Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Un governo di destra ha incontrato un’opposizione che si colloca ancora più a destra. Pochi potevano supporre che i confusi tentativi del ministro dello Sviluppo e del Lavoro, Luigi Di Maio, di conferire una verniciatura sociale all’attuale politica governativa, non trovassero alcuna sponda nel sindacato. Il nuovo segretario della CGIL, Maurizio Landini, si è infatti iscritto alla schiera degli energumeni del liberismo, facendo concorrenza persino al più scalmanato di tutti, Luigi Marattin.
La proposta di Di Maio di istituire anche in Italia un salario minimo per legge, ha ricevuto da Landini una risposta abbastanza paradossale per il leader di una formazione che dovrebbe ispirarsi alla tradizione del riformismo socialista. Landini ha dichiarato infatti che le questioni salariali non riguardano il governo ma la contrattazione delle parti sociali.
È lo stesso tipo di obiezione che veniva rivolta da parte confindustriale alla fine degli anni ’60 nei confronti dell’allora ministro del Lavoro, un ex sindacalista CGIL, il socialista Giacomo Brodolini, il quale aveva promosso per legge uno Statuto dei Lavoratori. A Brodolini si contestò appunto che i rapporti di lavoro andavano regolati per via contrattuale e non per legge. Sebbene fosse stato un sindacalista dei più prestigiosi, Brodolini la pensava diversamente, attirandosi tali odi che la sua morte prematura fu salutata con brindisi di gioia negli ambienti padronali.
Certo, si può essere scettici sulla consistenza e sulla tenuta a lungo termine del riformismo socialista, ma questo scetticismo dovrebbe essere prerogativa di tradizioni politiche più radicali e non di quella a cui appartiene Landini. La controproposta di Landini di estendere erga omnes la validità dei contratti nazionali è in sé valida, ma non si comprende perché sarebbe alternativa al salario minimo per legge; al contrario, il salario minimo potrebbe rappresentare una rete di protezione in più contro i contratti in dumping firmati da sindacati gialli. Anche l’altra proposta di Landini di varare una legge sulla rappresentanza sindacale contro i sindacati di comodo, appare abbastanza ingenua. Magari una legge del genere potrebbe diventare uno strumento per liquidare il sindacalismo di base, ma è molto dubbio che i sindacati di comodo non troverebbero al momento opportuno la copertura di qualche sentenza favorevole o di qualche voto della base estorto col ricatto occupazionale. Qualche anno fa Landini professava idee diverse a riguardo e a chi gli proponeva polemicamente il modello tedesco, ricordava che in Germania almeno esiste il salario minimo per legge.
In queste settimane a Landini è toccato persino una sorta di premio Ignobel, cioè l’aver ricevuto le lodi di Giuliano Ferrara. Dalle colonne de “Il Foglio”, Ferrara elogiava Landini e Tsipras per aver capito, sebbene in ritardo, che fuori di quello che lui chiama “liberalismo” (in realtà liberismo), non esiste nulla, se non un nazionalismo economico un po’ fascista. Ferrara, come al solito, si contraddice con molta disinvoltura, ma non casualmente. Secondo Ferrara infatti qualcosa di alternativo al liberismo esisterebbe, ma è nazionalista e un po’ fascista. Sembra uno spot per CasaPound.
Non che la CGIL sia mai stata un grande baluardo della difesa del lavoro ma, volendo mantenere la critica in termini realistici, occorre dire che il sindacato come istituzione presenta dei limiti oggettivi molto stringenti, perché la sua funzione è realizzare accordi; inoltre, in una fase di illimitata circolazione internazionale dei capitali, anche il potere contrattuale dei sindacati tende a crollare. La CGIL comunque era stata attenta a non perdere completamente la faccia, tanto che qualche anno fa ha condotto una meritoria e vincente lotta contro i voucher, poi reintrodotti dall’attuale governo. La stessa resistenza contro Marchionne, sebbene fosse sin dall’inizio chiaramente perdente, aveva sortito l’effetto positivo di non far dare per scontato l’assolutismo padronale in fabbrica.
