Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Un altro dei consueti rituali estivi si è consumato: quotidiani e telegiornali hanno fornito i dati dei risultati dell’Esame di Stato nelle regioni del Sud, denunciando l’ennesima pioggia di cento e lode. La “notizia”, chiaramente preconfezionata, è stata fornita secondo gli stessi moduli da tutti gli organi di disinformazione, i quali hanno denunciato preoccupati la disparità di valutazioni tra il Nord ed il Sud, nel quale la facilità di elargire il massimo del punteggio avrebbe assunto i connotati dell’assistenzialismo, dati i benefici che ciò comporta all’atto di iscriversi ad una facoltà universitaria. A partecipare al rituale dell’indignazione sono stati chiamati stavolta anche i governatori delle Regioni del Nord, indotti a lamentarsi del danno che queste valutazioni alla “meridionale” arrecherebbero agli studenti settentrionali.
L’attendibilità del dato fornito in realtà è molto discutibile, dato che non si precisa il numero degli studenti che frequentano il triennio finale del Superiore (che non rientra nell’obbligo scolastico) rispettivamente al Nord e al Sud. In Regioni come il Veneto, ad esempio, il tasso di iscrizioni al triennio superiore è storicamente molto basso. Il calo di iscrizioni al Nord si è intensificato dopo l’azzeramento dell’istruzione tecnica da parte della riforma Gelmini, che ha trasformato tutti gli istituti superiori in licei. Nel Sud, dove il tasso di disoccupazione è molto più elevato, il liceo, per quanto privo di una specifica professionalizzazione, rimane un’opzione priva di alternative. Senza un dato percentuale, la “notizia” sui risultati dell’Esame di Stato diventa un semplice ribadire pregiudizi antimeridionali, infatti i giornalisti si sono affrettati a farci sapere che, in base ai dati OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), i risultati dei test sugli studenti italiani indicherebbero risultati più bassi per gli studenti del Sud.
Viene quindi riproposto dai media uno schema propagandistico collaudato: un razzismo antimeridionale che serve a veicolare un autorazzismo italiano, ribadendo la necessità della tutela del nostro Paese da parte di organizzazioni sovranazionali come l’OCSE. Per garantire un’omogeneità ed una serietà delle valutazioni basterebbe far funzionare il servizio ispettivo ministeriale, ma gli ispettori devono stare alla larga dalle scuole altrimenti non potrebbero chiudere gli occhi sulla messe di abusi e reati commessi dai presidi-manager.
Intanto l’OCSE ne racconta di tutti i colori. Nel 2014 la stessa OCSE ci faceva sapere che il Liceo di “eccellenza” in Italia si trovava a Bari, quindi nel Sud. Questo dato favorevole al Meridione non è di per sé più attendibile di quelli sfavorevoli forniti dall’OCSE, poiché rimane un dubbio di fondo sulla qualità e sulle intenzioni di tali rilevazioni. In questo caso potrebbe trattarsi della solita tecnica del bastone e della carota: per far digerire al Sud la valanga di valutazioni negative se ne infila ogni tanto qualcuna positiva.
C’è infatti da sottolineare che tutti i ministri dell’Istruzione succedutisi dal ’96 in poi (con la parziale eccezione di Fioroni) si sono rigidamente attenuti alle indicazioni dell’OCSE nel varare le loro riforme, quindi nel portare all’attuale disastro dell’istruzione pubblica, la stessa OCSE ha svolto un ruolo essenziale. Alcuni ancora ricordano il caso del ministro di “sinistra” Berlinguer, arrivato a governare l’istruzione pubblica con un ambizioso programma elettorale, che prevedeva addirittura l’istituzione dell’obbligo sino ai diciotto anni. Il programma elettorale fu invece prontamente abbandonato in nome dei protocolli OCSE, che prevedevano, tra l’altro, l’autonomia scolastica, cioè la concorrenza tra istituzioni pubbliche, ciò in nome di fittizie gerarchie delle “eccellenze”. Quali siano poi gli intendimenti ultimi dell’OCSE, questa non manca di dircelo chiaramente: spostare l’istruzione tecnica e professionale in fase post-scolastica, aumentandone i costi. L’OCSE raccomanda infatti di aumentare le tasse universitarie e di rendere accessibili gli studi universitari attraverso un sistema di prestiti. Si cerca di imporre una finanziarizzazione dell’istruzione secondo il modello angloamericano.
