Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
L’accordo economico venticinquennale tra Cina e Iran ha segnato l’ennesima debacle della politica estera statunitense, che oggi è diventata tutta il contrario del classico “divide et impera”. Moltiplicando artificiosamente i suoi nemici, l’imperialismo USA ne favorisce di fatto l’alleanza, per cui potenze minori possono allargare il loro spazio di influenza.
Le cialtronate di Trump c’entrano solo sino ad un certo punto, considerando che il candidato presidente che dovrebbe sostituirlo, Joe Biden, è anch’egli una figura inconsistente. La notte elettorale in cui si deciderà lo zimbello di turno della Casa Bianca nei prossimi quattro anni, sarà seguita in Italia con pathos e trepidazione ed ascolteremo Salvini o Zingaretti salutare la vittoria di Trump o Biden come propri trionfi personali. Ma questo è solo un ulteriore risvolto ridicolo della questione, il più marginale. Il punto vero è che il sistema USA sta da decenni tagliando l’erba sotto i piedi ad ogni possibilità di guida politica da parte dell’amministrazione centrale.
Per spiegare la maggiore lucidità strategica e tattica della Cina nei confronti degli USA, si può adottare come criterio di analisi quello classico del seguire i soldi. Il principale avversario degli USA, la Cina, ha una guida centrale piuttosto stabile e forte: il partito. La dirigenza cinese è stata ammaestrata dalle sventure del povero Michail Gorbaciov, fatto fuori dalla sua creatura, la multinazionale energetica Gazprom. In Cina perciò il partito non si riserva il semplice controllo politico sull’economia, bensì si assicura la presenza fisica dei funzionari del partito in tutti i luoghi dove si esercita la gestione delle aziende e delle banche, in modo da avere le mani in pasta in tutti gli svincoli dove il denaro passa o viene creato.
Negli USA, diversamente dalla Cina, la gestione dell’economia è appannaggio di agenzie federali autonome, il cosiddetto “deep State”. In un libro del 1970, “Pentagon Capitalism” di Seymour Melman, si spiegava come il vecchio “complesso militare-industriale” dei tempi del presidente Eisenhower era stato sostituito nel corso degli anni ’60 da un sistema di gestione economica con al centro il Pentagono. L’enemy business non era più un dato informale, ma aveva assunto una precisa rete di comando che convogliava alle aziende private i fondi stanziati dal Congresso e li sollecitava attraverso il lobbying. L’autore del capolavoro era stato un ex manager della Ford diventato Segretario alla Difesa, Robert McNamara. Il “deep State” era diventato anche il “deep capitalism”.
Il modello ha riscosso successo, tanto da essere replicato da un’altra agenzia federale, la National Security Agency. La NSA non è soltanto il principale investitore in Silicon Valley ma è soprattutto un sistema integrato con tutte le aziende high-tech, attraverso il collaudato metodo del “revolving door”, la porta girevole dei dirigenti dal pubblico al privato e viceversa. Un caso clamoroso di porta girevole tra Facebook e NSA ha provocato particolare perplessità, ma rappresenta un mero episodio in un andazzo generale.
Nei confronti del Pentagono, la NSA ha un vantaggio in più, poiché può convertire la sua attività di spionaggio planetario in insider trading nelle Borse. Non si tratta più soltanto di riscuotere e convogliare fondi pubblici, dato che i soldi possono essere creati attraverso le speculazioni finanziarie. Nel 2014 trapelarono delle notizie circa le speculazioni alla Borsa delle merci da parte di un ex direttore della NSA, il generale Keith Alexander, che però era già in pensione dal 2013. Il caso fu minimizzato nei termini di un arricchimento personale, che certamente c’era, ma si glissò sul problema più importante, cioè il potere della NSA nel creare e distruggere i valori di Borsa.
Chi si immagina che oggi la vita da pensionato di Keith Alexander consista nello starsene al parco seduto su una panchina, non ha ancora ben capito come funziona il sistema. Grazie ai soldi ed alle tecnologie razziate alla NSA, l’ex generale Alexander è diventato il fondatore e gestore di una società privata specializzata nel business della difesa dalle minacce informatiche, che oggi è tra le più quotate del mondo ed ha tra i suoi clienti persino Wall Street. Non viene denunciato a riguardo nessun conflitto di interessi ed in base alla logica della porta girevole, il business è perfettamente legale.
