’opinione pubblica la presenza degli artigli privati sulla spesa pubblica. È, ad esempio, appena dell’altro ieri la sceneggiata mediatica del presidente USA Obama, che avrebbe “riconfermato” Bernanke per altri quattro anni alla presidenza della Federal Reserve.
In realtà la Federal Reserve, a dispetto del suo nome, è una banca privata, di proprietà di altre banche private, e il Presidente degli Stati Uniti non ha nessun ruolo nelle nomine al suo interno. Sta di fatto che, a questa banca privata, il Congresso USA ha completamente delegato, nel 1913, la gestione monetaria nazionale; ed il presidente-fantoccio degli Stati Uniti viene chiamato oggi a plaudire pubblicamente, con frasi equivoche, alla riconferma di Bernanke, in modo da far credere a tutti che si tratti proprio di una decisione di Obama in persona.
Senza un gioco sporco, senza cortine fumogene, senza una serie di attacchi terroristici che colpiscano sia alla periferia che al cuore del bersaglio prescelto, le privatizzazioni delle risorse pubbliche non possono essere effettuate. Nel caso dell’ENEL, serviranno anche contenziosi giudiziari - come quello che i Comuni capresi, esasperati, hanno già avviato -, e persino sospetti di infiltrazione della malavita organizzata, con relative inchieste giudiziarie. Insomma qualcosa che offra il pretesto al governo per dei commissariamenti, dapprima su base locale, poi nazionale.
Dai commissariamenti si potrà poi procedere allo smembramento, alla spartizione dell’ENEL tra i privati; per la felicità dell’Anti-trust, che, manco a dirlo, è una creatura di Giuliano Amato.
L’organizzazione cattolica Comunione e Liberazione esibisce da molti anni una doppia personalità. Da un lato, CL è la Compagnia delle Opere, una delle più tentacolari cosche affaristiche italiane, che monopolizza gli appalti nella Regione Lombardia (governata dal ciellino Roberto Formigoni, del PdL), ma è in grado di vampirizzare attivamente anche altre aree del Nord e del Centro Italia. Dall’altro lato, Cl si presenta invece come la “compagnia delle chiacchiere” che si esprime, con cadenza annuale, al Meeting di Rimini.
Il Meeting di Rimini è una palestra per la declamazione delle più spudorate stupidaggini, confezionate col richiamo pretestuoso ed astratto a valori morali e religiosi; il tutto in puro stile Don Giussani, il mitico e compianto fondatore di CL, il prete capace di scrivere ottocento pagine per garantirsi di non aver detto assolutamente nulla. La compagnia delle chiacchiere riesce così ad annebbiare ed oscurare la realtà affaristica della Compagnia delle Opere, che sovrintende a tutta l’impalcatura mediatica.
Spesso, però, esponenti politici e di governo scelgono il palcoscenico mediatico del Meeting di Rimini anche per lanciare pubblici messaggi ai loro clienti, o ai loro mandanti. Quest’anno è stato il caso del ministro-fantoccio dell’Istruzione, Gelmini, che ha dichiarato il proposito di abolire l’attuale sistema di formazione dei docenti, per sostituirlo con un tirocinio da attuarsi presso scuole statali o paritarie. Insomma, un business viene sottratto all’Università e donato ai privati, dato che, con questa ipotesi normativa, il governo concederebbe di fatto agli istituti paritari la facoltà di vendere la qualifica di docente.
Ovviamente la Gelmini, nelle sue dichiarazioni al Meeting, non si è fatta sfuggire l’occasione per avvilire e umiliare la categoria dei docenti e, nel caso specifico, i docenti precari; ma sarebbe un errore attribuire questo stile sprezzante e sguaiato alla particolare abiezione antropologica manifestata dai membri dell’attuale governo. Nel 1999 il ministro dell’Istruzione in carica era Tullio De Mauro, sino ad allora un intellettuale universalmente apprezzato; eppure De Mauro adottò uno stile analogo a quello della Gelmini, scegliendo i media, invece che il Parlamento, per esprimere i suoi propositi - elettoralismo ed antiparlamentarismo sembrano fatti l’uno per l’altro -, e trattando inoltre gli insegnanti da morti di fame, al punto di lanciare una proposta da avanspettacolo: istituire una lotteria per arrotondare gli stipendi dei docenti.
Anche l’affossamento dell’idea che la Scuola possa costituire un fattore di progresso sociale, e la trasformazione della stessa Scuola in un laboratorio riservato esclusivamente a esperimenti affaristici e reazionari, li si debbono ad un altro ministro di “sinistra”, cioè al predecessore di De Mauro al ministero dell’Istruzione, Luigi Berlinguer.
Il pomposo e prolisso programma dell’Ulivo alle elezioni del 1996 prevedeva, come punto qualificante per la Scuola, l’adozione dell’istruzione superiore per tutti sino ai diciotto anni: un obiettivo storico della sinistra. Eppure, appena giunto al ministero, Berlinguer si dimenticò di questo obiettivo e, con la solita intervista televisiva, lo sostituì con l’obbligo formativo, cioè una riedizione del caro, vecchio e reazionario avviamento professionale.
Come obiettivo qualificante della sua opera di ministro, Berlinguer lanciò poi in TV una proposta mai discussa prima: l’autonomia degli istituti scolastici. L’aspetto curioso - e interessante dal punto di vista della psicologia sociale - è che all’epoca nessuno si fece avanti a contestare al ministro l’abbandono dell’istruzione superiore per tutti, anzi tutta l’attenzione fu monopolizzata dal dibattito sull’autonomia, di cui, sino ad allora, nessuno aveva mai avvertito il bisogno.
Berlinguer, con la proposta dell’autonomia scolastica, non aveva fatto altro che propinare il solito sofisma, divenuto un luogo comune propagandistico dagli anni ’80: meno uguaglianza in cambio di più libertà. Ma libertà e uguaglianza sono nomi diversi per la stessa cosa, e pretendere di separare la libertà dall’uguaglianza, significa solo usare la parola “libertà” come un’etichetta per ogni genere di abuso.
Infatti, mentre molti hanno favoleggiato sulle opportunità creative offerte dall’autonomia scolastica, l’autonomia reale si è risolta invece in una sorta di riedizione del feudalesimo applicato alla Scuola, dove ora il Preside - divenuto il Dirigente Scolastico - assume, per legge, il ruolo di bullo istituzionale, un tirannello locale, con tratti da boss mafioso. Il Preside-bullo costituisce il punto di riferimento ed il modello per gli studenti bulli, che ora si ritrovano criminalizzati semplicemente per essersi adeguati al trend.
Rimane a tutt’oggi da spiegare come sia stato possibile che un obiettivo come l’istruzione superiore per tutti sino ai diciotto anni si sia potuto perdere per strada, sino a scomparire dalla memoria storica. Uno dei fondatori del comunismo, Filippo Buonarroti, diceva che ci sono idee emancipatrici, cioè idee che, aldilà della possibilità di realizzazione immediata, costituiscono comunque dei fattori di spinta sociale. Anche senza credere più ai Lumi ed alle virtù salvifiche della cultura, non c’è dubbio che l’idea dell’istruzione superiore per tutti costituisca un messaggio concreto di uguaglianza, cioè uno di quegli obiettivi che possono definirsi “identitari” per un movimento di opposizione.
Quindi non è affatto un caso che la guerra psicologica abbia usato un governo di “sinistra” per liquidare e cancellare dalla memoria collettiva proprio questo obiettivo.
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