Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Nel pieno dello scontro con Gianfranco Fini, Berlusconi ha lanciato un apparente diversivo mediatico, mettendosi in polemica con Roberto Saviano, lo scrittore/giornalista lanciato come fenomeno editoriale mondiale proprio dalla casa editrice di proprietà dello stesso Berlusconi.
È significativo che tutti gli indignati commentatori siano stati rigidamente al gioco delle parti, non rilevando l’incongruenza di un Presidente del Consiglio/editore che si lamenta per qualcosa che egli stesso ha contribuito in modo determinante a creare, e su cui ha lucrato ampiamente. I cinque o sei milioni di copie vendute, i diritti di traduzione e i diritti cinematografici del best-seller “Gomorra” sono andati infatti interamente a profitto di Berlusconi, dato che, per quel che se ne sa, Saviano ha avuto dalla Mondadori un contrattino standard per scrittori esordienti, senza percentuali sulle vendite.
Alla fine l’unico che è sembrato accorgersi della contraddizione, è stato lo stesso Saviano, che ha annunciato di voler ripensare il suo rapporto con una casa editrice il cui proprietario improvvisamente avrebbe scoperto che un libro da lui pubblicato anni fa costituisce un danno per l’immagine dell’Italia. Al contrario, i libri e i film di denuncia delle mafie sono serviti spesso a dare all’estero un’immagine positiva dell’Italia, in quanto Paese sì provato da gravissimi problemi interni, ma anche dotato di coraggio e di voglia di riscatto. Tutto il contrario dell’immagine frivola e cialtrona dell'Italia che invece tende a prevalere, e di cui Berlusconi costituisce oggi l’icona più disprezzata e derisa a livello internazionale.
Può darsi però che entrambe le immagini non solo siano fittizie, ma anche effetto della colonizzazione ideologica e territoriale di cui è stata fatta oggetto l’Italia. È avvenuto infatti che l’antimafia sia diventata il tema dominante per la sinistra, allo stesso modo in cui l’antiterrorismo lo è per la destra. Ma il torvo fantasma del terrorismo per la destra non costituisce altro che una controfigura per evocare il vero nemico, cioè i poveri. Il problema è che però anche la sinistra ha eletto a suoi nemici i poveri, rappresentati caricaturalmente nella forma dell’aberrazione costituita dalla criminalità organizzata.
Per sedare le coscienze della ex sinistra, orfana del nemico di classe, Saviano ha inventato il mito della “camorra imprenditrice”, un surrogato fiabesco della vecchia borghesia sfruttatrice. In realtà la imprenditoria legata alla camorra è pur sempre dipendente dai potentati finanziari per il riciclaggio del suo denaro, perciò presentarla come un soggetto economico autonomo costituisce appunto una forzatura propagandistica alquanto sospetta. Il metodo-Saviano consiste in molte mezze verità ed in alcune oculate omissioni che, tutte insieme, producono una menzogna gigantesca, tale da affascinare solo una “sinistra” molto, ma molto, addomesticata.
Infatti, dopo la pubblicazione di “Gomorra”, per circa un anno il segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, fece coppia fissa insieme con Saviano in una serie di manifestazioni pubbliche, girando in lungo e in largo la Campania, senza però dare mai segno di notare la presenza di quindici basi militari straniere; e senza, perciò, mai domandarsi se questa occupazione militare del territorio campano possa avere qualcosa a che fare con il potere della criminalità organizzata. Oggi la principale base militare statunitense in Campania è proprio il porto di Napoli, praticamente monopolizzato dalla U.S.Navy e sottoposto a rigoroso segreto militare. A completare il quadro, la Legge 123/2008, all’articolo 2 comma 4, ha posto sotto segreto militare anche le discariche civili di rifiuti. Possibile che tutta questa occupazione militare, e il relativo segreto, non abbiano proprio nulla a che vedere con la criminalità organizzata in Campania?