Oggi la CGIL invece perde la faccia, proprio mettendoci quella che avrebbe dovuto essere la più persuasiva per i lavoratori. Un Landini delandinizzato, che adotta acriticamente gli slogan confindustriali dell’europeismo salvifico, degli investimenti e della defiscalizzazione del lavoro, rappresenta uno shock demoralizzante per gran parte della base e dei quadri della CGIL. La mutazione rispetto al Landini di cinque anni fa non è solo ideologica, ma antropologica, infatti Landini è diventato anche fisicamente irriconoscibile. Può darsi però che non si tratti solo di opportunismo o di carrierismo o di baccelloni venuti dalla galassia. Dal 2014, dall’epoca dell’opposizione al “Jobs Act” renziano, è cominciata nei confronti di Landini una pressione piuttosto subdola, che sembra assumere i risvolti della minaccia giudiziaria. Rimane traccia di queste pressioni in alcune interviste nelle quali Landini veniva accusato di “istigare”, ovvero di creare le condizioni per violenze e terrorismo.
È lo stesso “trattamento” che era stato riservato quindici anni fa a Sergio Cofferati, quando aveva cercato di opporsi al processo di precarizzazione poi concretizzatosi nella Legge 30/2003, passata falsamente alle cronache come Legge Biagi, per porla sotto l’icona sacra di un martire del terrorismo. In quell’occasione Cofferati fu accusato di essere il mandante morale dell’omicidio Biagi; lo stesso Cofferati notò che c’erano vari indizi che quell’accusa fosse già stata preparata addirittura da prima che l’omicidio venisse materialmente consumato. In particolare, Biagi era stato convinto da “qualcuno” che Cofferati lo perseguitasse.
La fiaba liberista ci presenta un quadro dei conflitti del lavoro in cui conterebbero solo categorie economiche, ma in realtà non si risparmiano veleni e colpi bassi pur di garantire l’assistenzialismo per ricchi. Che ci sia sotto anche adesso qualche minaccia di procedimento giudiziario? Perché non sospettarlo, visti i precedenti?
Meno male che ci sono i magistrati, altrimenti Matteo Salvini si troverebbe ogni tanto esposto con tutte le sue contraddizioni di fronte all’opinione dei suoi nuovi elettori che sta prendendo per i fondelli. Il “Russiagate all’italiana” è stato una manna dal cielo per Salvini, che ha potuto rilanciare la sua immagine di sovranista spregiudicato che guarda alle alleanze più vantaggiose per l’Italia. Poco importa che il tutto si risolverà in una bolla di sapone e con l’ovvia scoperta che Putin della Lega se ne sbatte. La distrazione avrà comunque funzionato.
Distrazione da che? Ovviamente dal progetto di autonomia differenziata imposto dai referendum del 2017. La questione è venuta agli onori delle cronache solo a causa del conflitto tra il governatore del Veneto, Luca Zaia, ed il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che ha rigettato gran parte delle istanze autonomiste, a cominciare dall’accesso alla grande mangiatoia: la Scuola.
La vera e unica posta in gioco era infatti esclusivamente quella degli undici miliardi stanziati per l’istruzione pubblica, dato che non ha senso preoccuparsi per le sorti di una Scuola pubblica che già non esiste più. Oggi non si deve rispettare un insegnante in quanto funzione docente, bensì per la sua “autorevolezza”, cioè per la sua capacità di vendersi ai propri consumatori/studenti, quindi ogni insegnante è costretto a mettersi in concorrenza con i colleghi e a far loro le scarpe. Oggi gli insegnanti sono come i gladiatori dell’antica Roma, che si guadagnavano da vivere facendo fuori i loro colleghi. Come pulp fiction funziona, come Scuola no.
Oggi il PD fa lo scandalizzato per la cialtroneria con cui la maggioranza di governo sta affrontando la questione dell’autonomia differenziata, ma lo scorso anno il governo Gentiloni aveva raggiunto un’intesa con le Regioni autonomiste che aveva riscosso l’entusiasmo di Zaia e infatti era un vero e proprio calo di brache da parte del governo. Il testo dell’accordo configurava un quadro di caos istituzionale, non solo per la sequela di contenziosi che avrebbero potuto sortire tra Stato e Regioni, ma persino tra le stesse Regioni, e tra le Regioni e i Comuni.