Da decenni l’OCSE batte anche sul tasto della eccessiva “rigidità” del lavoro in Italia e le innumerevoli “riforme strutturali” a riguardo, compreso il recente “Jobs Act”, recano il marchio OCSE, anzi sono ricalcate sulle brochure di questa organizzazione. Anche in questo campo non sono mancate le smentite da parte della stessa fonte. Nel 2014 l’OCSE ammetteva infatti di aver elaborato i dati sulla rigidità del lavoro in Italia in base ad un errore, cioè trattando un salario differito come il TFR (la vecchia “liquidazione”) come se fosse un risarcimento per il licenziamento. In base ai dati corretti il lavoro italiano già nel 2014 risultava quindi più flessibile persino di quello tedesco. Un “errore” grossolano che fa il paio con quelli del Fondo Monetario Internazionale (l’organizzazione “madre” dell’OCSE), il cui massimo dirigente, Christine Lagarde, aveva dimostrato di non sapere che in Italia il sistema pensionistico non è a carico della spesa pubblica ma è pagato dai contributi previdenziali dei lavoratori. Verrebbe da ironizzare sulla qualità intellettuale delle persone chiamate a vigilare sulla nostra istruzione, ma l’ironia deve ragionevolmente cedere il passo al sospetto.
Le “ritrattazioni” dell’OCSE e dello stesso FMI sugli effetti delle “riforme strutturali” non hanno però modificato la linea di queste organizzazioni, né dei governi da loro dipendenti. I dati sul PIL pubblicati dall’ISTAT hanno smentito le attese del governo su un incremento superiore all’1%. Non si è nemmeno alla metà, nonostante i “quantitative easing” di Draghi e la svalutazione dell’euro. La spiegazione del mancato incremento è evidente: le “riforme” del lavoro hanno depresso i salari e, di conseguenza, la domanda interna. Non serve produrre se nessuno compra, e infatti anche la produzione è in calo. Ma il governo promette ugualmente nuove “riforme strutturali”, col pretesto che sennò l’Europa non ci accetta la “flessibilità” sul bilancio. Ma il vero motivo è che si vuole finanziarizzare il rapporto di lavoro, dato che la precarietà ed i bassi salari costringono i lavoratori a contrarre debiti.
L’umanità è quello che è, perciò non sono mai mancate le catastrofi antropologiche su cui gli intellettuali possano meditare amaramente, dalla febbre del sabato sera ai Pokemon. Anche il concetto di “sinistra” è sempre stato molto labile, e basti dare una sbirciata alle riviste dell’estrema sinistra degli anni ‘70, tutte impegnate in un’instancabile apologia delle virtù mirabolanti del Capitale. Certo è che molti non si aspettavano che governi di “sinistra” ignorassero allegramente la loro naturale base elettorale, cioè il lavoro dipendente, anzi, ne facessero il loro bersaglio principale, mirando alla sostituzione dei salari con i prestiti. Niente di strano se si considera che oggi il vero potere risiede nelle organizzazioni sovranazionali, cioè nelle lobby che le occupano e che offrono prospettive di carriera anche ai nostri governanti attraverso cooptazioni e “porte girevoli” tra pubblico e privato. Oggi si è affacciata una nuova generazione di politici tra i trenta e i quaranta anni che si è conformata antropologicamente al modello della porta girevole, cioè al saltabeccare tra cariche pubbliche e prospettive di carriera nelle multinazionali, o in fondazioni ad esse legate. Il tradizionale cinismo della politica è stato perciò sostituito dall’adesione disinvolta e meccanica a slogan e direttive delle lobby sovranazionali. Si è molto insistito sulle compromissioni familiari della ministra Maria Elena Boschi, ma nel suo personaggio di “ragazza della porta girevole accanto” questi aspetti di tradizionale familismo amorale rappresentano appena un incidente.
Questi giovani “portagirevolisti” hanno trovato comunque i loro maestri nella generazione politica che li ha preceduti. L’attuale giudice costituzionale, ed ex ministro ed ex Presidente del Consiglio, Giuliano Amato, ha indicato la strada della porta girevole militando per anni in Deutsche Bank, e ciò mentre si occupava delle celebrazioni per i centocinquanta anni dell’Unità d’Italia. Su Rai5 Amato intrattiene il pubblico giovanile sulle proprie esperienze in un programma il cui titolo è tutto un programma: le lezioni dei maestri.
In questo contesto di lobbying sovranazionale e di porta girevole, risulta prezioso il ruolo di formazioni politiche come il Movimento 5 Stelle, incaricate di far credere all’opinione pubblica che la corruzione più pericolosa sia quella delle mazzette.
La serie di attentati di presunta matrice “islamica” in Francia e Germania è stata l’occasione, o il pretesto, per gran parte della stampa di segnalare la pioggia di finanziamenti che provengono da Arabia Saudita e Qatar, con la giustificazione ufficiale di costruire moschee in Europa. Gli stessi quotidiani che lanciano l’allarme per questa nuova emergenza-Islam non possono però fare a meno di rilevare che la destinazione “religiosa” dei finanziamenti non impedisce che questi capitali delle petromonarchie vadano ad acquisire vasti patrimoni immobiliari, specialmente in Italia.
