Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
A proposito di un dibattito su natura e progresso
Il cuore, quest’oscuro fiore celestiale,
sboccia misteriosamente.
Non si darebbe quell’ombra per tutta quanta la luce.
Victor Hugo, Les Misérables
La premessa di ogni dibattito che si desideri più inclusivo e più stimolante per chiunque
è intendersi sui concetti.
Può sembrare una banalità, ma dare per scontato che tutti e tutte siano d’accordo con
una “certa” definizione dell’oggetto di cui discutiamo è speculare a chi ogni giorno
vorrebbe convincerci che questo modo di vivere è l’unico esistente. Dunque imparare
almeno a nutrire qualche dubbio sulle certezze oggi circolanti può essere un buon punto
di partenza per ri-posizionare una discussione, e, in ogni caso, lo è per me.
Dunque muoverei qualche dubbio sulle certezze dei seguenti concetti: natura umana,
artificio, tecnica, tecnologia, progresso, scienza, natura. Perché niente di queste sicure
“cosalità” è al riparo dall’esercizio egemonico operato dai dominatori nel renderle così
come sono, e non come potrebbero o non potrebbero essere.
Rosa Luxemburg scriveva che – al netto delle differenze politiche – quando un pensiero
non si muove più ma si fissa, si immobilizza, allora si può ragionevolmente parlare di
pensiero reazionario. Così abbiamo anche in prestito una definizione particolarmente
azzeccata di reazionarismo: quanto mai opportuna, se pensiamo che i più grandi teorici
nazisti e fascisti, oltre a quelli alla destra del fascismo e del nazismo, e oltre ancora a
quelli della Nouvelle droite francese, parlano di nevrosi rivoluzionaria, definendo questa
smania pruriginosa (sessuale?!) dei rivoluzionari di cambiare il mondo. E di fatti, per
costoro l’unico movimento consentito è all’indietro, verso una rivoluzione conservatrice,
la cui essenza risiede nell’antimodernismo e nel rifiuto del progresso, partendo dal
presupposto che tutto ciò che muove in avanti crea una perdita, una mancanza. Dunque
i rivoluzionari sono dei nevrotici castrati: ricordare ogni tanto il motivo dell’odio aiuta a
posizionarsi con maggiore circospezione in terreni storicamente minati.
Uno dei problemi, oltre alla necessità di chiarirci tra noi il significato dei concetti di cui
parliamo, è infatti la difficoltà che sperimentiamo a condurre una nostra battaglia su temi
di grande complessità sui quali i più grandi rivoluzionari – marxisti, anarchici – si sono
confrontati e, talvolta ma non sempre, scontrati.
Sono almeno 150 anni che il movimento rivoluzionario si divide sull’importanza della
natura e il ruolo della scienza, basti pensare a quanto tale divisione attraversasse il
populismo e il nichilismo russi fin dal 1860.
Quindi a coloro che oggi si chiedono il motivo di tanto discutere intorno alle
biotecnologie, alla nostra “naturalità”, al progresso – come se tutto ciò non avesse a che
fare con la rivoluzione sociale – potremmo ricordare i numerosi interventi di Errico
Malatesta (ad esempio in “Pensiero e volontà”, per fare il primo esempio che mi viene in
mente), gli scritti filosofici di Michail Bakunin, i Quaderni dal carcere di Antonio
Gramsci e il primo libro del Capitale di Karl Marx. Potrebbero stupirsi di trovarvi
riflessioni assai ricche, e, soprattutto, tutti e tutte noi impareremmo quanto a lungo e
con quanti rimandi si è intervenuti per ridefinire, meglio situare, collocare, delimitare,
approfondire questi stessi concetti, oggi frequentemente stiracchiati e sciabordati, spesso
e volentieri (diciamoci la verità vera) a fini di posizionamento politico interno al
movimento. Sinceramente un po’ di malinconia e di tristezza non può che emergere, al
pensiero che Bakunin polemizzava con Auguste Comte e i positivisti, Malatesta discuteva
di evoluzionismo, Kropotkin lavorava ad una sua posizione autonoma nel dibattito
darwiniano dell’epoca, Gramsci criticava il pensiero dogmatico, Marx scopriva che la
naturalità dell’essere umano sconfina nella sua restituzione mediata dal lavoro (anche
questo è “Il Capitale”, oltre ad un testo determinista sulla fine del capitalismo).