Un luogo comune politico e giornalistico ormai consolidato è che il sottosviluppo meridionale sia dovuto alla criminalità organizzata, ma costituisce un dato ufficiale il fatto che le principali strutture portuali del Meridione, da Napoli a Taranto, siano state in gran parte sottratte al traffico commerciale legale e consegnate al traffico militare statunitense, quindi ai traffici illegali coperti dal segreto militare. Di questi dati ufficiali non c'è traccia sulla stampa, e tantomeno negli scritti di Saviano.
Lo strabismo filo-statunitense di Saviano ha avuto modo di esercitarsi anche nei suoi tour all’estero, quando ha accusato delle organizzazioni di guerriglia come l’ETA basca e le FARC colombiane di essere colpevoli di traffico di cocaina. Nel caso dell’ETA, Saviano ha avuto l’onore di essere prontamente e categoricamente smentito dallo stesso governo spagnolo, mentre, per le accuse alle FARC, il governo filo-statunitense della Colombia ha incassato favorevolmente questo avallo alla propria propaganda da parte di uno scrittore famoso, che passa per essere di sinistra.
In Colombia però non ci sono soltanto le FARC, ma anche numerose basi militari USA, che si apprestano a diventare ancora di più (vedi Manuale del Piccolo Colonialista n°15). Secondo le agenzie specializzate dell'ONU, la cocaina parte dalla Colombia (guarda caso, occupata dagli USA) ed arriva al porto di Napoli (casualmente controllato dagli USA). Allo stesso modo, l’oppio parte dall’Afghanistan, occupato dagli USA, e transita per il Kosovo, occupato dagli USA con una delle più grandi basi militari del mondo, Bondsteel (vedi Manuale del Piccolo Colonialista n°8). Da Bondsteel l'oppio raffinato approda poi a Napoli, che è la colonia militare statunitense per eccellenza dal 1943.
Ovviamente sono soltanto coincidenze del tutto casuali, tanto è vero che i rapporti ONU si guardano bene dal rilevare questa strana onnipresenza statunitense sui luoghi del delitto di narcotraffico. Quando si tratta degli Stati Uniti anche il più concreto e ricorrente degli indizi diventa irrilevante, mentre ad Obama basta annunciare che di qui a poco Al Qaeda potrebbe avere l'atomica, e tutti gli credono sulla parola, senza chiedere la benché minima pezza d'appoggio all'affermazione.
In un solo caso un esponente della sinistra istituzionale asserì l’esistenza di una relazione diretta tra la mafia e l’occupazione militare statunitense del territorio. Questa persona fu il siciliano Pio La Torre, segretario regionale del Partito Comunista, all’interno del quale militava nell’ala più destrorsa: i “riformisti” capeggiati da Amendola e Napolitano. La Torre lanciò anche una manifestazione in cui la lotta alla mafia si collegava all’opposizione contro la base missilistica NATO a Comiso.
Un quarto di secolo dopo, l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga ci spiegò candidamente che era stata la mafia ad incaricarsi di costringere i proprietari a cedere a prezzi stracciati i terreni su cui sarebbe sorta la base militare di Comiso; lo stesso Cossiga aggiunse di aver usato quella circostanza come strumento di ricatto per far cessare negli USA una campagna giornalistica contro di lui. Quindi il collegamento tra militarizzazione e criminalità organizzata individuato da La Torre non era astratto, ma si stava manifestando sotto gli occhi dei Siciliani.
Nel 1982 Pio La Torre fu assassinato insieme con il suo autista Rosario Di Salvo. Nell’aereo che lo portava a Palermo per assistere ai funerali del segretario regionale assassinato, il segretario generale del Partito Comunista, Enrico Berlinguer, rilasciò un’intervista televisiva in cui non riuscì a dissimulare la sua evidente indifferenza per la sorte di La Torre. Era chiaro che La Torre aveva creato un enorme imbarazzo al partito, riportando al centro dell’attenzione la lotta alla NATO, non più in nome di un antimperialismo generico, ma sulla base della denuncia di un’evidente colonizzazione militare/criminale del territorio siciliano. Per un PCI che aveva ormai accettato la NATO, costituiva una contraddizione intollerabile vedersi riproporre, da un esponente in vista del partito, la lotta alla NATO in termini così concreti; perciò la morte di La Torre costituì una comoda soluzione al problema. Successivamente all’uccisione di La Torre, il PCI siciliano infatti si guardò bene dal ricollegare la questione della mafia a quella della NATO, e per la prima metà degli anni ’80 continuò una svogliata opposizione ai missili sulla base del solito generico pacifismo.
