Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Sarebbe improprio parlare di “crisi” del PD e del renzismo, in quanto si sta parlando di esperienze politiche nate già morte, programmate per consumarsi in brevi lassi di tempo. Le esperienze politiche si valutano anche in base alle “opposizioni” che suscitano e sono proprio queste opposizioni a mancare.
Il leader in pectore del nuovo centrosinistra, l’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, è pienamente rappresentativo di queste false alternative già destinate al declino senza mai essersi rette in piedi. In uno dei suoi discorsi di auto-candidatura, Pisapia si è prodotto in una “presa di posizione” sul tema dei diritti del lavoro e dell’articolo 18, ricorrendo alla stessa identica pseudo-aneddotica che aveva caratterizzato il Renzi del 2013, anche lui all’epoca “contrario” all’abolizione dell’articolo 18. Pisapia ha narrato di una sua presunta esperienza di sindaco a contatto con potenziali investitori stranieri, nessuno dei quali avrebbe opposto difficoltà ad investire in Italia a causa dell’articolo 18, semmai per la “burocrazia” e le “le lentezze della Giustizia”.
È difficile immaginare degli investitori stranieri davvero preoccupati per le disfunzioni della Giustizia, dato che, se la Giustizia funzionasse, sarebbero tutti in galera da tempo. Non è solo in Italia che le “lentezze” della Giustizia assicurano l’impunità ai potenti e, se non bastano quelle, ci pensa la pavidità dei magistrati. Se ne sono visti di cavilli nelle sentenze a favore delle multinazionali. La magistratura gode del privilegio mediatico di essere santificata in blocco a causa del sacrificio di pochi eroi; il contrario di ciò che avviene per gli insegnanti, rispetto ai quali pochi sfaticati servono a screditare tutti gli altri. Del resto gli insegnanti costituiscono un ottimo bersaglio fisso per campagne mediatiche ostili, dato che la categoria docente è la più vincolata ideologicamente alla vigente parodia del politicamente corretto, dalla mitologia europea alla retorica della “legalità”.
Ma il vero paradosso della posizione di Pisapia consiste nel considerare un errore l’abolizione dell’articolo 18 in funzione
dell’assunto che agli investitori ciò non interessava. Ne consegue che per Pisapia devono essere comunque gli investitori a dover dettare la linea politica e quindi il compito della politica non è mediare tra interessi diversi, bensì quello di scrutare gli autentici desiderata degli “investitori”.
L’opinione progressista non è in grado di cogliere queste incongruenze poiché, in base alla vigente parodia del politicamente corretto, l’avere forti convinzioni è sempre sospettabile di intolleranza e dogmatismo; e ciò sarebbe disdicevole per un “animabellista”. Non ci sarà quindi da stupirsi se un domani Pisapia adottasse anche lui misure contrarie ai diritti del lavoro, ovviamente in nome dell’antidogmatismo. Anche l’imminente colpo di Stato in Venezuela, ad opera del Dipartimento di Stato USA e delle sue ONG, sta trovando un terreno favorevole nell’opinione pubblica occidentale, perciò anche un golpismo di “sinistra” contro il “dittatore” di turno potrà vantare le sue giustificazioni in considerazione della necessità di non essere “dogmatici”. Si è visto nel 2011 con l’interventismo anti-Gheddafi cosa sia capace di inventarsi la “sinistra” fanatica dell’antidogmatismo.
In questo contesto non c’è da stupirsi se l’aggressività comunicativa di Salvini all’insegna del politicamente scorretto riscuota più consensi. Ma Salvini può facilmente affondare il coltello nel burro irrancidito di una politica attaccata alla parodia del politicamente corretto, o nell’ipocrisia codina di giornalisti come Rampini e Padellaro, costretti a far finta di credere ad una fesseria conclamata come il Russiagate.
Il problema è che la retorica antimigratoria di Salvini non solo santifica i confini nazionali ma si arresta ai confini nazionali. Una politica che si ponga come massimo obiettivo quello di alzare muri o chiudere porti, è una politica che si autolimita al controllo sui corpi e non si azzarda ad entrare nel campo minato del controllo sui capitali. Eppure sono proprio i capitali a muovere i corpi.