Onestamente, di fronte agli immensi casini che l’inquinante, sfruttatore e putrescente
sistema di sviluppo capitalistico sta provocando a tutti gli esseri senzienti e non della
terra, forse sarebbe opportuno – per noi anarchici e anarchiche – comprendere quale
posta in gioco ci stiamo giocando e utilizzare la nostra intelligenza, curiosità, senso
critico, per muovere una radicale offensiva contro i padroni dello sfruttamento e del disastro, non per posizionarci tra di noi.
E di questo parliamo, poiché oggi il Politico è mero amministratore delle macerie che ha
contribuito a spargere dappertutto, con buona pace (nel senso tombale del termine) dei
riformisti o degli introvabili sinceri democratici.
C’è poi un’altra questione che mi pare niente affatto compresa e che invece ha molto a
che fare con il modo con il quale stiamo elaborando i nostri pensieri: tutta questa luce
bianca, tutta questa limpidezza, trasparenza che permea la superficie liscia e levigata
delle argomentazioni su questi nodi, serve a rassicurarsi o ad aver ragione una volta per
tutte? Questa smania di sistema, di conchiudere una riflessione come un fortino
assediato, di strangolare le ombre, certo, fa molto radicale, ma a ben vedere dimostra
anche la fragilità di alcuni Assoluti, che come insegnava Max Stirner, negano chi sei
nominando cosa sei.
Non si tratta di non avere una posizione, al contrario, si tratta di averne milioni differenti
le une dalle altre, come per fortuna solo gli anarchici e le anarchiche sanno fare, e mi
chiedo se qualcun’altro oltre a me, in questa giravolta di Assoluti da difendere o negare,
ha visto che fine ha fatto l’Unico che siamo.
Potremo discutere quanto vogliamo, su cosa siamo: le femministe ci spiegheranno che
cosa è la Donna, i preti cosa è l’Anima e il Corpo da essa scissa (come una pustola
fastidiosa), i razzisti e le differenzialiste cosa è la Differenza (sessuale, simbolica,
spirituale, culturale, fate voi), altri cosa è la Natura, il Progresso, la Scienza etc.
Agli anarchici e alle anarchiche interessa ancora come gli Unici si relazionano, negano,
rifiutano, sovvertono, negoziano il “cosa sono”?
Si è capito che libertà non è identità, e che identità non fa rima con individualità?
E se la libera individualità - irriducibile alle cose - fosse l’ombra maestosa e potente,
negata, espropriata, de-naturalizzata, dall’odierno luminoso sistema capitalistico?
Se fosse in quel nocciolo duro da ricercare la spinta per distruggere questo progresso
utile soltanto a mantenere questo sistema di sviluppo? Se la natura che ci sentiamo
sfuggire dalle mani non fosse altro che la dis-connessione tra noi e la nostra vita
sensibile, attaccata con armi di distruzione di massa linguistiche, tecnologiche,
mercificanti? Se, insomma, scoprissimo che la nostra “natura” non è che un irriducibile
niente magnificamente e individualmente trasformato da corpo e mente in una corsa
contro il tempo di rivoluzioni, cambiamenti, volontà, desideri, passione, amore?
Se fossimo noi stessi a mancarci, come ci manca il fiato in una gabbia, o il nostro amore
che non torna più? Se usassimo più poesia e meno tecnica per conoscerci, se saperci
umani, naturali, artificiali, donne, uomini, trans, gay, lesbiche, black, colored – alla fine -
non ci bastasse più?