La CIA ovviamente non è da meno della NSA, ed ha anche pensato di conferire al tutto un alone ancora più legale, istituendo una società non profit, la In-Q-Tel (“Q” è il personaggio che fornisce i gadget tecnologici a James Bond). La In-Q-Tel infatti investe in aziende “promettenti” di Silicon Valley e i suoi investimenti sono, stranamente, sempre un successone. Il non profit non vincola i dirigenti della In-Q-Tel e della CIA, che possono tranquillamente operare le loro speculazioni finanziarie a livello personale.
CIA e NSA non si limitano ad investire, infatti possono creare il valore delle aziende. Un testo del 2018, “Surveillance Valley” di Yasha Levine, illustra il funzionamento del sistema integrato con Silicon Valley che permette alla NSA di raccogliere informazioni in tutto il pianeta. L’attentato alla privacy viene fatto apparire come il problema maggiore; in realtà lo spionaggio industriale garantito dalle spie professioniste della NSA consente di “miracolare” determinate aziende facendo loro acquisire tecnologie e valore.
In USA esiste quindi un sistema di potere in cui non c’è nessun confine tra legale ed illegale, e neppure tra pubblico e privato: ci sono lobby che possono interpretare tutte le parti in commedia grazie alla corruzione legalizzata. La porta girevole ha dissolto la nozione stessa di Stato come viene teorizzata nei manuali di Diritto, perciò non può esistere una strategia degli USA ma solo un lobbying che spadroneggia e rincorre i vari business. Che la Casa Bianca sia riservata ai cialtroni che devono fare scena e strepito ad uso dei media, è quindi scontato, mentre i soldi che muovono tutto, stanno altrove e si creano altrove.
Da qualche giorno anche i media mainstream hanno scoperto che il Recovery Fund comporta condizionalità molto più dure e stringenti di quelle del MES. Questa scoperta dell’acqua calda è stata subito utilizzata per riciclare l’ipotesi di un accesso dell’Italia ai fondi del MES, che avrebbero come condizione “soltanto” di essere indirizzati a spese, direttamente o indirettamente, di tipo sanitario.
I timori nei confronti del MES sarebbero dettati dall’irrazionale, dal ricordo della sorte della Grecia, mentre adesso le cose starebbero diversamente. Persino l’argomento di Giulio Tremonti, secondo il quale se l’Italia accedesse al MES si beccherebbe le stimmate del Paese ridotto alla canna del gas, sarebbe superato, in quanto gli “investitori” sanno che i fondi del MES sono privi di vere condizionalità, perciò non ci sarebbe alcun motivo per far salire lo spread sui titoli del debito pubblico italiano.
Questo contro-argomento presuppone una visione idealizzata del cosiddetto “investitore”, in effetti uno speculatore. E se invece gli “investitori” si rivelassero anch’essi irrazionali? Se anche in loro l’immagine del MES risvegliasse fantasmi del tragico passato greco? E se gli “investitori” addirittura fingessero soltanto di essere “irrazionali” pur di spillare interessi più alti? In fondo è il loro mestiere.
In realtà il Recovery Fund è ancora tutto nel mondo dell’immaginazione e potrebbe anche non farsene nulla. Il fatidico e proverbiale “stellone” dell’Italia potrebbe ancora giungere a salvare il nostro Paese dall’irresponsabilità criminale delle sue classi dirigenti. Il MES invece sta veramente lì, è una cosa concreta e, una volta che ci sei incappato, non basterebbe un po’ di fortuna per sfuggire dalla rete.
Il punto però è che la questione delle “condizionalità” è un falso problema, poiché sposta tutte le preoccupazioni soltanto verso l’esterno. Il vero problema è invece che, se anche le condizionalità non ci fossero, le nostre classi dirigenti se le inventerebbero comunque. Ogni vincolo europeo, autentico o fasullo che sia, è infatti un modo per ricattare e umiliare le proprie classi subalterne, annunciando loro che il bengodi (?) è finito e che da ora occorre fare sul serio. Come era prevedibile, Confindustria non si è fatta sfuggire l’occasione del Recovery Fund per invocare le “riforme strutturali”, come se in questi ultimi venticinque anni non se ne fossero già messe in campo parecchie. Dal “Pacchetto Treu” alla Legge 30/2003, alle leggi e leggine di Sacconi, al “Jobs Act”: le riforme del lavoro in Italia si sono sprecate e l’agognata “flessibilità” non è mai arrivata ad essere abbastanza flessibile; ed era logico che così fosse, poiché non è la flessibilità il vero obbiettivo.