Il rapporto tra diaspora migratoria e microfinanza è stato ampiamente teorizzato e programmato; e ciò non nei verbali segreti di combriccole di buffoni come il Bilderberg o la Trilateral, bensì in documenti ufficiali delle istituzioni sovranazionali. In un documento della Banca Mondiale del 2006, reperibile su internet, si fa esplicito riferimento al controllo della migrazione attraverso le pratiche della microfinanza, cioè la “inclusione” finanziaria forzata dei migranti. Il prefisso “micro” non deve fuorviare poiché si sta parlando di grossi business. Nel documento della WB vengono schematicamente delineate le opportunità di business a partire dal target femminile. Visto che la migrazione ha prodotto un gran numero di famiglie transnazionali, anche i milioni di rimesse dei migranti costituiscono una preda per le operazioni della grande finanza. La Banca Mondiale parla persino del ruolo delle ONG nella finanziarizzazione delle masse da spingere alla diaspora con la trappola del microcredito ai poveri. I poveri sono costretti ad emigrare non perché poveri, ma perché sono indebitati con le ONG e l’emigrazione rappresenta l’unica chance di pagare i debiti. Quando le ONG “salvano” i migranti in mare, in realtà stanno salvando i propri crediti.
Miliardi di poveri nel mondo vengono sfruttati e controllati attraverso il microcredito che rappresenta il vero business del futuro, quello verso cui i capitali corrono senza ritegno. In questo mega-business ai danni dei poveri, le ONG costituiscono solo il veicolo e lo strumento delle grandi multinazionali del credito. Nel 2009 è stata nientemeno che JP Morgan ad ospitare il grande evento di lancio della campagna mondiale per il microcredito. La notizia è reperibile su internet, quindi non c’è nulla di segreto, c’è solo molto conformismo nel far finta di non vedere. Anche di fronte all’evidenza ci sarà sempre l’imbecille che ti accuserà di “complottismo”, ma alla fine l’evidenza qualcosa dovrebbe pur contare.
Salvini eccita il suo elettorato “animabruttista” prospettandogli l’esperienza ludica del dare la caccia ai migranti, perché la caccia ai capitali sarebbe meno divertente e più pericolosa, perciò la lascia ai posteri. La parodia del politicamente corretto impone di far finta di credere che la migrazione costituisca un fenomeno spontaneo; ma la destra “politicamente scorretta” rimane anch’essa nei confini di questo falso mantra.
Sebbene i media lo abbiano detto solo incidentalmente, si è immediatamente notato che il nocciolo “hard” del recentissimo Decreto del governo Gentiloni presentato come un provvedimento per il Sud, era costituito in realtà dal via libera alla multinazionale tedesca Flixbus. Il caporalato digitale rappresenta uno dei business multinazionali del futuro e Flixbus ha superato Uber, poiché ha allargato la nozione di caporalato digitale dai semplici autisti addirittura alle aziende di trasporti. Dalla pauperizzazione del lavoro si è passati alla pauperizzazione del ceto medio.
La retorica meridionalista è servita quindi ad una pura operazione di lobbying a favore di una multinazionale. Per quanto riguarda la parte del Decreto che incentiva la formazione di nuove aziende al Meridione, il trucco sottostante è sempre lo stesso: si prevedono certi incentivi ma questi possono essere prontamente ritirati se i progetti non partono in tempo. In base ai dati, mai smentiti, di un’agenzia ufficiale come lo Svimez, i tagli di spesa pubblica sono stati storicamente più intensi al Meridione e gli ultimi governi hanno confermato la tendenza. Storicamente la pauperizzazione del Sud ha quindi svolto la funzione di strumento deflattivo a vantaggio della finanza. La deflazione preserva il valore dei crediti e rende impagabili i debiti, incentivando la spirale dell’indebitamento.
Ci sarebbero gli estremi per parlare di colonialismo, ma la vigente parodia del politicamente corretto non lo consente poiché il denunciare la colonizzazione rende sospetti di “nazionalismo”. Il “politicamente corretto” era nato negli anni ’80 come tentativo di bon ton comunicativo in chiave soprattutto antirazzistica, in modo da evitare tutti i giudizi e gli epiteti a carattere liquidatorio che non riconoscessero i punti di vista diversi. La metamorfosi del “politicamente corretto” data agli anni ‘90, che si sono conclusi con la prima guerra “politicamente corretta”: l’aggressione della NATO alla Serbia per il Kosovo. Da anni il “politicamente corretto” è diventato tutt’altro rispetto alle origini, cioè si è trasformato in una rappresentazione del mondo caricaturale, nella quale da una parte ci sono la democrazia, i diritti umani e la cooperazione internazionale, dall’altra ci sono il fanatismo religioso, il nazionalismo e le dittature. In questo quadro non sono contemplati il colonialismo e l’imperialismo, anzi il citarli fa rischiare non solo di essere annoverati come nazionalisti, ma anche come “complottisti”.