E se fosse questa la guerra che ci è stata dichiarata dalla notte dei tempi, e avessimo –
ancora una volta – sbagliato strada?
Martina Guerrini
Livorno, aprile 2017
Gianfranco Marelli
L’AMARA VITTORIA DEL SITUAZIONISMO, Storia critica dell’Intenationale Situationniste 1957-1972
MIMESIS/ETEROTIPIE
Amara vittoria, quella di divenire mito. Quasi delle Cassandre del Novecento, i situazionisti hanno presagito l’alienazione quotidiana, l’anestetica del mercato, le bulimie di un’epoca pericolosamente tesa alla superficialità. Nell’anniversario dell’Internazionale Situazionista (1957), Gianfranco Marelli traccia in un saggio che bilancia perfettamente la narrazione con la puntualità delle fonti, un dettagliato ritratto di uno dei movimenti più emblematici del Secolo Breve.
Qui di seguito riportiamo l’EPILOGO del libro.
Sì, da quando scrissi le poche righe di presentazione del mio lavoro a
Guy Debord nel freddo inverno del 1994, mi sono più volte chiesto se il
situazionista parigino mi avrebbe risposto e cosa avrebbe scritto se non si
fosse suicidato. Confesso che, in questi lunghi decenni in parte dedicati
a ricercare nuove fonti, nuovi testi critici in grado di farmi comprendere
aspetti e sfumature dell’Internationale Situationniste, allora non colti per
incapacità personale e mancanza di indizi più prossimi, originali, inediti,
per indagare sul variopinto gruppo di persone che l’animarono, ho
provato a darmi delle risposte. Variavano a seconda del mio umore: propositive
e stimolanti rispetto a quanto ero riuscito a condurre a termine;
negative e demolitrici su quanto avevo scritto, affidandomi a documenti
raccolti con paziente difficoltà in quanto problematico era separare loglio
e grano, soprattutto ad un anno di distanza dalla morte di chi era ormai
considerato non più soltanto il padre putativo dell’ultima avanguardia di
artisti e di intellettuali del XX secolo, ma il maître a penser che grazie
al concetto di “spettacolo” aveva saputo interpretare la contemporaneità
di un sistema economico-produttivo trasformatosi in una dimensione sociale
totalizzante tale da cambiare il modo d’intendere la vita quotidiana
dinnanzi alle possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico e dal progresso
scientifico.
Se Debord non ebbe il tempo di rispondermi, o più realisticamente non
trovò allora il motivo per farlo, altre risposte sono state date al mio libro
e altri libri hanno cercato di fornirne svariate, complesse e contraddittorie
alla domanda che nel corso di questi sessant’anni che ci separano dalla
Conferenza di Fondazione dell’Internationale Situationniste [Cosio d’Arroscia,
28 luglio 1957] è sempre emersa con forza incipiente: cos’è il “situazionismo”?
Del resto Vaneigem non si sentì costretto ad ammettere che
tutta l’ideologia modernista si può disinvoltamente chiamare “situazionismo”,
dal momento che «tutto quello che noi abbiamo detto sull’arte, il
proletariato, la vita quotidiana, l’urbanismo lo spettacolo si trova ripreso
ovunque, tranne l’essenziale»(1)?
In realtà non è mai mancato l’essenziale ogni volta che è stato approntato
uno studio sul situazionismo; ciò che, il più delle volte, ha peccato di
riduzione eccessiva e smodata del fenomeno è stato l’averne proposto l’essenzialità
così da poterlo catalogare in una specifica critica dell’ideologia,
dell’urbanistica, della psicogeografica, della politica radicale, dell’estetica,
e via classificando. A seconda dei momenti storici – vicini o distanti da
quello che i situazionisti avevano interpretato come “l’inizio di una nuova
epoca” – l’analisi critica del pensiero e della pratica situazionista ha
finito per evidenziare quei tratti essenziali che meglio corrispondevano ad
una interpretazione artistica, sociologica, filosofica dell’Internationale Situationniste
in modo da permetterne una lettura del passato, non certo il
suo utilizzo presente, per non correre il rischio di giudicare sbagliata – o
perlomeno ambigua e parziale – la teoria situazionista che aveva voluto
scommettere sulle possibilità rivoluzionarie della sua epoca.