Le operazioni finanziarie di questo tipo hanno probabilmente molto poco a che vedere con il terrorismo (molto più endogeno di quanto si voglia far credere) o con i progetti di conquista manu militari dell’Europa, dato che l’Europa è già sotto l’occupazione militare statunitense. La presenza di poli “islamici” ricchi e costantemente finanziati in Paesi come l’Italia, soggetti ad impoverimento progressivo dalle politiche europee, rappresenta una testa di ponte per affari immobiliari tanto più promettenti quanto più l’euro-deflazione fa scendere i prezzi.
Del resto i finanziamenti alle moschee ed ai centri culturali islamici rappresentano la minima quota del totale degli investimenti del Qatar in Italia. Grazie alla sua stabile partnership con la NATO, il Qatar ha acquisito ufficialmente lo status di Paese “rispettabile” che non rischia di andare incontro a sanzioni economiche, perciò, attraverso una lobby “italiana” ben strutturata e ammanigliata, questa petromonarchia, dopo aver acquisito il marchio della moda Valentino ed il complesso immobiliare di Porta Nuova a Milano, ha ulteriormente ramificato le sue attività nel campo del turismo, dove non mancano le occasioni per acquistare a prezzi stracciati alberghi, terreni ed altri immobili.
Di fronte alla preoccupata indignazione dei giornalisti, verrebbe da commentare: è la libera circolazione dei capitali, bellezza!
Razzismo anti-arabo ed islamofobia costituiscono un espediente per aggirare il vero problema e la vera soluzione al problema: l’afflusso di capitali esteri può sì rappresentare un momentaneo sollievo per la nostra bilancia dei pagamenti in deficit, ma comporta gravi effetti destabilizzanti per l’assetto sociale ed istituzionale di Paesi in stagnazione economica cronica come il nostro, perciò la soluzione consisterebbe nel limitare la mobilità dei capitali, non certo nel razzismo o nell’impedire alle donne l’uso di burka e burkini.
La locuzione “libera circolazione dei capitali” può vantare un sinonimo dal senso semplice e diretto: colonialismo.
Molti commentatori dell’establishment si lamentano del fatto che, nonostante gli incrementi, l’Italia veda un tasso di investimenti esteri ancora inferiore agli Stati Uniti ed alla Germania. Intanto però in Italia vi sono più investimenti esteri che in Brasile e quasi al livello dell’India. In realtà certe lamentele non hanno alcun senso, se non propagandistico, perché gli Usa e la Germania sono Paesi fortemente capitalizzati, nei quali gli investimenti hanno uno scarso potere condizionante. In Paesi poco capitalizzati come il nostro solo in minima parte i capitali esteri vanno infatti a finanziare attività produttive, in quanto sono soprattutto indirizzati all’acquisizione immobiliare ed alla fagocitazione della classe dirigente.
Ad esempio, con il patrocinio dell’Unione Europea, la Open Society Foundation di George Soros finanzia anche piani di borse di studio. In un contesto di impoverimento e dissesto dell’istruzione pubblica, questi piani così apparentemente innocui e filantropici costituiscono una vera e propria ipoteca sul futuro di un Paese. Le prossime generazioni si affacceranno alla gestione della società già “formate” in base agli interessi del colonialismo.
La libera circolazione dei capitali rappresenta uno dei cavalli di battaglia del sedicente liberismo, l’altro è la riduzione della spesa pubblica, considerata, specialmente in Paesi come il nostro, strutturalmente “inefficiente”. Il liberismo pretende di imporre una visione dell’economia come un processo “naturale” a cui adattarsi, ma è tutto da dimostrare che la natura sia “efficiente”. Anche la natura risulta piuttosto “sprecona” e la sua riproduzione avviene a prezzo di innumerevoli disastri e tentativi falliti, quindi la spesa pubblica potrebbe vantarsi di essere molto più “naturale” di quanto si voglia far credere; anche perché la stessa natura viene a riscuotere i suoi crediti nei confronti dei territori e dei popoli che li abitano senza riguardo ai pareggi di bilancio nella Costituzione.
Ma se si esce dagli ossimori liberisti, si comprende immediatamente l’importanza che riveste una riduzione della spesa pubblica per favorire la colonizzazione da parte dei capitali esteri. Meno soldi circolano in un Paese, più i capitali esteri vedranno aumentare il proprio potere contrattuale. La libera circolazione dei capitali presuppone quindi la limitazione della libertà degli altri. Nelle enciclopedie il liberismo andrebbe quindi tolto dalla voce “dottrine economiche” per essere inserito in quella di “propaganda imperialistica”.
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