È avvenuto così che la parodia del politicamente corretto sia diventata l’ideologia mistificatoria a supporto del colonialismo della finanza globale. In questa ideologia c’è anche spazio per i razzismi politicamente corretti, come quello antimeridionale e quello antirusso. Sono razzismi necessari per mascherare la pauperizzazione di certi popoli; una pauperizzazione attuata all’interno con taciti tagli di spesa ed all’esterno con plateali sanzioni economiche. Roberto Saviano è un propagandista-icona sia dell’autorazzismo meridionale che del razzismo antirusso, ossessionato com’è sia dalla camorra che dalla mafia russa. La pauperizzazione richiede una criminalizzazione, ovviamente a turno, dei popoli.
Da più parti si è sottolineato che l’inasprimento delle sanzioni economiche contro la Russia è stato deciso dalle camere USA in base ad un’ipotesi di “hackeraggio” che non ha trovato sinora alcun riscontro di prova. Il problema è che, seppure queste prove fossero esistite, la decisione del Congresso e del senato USA sarebbe stata comunque illegittima ed eversiva. Nei rapporti internazionali tra gli Stati vi sarebbero infatti delle procedure da rispettare allorché uno Stato pensi che un altro Stato lo abbia danneggiato: si convoca l’ambasciatore per chiedere chiarimenti e, se questi non sono ritenuti sufficienti, si procede prima per sanzioni diplomatiche. C’era quindi un ruolo del governo che doveva poi relazionare alle camere per eventuali altre decisioni. In questa circostanza invece l’ambasciatore russo è stato considerato una sorta di paria la cui frequentazione da parte del presidente e del suo entourage andava evitata ad ogni costo, come se si rischiasse una specie di contaminazione razziale. In più la decisione quasi unanime del Congresso e del senato USA ha posto le sanzioni anti-russe sotto una specie di clausola di protezione contro il proprio stesso capo dell’esecutivo. Si è trattato di un atto eversivo sia verso l’interno che verso l’esterno, a cui la stragrande maggioranza dei parlamentari si è adeguata nel timore di diventare sospettabile di atteggiamenti filorussi. Stato e governo sono concetti distinti, ma un parlamento che delegittima preventivamente un governo, delegittima lo Stato nel suo complesso.
Probabilmente almeno una parte della cordata che aveva spinto CialTrump alla presidenza si era illusa di poter recuperare un margine di manovra dello Stato per la trattativa diretta con altri Stati, in particolare la Russia. Ma già l’affidarsi ad uno come CialTrump doveva indicare che il tentativo era disperato. Quando si è andati a cercare lo Stato, si è scoperto che non c’era. Il concetto di “deep State” è una suggestione consolatoria per non ammettere che le lobby finanziare detengono poteri di veto.
Secondo alcuni lo Stato costituirebbe una formalizzazione dei rapporti di forza sociali. Si tratta di una di quelle affermazioni che possono apparire come critiche, ma che in effetti si risolvono in mere cortine di fumo in quanto non dicono nulla. Lo Stato non va considerato una veste giuridica dei rapporti sociali, bensì come una mera astrazione giuridica, che può assumere, di volta in volta, valenze mitologiche o superstiziose. In questo senso lo Stato non è affatto una formalizzazione del rapporto di forza, bensì una componente del rapporto di forza in funzione di espediente illusionistico di distrazione, inganno e manipolazione. Sottrarsi a questa suggestione ingannevole comporterebbe quindi un piccolo riequilibrio del rapporto di forza a proprio favore.
Un formalismo infatti non potrebbe essere abbandonato a piacimento, poiché ciò avrebbe appunto delle conseguenze sul piano formale. Quando il governo Gentiloni rifiuta di riconoscere la validità delle ultime elezioni venezuelane, dovrebbe motivare la sua decisione in base a procedure precise, previste da trattati sottoscritti sia da Italia che Venezuela. Senza questo “formalismo” nulla impedirebbe a Maduro di considerare a sua volta Gentiloni come un abusivo di passaggio (cosa, peraltro, non molto lontana dal vero) .
Nel 2012 il Presidente francese Hollande attribuì un riconoscimento diplomatico alle “opposizioni moderate e democratiche” al regime siriano di Hassad. Ma uno Stato che ne delegittima un altro, delegittima anche se stesso. Se non avesse avuto in quel periodo impegni più urgenti, Hassad avrebbe potuto benissimo rivendicare gli stessi titoli per offrire il proprio riconoscimento diplomatico ad un qualsiasi oppositore di Hollande. Il punto è che i rapporti tra gli Stati rappresentano l’apparenza e invece sono i movimenti di capitale a dare il via alle destabilizzazioni ed alle macchine belliche, e i governi e i parlamenti si adeguano.
Lo Stato quindi non è una formalizzazione o un formalismo, bensì una pantomima e, come tale, può essere messa da parte a piacimento, a seconda delle convenienze dei movimenti di capitali. I primi a non dar troppo credito a questa pantomima sono coloro che la mettono in scena e che escono troppo spesso dalla parte.
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