In effetti – come da più parti è stato evidenziato – si sono potute distinguere
tre fasi nelle quali l’interpretazione data dell’I.S. è stata dettata dalle
conseguenze che si sono volute trarre al fine di valorizzarne l’essenzialità
oggettiva di un pensiero pratico da sempre in bilico tra il recupero e il riutilizzo.
La prima interpretazione ha posto l’accento sul progetto politico
che i situazionisti avevano cercato di praticare, dando vita ad un nuovo
tipo di organizzazione rivoluzionaria. Questa lettura, iniziata a cavallo del
’68 e proseguita fino alla fine degli anni ’70, ebbe un obiettivo ben preciso:
salvare il salvabile di un’esperienza che nei quindici anni trascorsi ha
rappresentato il tentativo di superare l’arte realizzandola nella progettualità
organizzativa dei consigli operai, finalizzata alla trasformazione radicale
della società attraverso l’autogestione generalizzata. Gli avvenimenti che
– a partire dalla seconda metà degli anni ’60 – caratterizzarono il grande
e complesso movimento di contestazione dei valori costituenti la società
consumistica, inevitabilmente finirono per influenzare anche l’analisi storica
sull’Internationale Situationniste, individuando ed esaltando in essa
gli aspetti premonitori della crisi di consenso al sistema socio-economico,
così da porre soprattutto attenzione alla critica della vita quotidiana e alla
lotta contro ogni forma di alienazione e di separazione connessa sia al dominio
dello spettacolo della merce, sia al sacrificio imposto dall’ideologia
rivoluzionaria rappresentata dallo spettacolo del rifiuto; in tal modo l’esperienza
situazionista è sembrata l’esperienza di un’avanguardia artistica
trasformatasi in un’organizzazione di teorici della rivoluzione, convinti
che gli obiettivi da perseguire e gli strumenti con i quali ottenerli procedessero
da una rivolta contro il funzionalismo in architettura e l’abolizione
di un’estetica effimera, volta a fare dell’arte un momento separato della
propria vita, fino ad una trasformazione radicale dell’ambiente urbano per
la costruzione di situazioni in cui l’arte di vivere sarebbe stata il solo modo
per realizzare l’arte della propria vita. Sono stati questi gli anni in cui la
notorietà dell’I.S. coincideva con la sua partecipazione al Maggio francese
ed il suo rappresentarsi diversa nella pratica da qualsiasi formazione di
estrema sinistra le conferiva un’aura rivoluzionaria al passo coi tempi, tanto
da riconoscersi nei modi e nei metodi dissacranti, violenti e provocatori
con i quali i situazionisti regolavano i conti al proprio interno e con i gruppi
attigui ad essa. La sua intransigenza nei rapporti diventò un mito per i prositu
che, nell’estremizzarne il comportamento in un contesto storico dove
l’onda lunga della contestazione progressivamente rifluiva, li condusse a
spiaggiarsi sulla battigia marginalista della teorizzazione soggettiva del rifiuto
del lavoro, del furto, dell’illegalità, della droga e finanche della lotta
armata come risposte ad una realtà che si chiudeva su se stessa di fronte
alla repressione organizzata dallo Stato e al progressivo recupero delle lotte
sociali entro l’alveo riformista.