Negli anni ’70 e ’80 il crescendo della propaganda antimafia doveva servire appunto a dissimulare la crescente occupazione militare statunitense del territorio italiano, e quindi era da considerare off limits per giornalisti e politici qualsiasi collegamento tra i due fatti.
Nel 1986, nel corso del maxiprocesso a Cosa Nostra, il boss Michele Greco lanciò un’ironica battuta nei confronti del pentito Tommaso Buscetta, dicendo che se questi avesse visto il film “I Dieci Comandamenti”, invece de “Il Padrino”, non avrebbe fatto certe affermazioni. La battuta era sin troppo facile da decodificare, dato che il film “Il Padrino” rappresentava la nuova linea della psico-guerra coloniale statunitense nei confronti dell’Italia; una linea tendente ad enfatizzare il pericolo mafioso, in modo da rappresentare un’Italia occupata da un nemico interno, piuttosto che esterno. “I Dieci Comandamenti” a cui si riferiva Greco, riguardavano invece l'antico comandamento del segreto mafioso, che imponeva di dichiarare l’inesistenza di Cosa Nostra. Ma il segreto mafioso, nell'estendersi dell'occupazione coloniale USA, doveva lasciare il passo al segreto militare.
È quindi possibile che la sortita anti-Saviano operata da Berlusconi non fosse un diversivo rispetto al contrasto con Fini, ma un avvertimento alla Cossiga - forse suggerito dallo stesso Cossiga - nei confronti dei protettori di Fini, da individuare negli Stati Uniti.
Agli inizi dell’ultimo febbraio Gianfranco Fini aveva fatto un viaggio negli USA, dove era stato ricevuto dal vicepresidente Biden e salutato da commenti celebrativi della stampa americana. Nel frattempo Berlusconi si trovava in Israele, dove lanciò la sua contromossa nei confronti dell’avversario, mettendo allo scoperto i veri motivi per cui era stato accolto così favorevolmente a Washington. Berlusconi attaccò l’Iran, annunciando che l’ENI avrebbe presto abbandonato tutti i suoi investimenti in quel Paese. Il messaggio di Berlusconi non poteva essere più chiaro: non avete bisogno di Fini per disciplinare e privatizzare l’ENI, è un lavoro che posso benissimo fare io.
Di fatto Berlusconi, in obbedienza alle direttive del Fondo Monetario Internazionale, ha privatizzato in Italia quasi tutto ciò che si poteva privatizzare: l’acqua, i patrimoni immobiliari delle Università e del Demanio dello Stato, i beni culturali; ora si prepara persino la privatizzazione degli scavi di Pompei, dapprima commissariati con il pretesto di infiltrazioni camorristiche, ed ora in via di affidamento ad una fondazione privata, cioè alle multinazionali. Berlusconi però non è ancora riuscito a privatizzare la ricca cassaforte dell’ENI, che pur essendo una SPA, rimane a capitale pubblico. Oltre che una cassaforte finanziaria, l'ENI costituisce anche una cassaforte tecnologica, poiché è all'avanguardia nelle tecniche di costruzione dei gasdotti. Niente di strano che le multinazionali anglo-americane vogliano non solo neutralizzarla come concorrente, ma anche inglobarla.