Se la Lega avesse raggiunto i suoi obbiettivi, non si sarebbe realizzata la mitica “secessione dei ricchi”, con cui è stata venduta l’autonomia differenziata ai gonzi del Lombardo-Veneto, bensì un avventurismo istituzionale che avrebbe favorito le mire di commissariamento dell’Italia da parte di UE, BCE e FMI. In Italia il club dei tifosi dell’arrivo della Troika non si nasconde affatto, anzi monopolizza gli organi di stampa con i suoi aedi, da Eugenio Scalfari a Giuliano Ferrara; eppure per la Lega il nemico da battere è lo Stato centrale.
Il Salvini sovranista e fascista è una fake news gonfiata dai media, mentre la Lega è e rimane un partito coloniale, vincolato ai dogmi della fiaba liberista. Non a caso Zaia, nella sua polemica con Conte, non ha perso occasione per snocciolarli tutti, a partire dai luoghi comuni dell’antistatalismo liberista sullo Stato inefficiente e sprecoladrone. Non esiste in realtà alcun motivo organizzativo per cui lo Stato centrale dovrebbe essere più inefficiente dei privati o delle autonomie locali.
Lo Stato soccombe semmai nel conflitto filosofico tra l’astratto ed il concreto. Il senso dello Stato è un’astrazione, mentre il senso della lobby si esprime nell’urgenza concreta del tornaconto personale e dei ricatti incrociati. Un funzionario statale che voglia operare in modo istituzionale, si trova isolato ed esposto a livello disciplinare e giudiziario, perché in definitiva nessuno è immune dall’errore e dal conseguente rischio di farsi fare la morale dal Piercamillo Davigo di turno. Un funzionario statale che voglia sopravvivere, è costretto a stabilire relazioni private e quindi a diventare un lobbista. Nulla di strano perciò che lo Stato venga egemonizzato dalla lobby delle privatizzazioni: è accaduto persino in Unione Sovietica.
Attraverso il decentramento amministrativo, privatizzare diventa più facile e più discreto. Il messaggio sottostante all’autonomia differenziata è ben chiaro: lo Stato non è altro che una torta di spesa pubblica da spartire.
Non poteva poi mancare a corredo finale del discorso di Zaia il pistolotto sui “virtuosi” che andrebbero premiati. Alla fine gli strumenti di analisi non sono poi tanti: o segui i miti della razza, comunque declinati (dagli ariani puri ai “virtuosi”) o segui i soldi. Se si seguono i flussi di capitale, ci si accorge che esiste un divario storico e strutturale tra i tassi di interesse bancario praticati rispettivamente al Nord e al Sud. Al Sud i tassi di interesse imposti alle imprese sono sempre più alti, quindi vi è una minore possibilità di accesso al credito. Di conseguenza il risparmio meridionale non viene utilizzato in loco ma convogliato verso i “virtuosi”, quindi sono le aree più povere che finanziano quelle più ricche. Questo si chiama colonialismo interno ed è alla base di quella cosa che ci si ostina a chiamare capitalismo o economia di mercato, ma che è chiaramente assistenzialismo per ricchi.
La fiaba liberista ci narra anche che l’emigrazione sarebbe un effetto dei divari di sviluppo tra le varie aree del mondo, per cui i “viziosi” sarebbero costretti a spostarsi nelle aree virtuose per trovare lavoro. In realtà, se si seguono i flussi di capitale, ancora una volta queste scemenze vengono smontate. Da anni vi sono evidenze scientifiche che dimostrano il legame tra lo sviluppo della microfinanza e l’emigrazione. Non si emigra perché si è poveri, ma perché si è talmente indebitati da doverlo fare per sperare di riuscire a far fronte ai debiti. L’ultimo studio in cui si demoliscono le mitologie dell’economia neoclassica (cioè liberista) riguardo all’emigrazione e si analizza invece il ruolo della microfinanza, viene dal Dipartimento di Sociologia della State University del South Dakota.
Un flusso di capitale opportunamente graduato per diventare sottofinanziamento, può ingenerare tutta una serie di effetti “positivi”, come la nascita di piccole imprese che si fanno una mortale concorrenza al ribasso per procurarsi subappalti dalle grandi multinazionali, ma anche ingenerare una dipendenza assoluta delle masse dal debito, costringendole a cercarsi uno sbocco nella migrazione. La mobilità dei capitali consente quindi sia di delocalizzare a piacimento le produzioni, sia di delocalizzare a piacimento i lavoratori. Per distrarre i suoi elettori dagli effetti della mobilità dei capitali, Salvini li deve gasare con i suoi psicodrammi con le navi delle ONG.
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