Seguì il periodo catacombale, coincidente con gli anni ’80, caratterizzatosi
dall’esegesi ortodossa dei testi situazionisti ad opera di vere e proprie
confraternite preoccupate di salvaguardare l’immagine sacra dell’Internationale
Situationniste e a fare di Guy Debord IL situazionista, attorniato da
pochi e fedeli discepoli. In questa tempra, il “mistero” di un’organizzazione
elitaria, formata da geni, si tradusse in un “capitale simbolico” investito
con maestria nello spettacolo mediatico e produsse una cortina di fumo che
offuscò il pensiero situazionista, riducendolo ad un guazzabuglio di teorie
marxiste e libertarie rinverdite con sprazzi di critica post-moderna alle
forme del linguaggio popular, tanto da farlo coincidere con le esperienze
espressive più alternative manifestatesi con il movimento del ’77 attraverso
le nascenti “radio libere”, e con il Punk inglese e l’autoproduzione
del materiale underground di provenienza artistico-musicale. Quest’ultimo
esempio fu essenzialmente la risposta anglo-americana al mal francese
che permeò gli anni ’80 – “anni d’inverno” come li definì Felix Guattari
– in cui al prevalere dell’intransigenza nel rievocare l’eredità trasmessa
dall’I.S., coltivandone la purezza teorica fra i vari gruppi, riviste, e centri
di documentazione in perenne contrasto per spartirsi il prezioso tesoro, si
preferì un’apertura disinvolta ed ecumenica a tutte le espressioni artistiche
e culturali caratterizzate da un generico rifiuto dello spettacolo, sino a
ripetere lo stantio e desueto spettacolo del rifiuto che l’esperienza della II
Internazionale Situazionista aveva già dato prova durante i primi anni ’60.
Terza ed ultima fase: la rinascita. Intrapresa all’inizio degli anni ’90 e
protrattasi sino a nostri giorni, mira a sottolineare quanto il situazionismo
sia un pensiero filosofico immediatamente traducibile in una filosofia di
vita e rappresenti il nuovo spirito del capitalismo, non più ascetico, autoritario,
repressivo, bensì edonistico, permissivo, trasgressivo. Riprendendo
la tesi di Boltanskj e Chiappello sul legame tra la critica sociale e la critica
artistica come aspetto fondante il processo di rinnovamento compiuto dal
capitalismo (2), il rinato interesse per il situazionismo ha evidenziato quanto
i valori di autonomia individuale, creatività, nomadismo, gioco, siano stati
riutilizzati all’interno del processo economico e abbiano determinato la
svolta dell’apparato produttivo capitalista, trasformando il ruolo del lavoratore
cognitivo nella figura dell’artista, sempre più soggetto ad un’autonomia
precaria, costretto a mettersi in gioco e a costruirsi un mestiere/situazione
al punto da ricominciare la propria esperienza lavorativa ovunque e a
qualsiasi condizione, in una società divenuta oppressiva per il produttore e
permissiva per il consumatore. Sicuramente un riutilizzo del situazionismo
all’insaputa di molti situazionisti. Non certo però di coloro che approfittarono
del loro trascorso nell’I.S. – foss’anche una semplice comparsa al
suo interno, o una più probabile adesione esterna – per compiere folgoranti
carriere come amministratori delegati di società multinazionali, direttori
di palinsesti multimediali, se non addirittura consiglieri di ministeri per
la qualità della vita di governi indistintamente di sinistra e di destra (3). Del
resto ad essere folgorati dal nuovo spirito del capitalismo – come ben ci
ha rammentato José Saramago – furono molti dei più accesi leader dei
gruppuscoli extraparlamentari che «essendo stati a diciott’anni, non solo
le ridenti primavere dello stile, ma anche, e forse soprattutto, esuberanti
rivoluzionari decisi a rovesciare il sistema dei padri e metterci al suo posto
il paradiso, beh, della fraternità, si ritrovano ora, con una fermezza per lo
meno uguale, impoltroniti in convinzioni e prassi che, dopo esser passate,
per riscaldare e render più flessibili i muscoli, per una delle tante versioni
del conservatorismo moderato, hanno finito per sfociare nel più sfrenato e
reazionario egoismo. In parole non tanto cerimoniose – chiosa sprezzante
il poeta lusitano –, questi uomini e queste donne, davanti allo specchio
della propria vita, sputano tutti i giorni sulla faccia di quel che sono stati lo
scaracchio di quel che sono» (4).