Gli USA non dubitano della sottomissione di Berlusconi alle direttive del FMI, e certo non credono alle scemenze di Paolo Guzzanti sul presunto asse con Putin, ma sono scettici sul fatto che il labile equilibrio psicofisico dell’Uomo di Arcore consenta di affrontare un avversario ostico come l’ENI, dotato di solidi e storici agganci affaristici nelle Forze armate e nei servizi segreti, sia civili che militari. Ora che teme di essere scaricato, Berlusconi lancia avvertimenti ai suoi padroni minacciando di far trapelare qualcosa sui legami tra NATO e criminalità organizzata. Ma Berlusconi ha più la dimensione del fantoccio che la grinta dei servitori degli USA di vecchia generazione, come Cossiga, e quindi la sua minaccia potrebbe rivelarsi velleitaria.
La rappresentazione mediatica del cosiddetto “Piano FIAT” procede sulla linea del “Marchionne santo subito”. Nessuna sorpresa è risultata dall’atteggiamento dei quotidiani “di opposizione”, come “La Repubblica”, che sono stati i più solerti ed entusiasti nel prosternarsi al nuovo culto della personalità in voga, cioè quello nei confronti dell’attuale Amministratore Delegato della FIAT. Qualcuno ricorderà che, due anni fa, proprio “La Repubblica” si incaricò di dirigere un’analoga fanfara mediatica di santificazione nei confronti di Guido Bertolaso, da un po' precipitato dagli altari, anche se non dalle sue ormai scoperte posizioni di potere affaristico-criminale.
Dato che adesso si pretende da più parti di poter fare opposizione conformandosi alle verità ufficiali, non desta nessuna sorpresa neppure il fatto che anche un intellettuale in odore di dissenso ed eresia, come il politologo Marco Revelli, non abbia voluto mancare alla celebrazione del santo del momento, e sia andato a “Repubblica-Radio TV” ad esprimere prono ammirati commenti sul “nuovo linguaggio” di Marchionne e sull’audacia imprenditoriale dei suoi piani quinquennali.
Tra un inno di lode e l’altro, la fiaba mediatica non manca però di dettagli toccanti, su cui gli stessi giornalisti/narratori si commuovono sino alle lacrime: il povero Marchionne vorrebbe trasferire a Pomigliano D’Arco la produzione della Panda, e investirci pure settecento milioni di euro, ma la cattivissima FIOM gli nega quel po’ di “flessibilità” di cui avrebbe bisogno; e pensare che in Polonia il diciottesimo turno per gli operai FIAT è da tempo una pratica abituale, ma meno male che ci sono la CISL e la UIL, che già si sono dichiarate pronte all’accordo.
Fortunatamente Marchionne è sì un dio giusto e buono, ma anche vendicativo quel tanto che occorre, e infatti annuncia che, in caso di mancato accordo, sarebbe pronto a sbaraccare tutto e trasferire la produzione interamente all’estero. E come si farebbe a dargli torto, poverino, dopo tutti i dispetti che ha dovuto subire? Quindi ben venga un Dies Irae a far giustizia degli operai retrogradi e sfaticati, che si dimostrano recalcitranti a versare la loro elemosina ai ricchi bisognosi.
Nelle “Democrazie Occidentali” l’assistenzialismo per ricchi costituisce il vangelo economico unico ed esclusivo, perciò il punto di vista operaio non esiste, e la posizione dei lavoratori non viene ritenuta degna di ascolto, se non nei casi in cui i media riescano a scovare l’operaio che davanti alle telecamere dia ragione al padrone. La resistenza operaia non può mai avere delle ragioni basate su valutazioni realistiche, ma viene immancabilmente catalogata come ottusa e meschina resistenza al “progresso”, cioè all’interesse dei ricchi.
Gli spettatori dei telegiornali e i lettori dei quotidiani non devono perciò essere neppure minimamente sfiorati dal dubbio che si stia ripetendo quanto più volte visto in passato, e cioè che il maggiore sfruttamento della manodopera di Pomigliano sia proprio ciò che serve a Marchionne per accumulare quel po’ di scorte che gli permetta di chiudere lo stabilimento ancora più alla svelta. Tanto la colpa non sarebbe mai sua, ma del ”Mercato”, che è la divinità superiore che presiede a queste cose, e che potrebbe sempre imporre a Marchionne di recedere dalle sue buone intenzioni in nome dello “stato di necessità”. In fondo anche gli dei dell’Olimpo dovevano inchinarsi ai voleri del Fato.