Nel mondo ideale dipinto dai media mainstrean non esistono conflitti di interessi e tutti i potenti sono razionali e benintenzionati, perciò il ruolo del cattivo è riservato ai “sovranisti”, i babau che potrebbero farci ripiombare nella barbarie. Le accuse politicorrette al sovranismo di rappresentare un nuovo fascismo, sanno molto del bue che dice cornuto all’asino. Ci si accorge poi che il sovranismo come soggetto politico non esiste, e non esistono neppure veri partiti sovranisti ma solo giochi di ruolo. I vari Salvini, Meloni e Le Pen alternano gradassate e cali di brache; ma soprattutto si incaricano di alimentare l’equivoco di interpretare come scontro tra nazioni quella che invece è una questione di scontro di classe.
Il cosiddetto “sovranismo” ha finito quindi per consolidare il mito dei “vincoli europei”, come se questi davvero provenissero dalla severissima e avara Germania e dalla sua corte di staterelli canaglia. Negli anni ’70 fu invece un italiano, Ugo La Malfa, a lanciare lo slogan dell’Italia come Paese che vivrebbe al di sopra dei suoi mezzi; ed allora il “fardello” del debito pubblico non c’era ancora, e quindi la storiella dei governi italiani che viziano i propri cittadini gonfiando la spesa pubblica, non trovava nessuna pezza d’appoggio. Non bisogna sopravvalutare la fantasia dei Tedeschi, che non sono tutti dei Goethe. Per imporre la fiaba del Paese che vive al di sopra dei suoi mezzi, ci voleva il genio italico di Ugo La Malfa, un uomo di Mediobanca; e fu proprio lui a convincere di quella nuova fiaba i partner europei, che sino ad allora ci avevano considerato soltanto degli straccioni. Ciò che determina l’influenza di un politico non è la sua dote di voti ma il suo rapporto coi media. Grazie al suo rapporto privilegiato coi media, e interpretando la parte del messaggero di verità scomode ma necessarie, Ugo La Malfa è riuscito a orientare la politica pur con solo il 2% dei voti. I media non fanno i voti, ma fanno la “realtà”, quella rappresentazione fittizia del mondo in cui i voti vanno ad impantanarsi.
A metà degli anni ’70 fu il politologo Giorgio Galli a notare per primo il ruolo svolto da Ugo La Malfa nel deteriorare l’immagine dell’Italia in Europa. La formula del Paese che vive al di sopra dei suoi mezzi, in effetti non fu un’invenzione originale di Ugo La Malfa, poiché era stata lanciata dal Fondo Monetario Internazionale già dal 1946 ed applicata indifferentemente a tutti i Paesi. Ad Ugo La Malfa spetta però il ”merito storico” di aver appiccicato quell’etichetta all’Italia e di averla resa indiscutibile nel dibattito pubblico.
Il “vincolo esterno” è in realtà un vincolo interno. Abbiamo una classe dominante che svaluta un Paese pur di svalutarne le classi subalterne ed il loro lavoro. Si chiama: aggiotaggio sociale. L’aggiotaggio è il reato che consiste nel diffondere false informazioni per determinare la caduta del valore di titoli o merci. In questo caso l’oggetto della svalutazione è il lavoro.
La “sinistra morale” non è mai riuscita a comprendere questo gioco, poiché l’aggiotaggio sociale, cioè la svalutazione del lavoro, ha scelto una via indiretta: non attaccare direttamente la classe operaia ma il contesto che le sta intorno. Se un intero Paese è arretrato, corrotto e corporativo, allora lo sarà anche il suo lavoro. Ci pensano poi i media mainstream a salvare gli “imprenditori” dalla comune condanna. Non è stato proprio un leader d’opinione della “sinistra morale”, Roberto Saviano, a presentarci Confindustria come l’argine contro l’infezione mafiosa?
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