Senza dubbio questa fase post-situ ha avuto al suo interno molte sfaccettature,
e al riutilizzo tout-court del situazionismo in chiave neocapitalista
si è sovrapposta un suo più edulcorato recupero come prodotto culturale,
studiato nelle università, esposto nei musei, ma soprattutto venduto a caro
prezzo a collezionisti privati e a biblioteche pubbliche. Dalla prima esposizione
consacrata ai situazionisti al Centre Pompidou nel febbraio 1989,
alla più recente svoltasi alla Bibliotèque nationale de France nel marzo
2013, passando per la riedizione dell’opera omnia di Debord presso Gallimard/
NRF nel 1991 sino all’acquisto del suo archivio nel 2009 da parte
della BnF [dopo che lo Stato lo dichiarò tesoro nazionale, impedendone
in tal modo la vendita all’università di Yale per la ragguardevole cifra di
2,7 milioni di euro a beneficio dell’inconsolabile vedova], il situazionismo
è divenuto una merce molto preziosa da vendersi come “modernariato”
nelle più prestigiose aste presenti su Internet. Svaporata in tal modo la sua
funzione eversiva, ne è rimasta la funzione didattica che se da un lato ha
promosso e incrementato uno studio accademico e scientifico meritorio di
numerosi seminari, convegni e pubblicazioni specialistiche nei più svariati
campi in cui il situazionismo ha condotto la propria critica, ugualmente ha
stimolato una ricerca più prossima alla critica radicale che non ha scalfito
la denuncia sullo spossessamento della vita da parte del sistema capitalista
e sulla necessità di porvi rimedio attraverso pratiche di lotta a difesa
dell’ambiente, dei suoi prodotti naturali, così da promuovere un sistema
di relazioni di comunità autogestite in grado di contrastare l’anonimato
dei grandi agglomerati urbani che al pari della lebbra infettano il globo
terrestre.
Navigare nel mare della storia del situazionismo non è certo facile. Da
più di vent’anni ci siamo avventurati al largo e, dotati di pochi punti di
riferimento, abbiamo cercato di mantenere una rotta stabilita fin dall’inizio
del viaggio e mano a mano aggiustata per tenere conto dei risultati del
disincanto e degli approfondimenti suffragati dagli studi. La navigazione
non è certo conclusa e, se apparentemente le acque sembrano meno agitate,
l’analisi prosegue affinché – nel valorizzarne le immarcescibili potenzialità
– si precisi quali aspetti del situazionismo l’amara vittoria farà ancora
strame.
Ischia, agosto 2016
1) Raoul Vaneigem, Quelques précisions, documento del 21 aprile 1970 riprodotto
in Débat d’orientation de l’ex-Internationale Situationndiste, Centre de recherche
sur la question sociale, Paris 1974, p. 23.
2) Luc Boltanski, Ève Chiappello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano
2014, pp. 243-248; 280-284.
3) «I casi più rappresentativi sono quelli di Piet de Groof, membro dell’I.S. dal settembre
1957 all’autunno 1958 con lo pseudonimo di Walter Korun, diventato nel
1982 general-maggiore delle Forze aeree belge; di Anton Harstein (alias Toni
Arno), membro dell’I.S. dall’inverno 1965 al luglio 1966, diventato cofondatore
di Radio NRJ e attualmente rappresentante commerciale a Bucarest della multinazionale
di telecomunicazioni ATDI; di René Viénet, membro dell’I.S. dal 1961
al 1971, negli anni 1980-90 uomo d’affari, rappresentante e consigliere a Taiwan
delle più grandi società francesi (la banca Paribas, Cogema, Framatome, Total,
etc. …)». Patrick Marcolini, Le mouvement situationniste. Une histoire intellectuelle,
L’échappée, Paris 2013, p. 310.
4) Josè Saramago, Saggio sulla lucidità, Einaudi, Torino 2004, p. 95.
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