Dubitare delle buone intenzioni dei ricchi una volta era considerato come lotta di classe, mentre oggi viene etichettato con disprezzo come “teoria del complotto”. Ma, una volta tanto, il cambio non è sfavorevole, poiché la lotta di classe raramente si presenta come uno scontro sociale frontale, ma molto più frequentemente consiste in un complotto dei ricchi contro i poveri.
Che il complotto dei ricchi stavolta ci sia, eccome, è indicato proprio dalla sospetta unanimità mediatica nel cantare le lodi di Marchionne. È realistico che nessuno sia sfiorato dal sospetto che il Piano Marchionne possa essere il solito cumulo di panzane per giustificare la riscossione dei soliti finanziamenti statali e l’imposizione di ritmi di lavoro ancora più serrati?
Nessuno si domanda come faccia Marchionne a stabilire con tanta precisione il numero di auto che il dio Mercato vorrà assorbire nei prossimi cinque anni? Glielo ha detto il dio Mercato in persona?
Anni fa, quando la FIAT era vicina al disastro e tentava di vendersi al miglior offerente, le altre case automobilistiche non ne volevano sapere, ma erano interessate esclusivamente al settore dei camion (Iveco) ed a quello dei trattori (New Holland), che erano i soli a risultare appetibili. Guarda caso, nel Piano Marchionne l'unica indicazione concreta riguarda proprio lo scorporo del settore-camion. Ma questi spezzatini di solito non preludono ad acquisizioni da parte di altre multinazionali, come sta avvenendo con Alitalia?
Se nessun commentatore si fa di queste domande, è perché non è né previsto, né consentito, dal copione mediatico. È chiaro che i panegirici e le fiabe su San Marchionne servono a coprire le consuete pratiche di saccheggio del denaro pubblico e di asservimento del lavoro. La storia della FIAT dimostra che questa multinazionale non ha mai avuto nulla da farsi insegnare da nessuno sull'arte di mungere il denaro pubblico senza dare contropartite sociali. Dato che questa sordida storia aziendale potrebbe rendere diffidente una parte della pubblica opinione, ciò spiega perché i media insistano tanto sul carattere nuovo ed inedito della personalità di Marchionne e del suo piano, i quali, nell'attuale fiaba mediatica, rappresenterebbero una rottura radicale con il losco passato della FIAT.
Il fatto poi che la FIOM oggi sia iscritta senza remissione dai media nell’albo dei cattivi, non deve comunque illudere sulle effettive intenzioni del suo gruppo dirigente. Rispetto ai sindacati metalmeccanici della CISL e della UIL, la federazione dei metalmeccanici della CGIL è la sola a dover fare i conti con una reale base operaia, quindi non può, per il momento, ignorare le diffidenze ed i malumori dei lavoratori nei confronti di un piano aziendale che si presenta come la ennesima presa in giro. C’è però da esprimere dubbi sulla prospettiva che la FIOM lanci una controffensiva di informazione rispetto alla subdola vacuità del Piano Marchionne, e lanci sul piatto l’unica proposta seria, cioè di usare le risorse finanziarie pubbliche non a beneficio della proprietà della FIAT, ma per una nazionalizzazione dei suoi stabilimenti italiani. Anche nella lontana ipotesi che qualcuno all’interno del gruppo dirigente della FIOM ne avesse davvero l’intenzione, non appena si indicasse questa strada, ci si troverebbe a far da bersaglio a provocazioni e ricatti di ogni genere, a partire dalle ovvie e prevedibili accuse di connivenza con il terrorismo. Un po’ troppo per dei burocrati che concepiscono il sindacato soltanto come un trampolino per carriere personali.
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