Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Nell’ultima settimana di giugno l’OCSE ha spedito il suo ennesimo siluro contro il sistema previdenziale italiano, accusato di gravare in modo spropositato sulla spesa pubblica. L’accusa è priva di senso, poiché l’ente previdenziale italiano, l’INPS, non grava sulla spesa pubblica, ma vive dei contributi del lavoro dipendente e del lavoro autonomo, e inoltre copre una serie di spese assistenziali (dalla cassa integrazione agli assegni familiari), sgravando il bilancio dello Stato di questo onere.
I bilanci dell’INPS non sono in rosso, anzi questo ente è una vera miniera di soldi, tanto che è stato ammesso - unico ente pubblico - a far parte della proprietà della privatissima Banca d’Italia; una banca di diritto pubblico che appartiene a banche e compagnie assicurative private e fa, ovviamente, gli interessi dei privati, gravando - questa sì - in modo insopportabile sul bilancio dello Stato.
Come Mastro Don Gesualdo, ad onta delle sue origini umili e ignobili, l’INPS è stata ammessa, seppure in quota minoritaria, nella proprietà della esclusivissima banca centrale, poiché l’ente previdenziale, grazie ai contributi dei lavoratori, costituisce una fonte di denaro fresco, di “soldi veri”, di cui i privati hanno sempre un disperato bisogno.
Quindi l’INPS è sotto attacco non perché sia in perdita, ma per le risorse finanziarie illimitate di cui dispone. Questo è il motivo per il quale si sta progettando da tempo non soltanto di privatizzare il sistema previdenziale, ma anzitutto di privatizzare la stessa INPS, per mettere le mani sulla sua cassaforte e sul suo patrimonio immobiliare.
È interessante però capire chi sia, e cosa sia, il mittente delle accuse contro il sistema previdenziale, cioè l’OCSE, la sedicente Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo, che ha la sua sede centrale a Parigi. L’antenato di quella che poi si sarebbe chiamata OCSE, fu fondato nel 1948 per volontà del Fondo Monetario Internazionale, la banca privata che gestisce l’economia mondiale per conto di quell’altra banca privata che gestisce l’economia statunitense, la Federal Reserve. Quali siano stati i compiti specifici dell’OCSE nell’economia europea e mondiale, nessuno l’ha mai capito, o, quantomeno, nessuno è mai riuscito a spiegarlo, se non con le solite arrampicate sugli specchi. In realtà l’OCSE non svolge alcuna funzione di carattere strettamente economico, ma è essenzialmente una agenzia di propaganda, o, per essere più precisi, di guerra psicologica, al servizio degli interessi del colonialismo statunitense.
Propaganda e guerra psicologica sono concetti distinti, anche se non separabili. La funzione della guerra psicologica è di far crollare il morale del nemico, provocargli uno stato confusionale tale da abbassare le sue difese e la sua volontà di resistenza all’aggressione. La guerra psicologica ha raggiunto il suo scopo, quando l’aggressore viene percepito come un salvatore. Da questa ultima formula, si comprende che gli Stati Uniti sono i maestri incontrastati della guerra psicologica.
La privatizzazione è un saccheggio delle risorse pubbliche, ma deve essere fatta passare come un salvataggio dell’economia, e i rapinati devono essere messi nello stato d’animo dei profughi a cui è stato offerto il conforto di una zuppa calda. Spesso la psico-guerra induce nelle vittime persino il timore di difendersi, come se per essere degni di resistere al rapinatore fosse necessario poter vantare una sorta di perfezione morale. Nel caso della privatizzazione dell’INPS, si può essere certi che basterà alla psico-guerra rinfacciare che l’ente previdenziale fu fondato a suo tempo da Mussolini, e che oggi è un feudo dei vertici sindacali, per indurre gran parte della sinistra a ritenere moralmente sconveniente difenderlo.
Non bisogna sopravvalutare le forze reali della “superpotenza” statunitense, che è molto meno “super” di quanto riesca a far credere. Lo strapotere coloniale dell’oligarchia statunitense si fonda soprattutto sul fatto di costituire un sicuro punto di riferimento per i reazionari di tutto il pianeta, un alleato a disposizione per tutti i cleptocrati - o aspiranti tali - del mondo. “Privatizzazione” è una di quelle parole che accendono cupidigie e speranze di partecipare al saccheggio, anche in una parte delle popolazioni sottoposte all’aggressione coloniale, quindi costituisce un indiretto appello al collaborazionismo.
Per la nostra Confindustria, la crisi costituisce infatti un ottimo pretesto per brandire la bandiera delle privatizzazioni, nella speranza di partecipare, anche se in funzione subordinata, al saccheggio organizzato dalle multinazionali statunitensi. Si progetta perciò di privatizzare non soltanto l’INPS, ma anche l’ENI e l’Enel (che sono SPA, ma controllate dallo Stato), e persino l’istruzione e i servizi del Pubblico Impiego. In questi progetti di rapina coloniale, le tecniche di guerra psicologica svolgono una funzione decisiva: anche quelli che ci appaiono come uomini di governo sono in realtà icone di guerra psicologica, la cui presenza fisica deve risultare talmente squallida da suscitare nei colonizzati uno stato d’animo di depressione, disperazione, vergogna.
Il Dipartimento di Stato USA nelle settimane scorse è stato molto impegnato per tentare di organizzare in Iran uno di quei colpi di Stato denominati “rivoluzioni colorate”; un tentativo operato in combutta con l’ala clepto-clericale del regime iraniano, capitanata da Mousavi e dall’ayatollah Rafsanjani, i due alfieri della privatizzazione del petrolio e del gas.
I media ci hanno proposto negli ultimi giorni lo scenario di una rivolta giovanile e femminile in Iran, contro l’oppressione oscurantistica del clero sciita; solo che gli stessi media hanno dimenticato di spiegarci come mai i punti di riferimento di questa presunta rivolta anticlericale fossero esponenti del clero in servizio permanente effettivo, come appunto Mousavi, Rafsanjani, ed anche la figlia di quest’ultimo. Lo stesso Ahmadinejad deve la sua popolarità tra le masse non alla fama di uomo tutto d’un pezzo - che non ha saputo ancora conquistarsi -, ma al semplice fatto di non essere prete, in una scena politica in cui lo sono quasi tutti; dato che “prete”, nel senso comune iraniano, è diventato sinonimo di corrotto.
Fallita, almeno per il momento, la “rivoluzione colorata” in Iran, gli USA hanno però avuto modo immediatamente di dimostrare di possedere altre frecce al proprio arco. Le rivoluzioni colorate costituiscono uno degli ultimi ritrovati della scienza colonialistica, ma non hanno sostituito del tutto i vecchi arnesi del manuale del colonialismo. In Honduras il Dipartimento di Stato USA ha cercato infatti di far cadere un regime inviso alle multinazionali ricorrendo al caro vecchio colpo di Stato militare, in perfetto accordo con lo schema tradizionale degli interventi statunitensi in America Latina.
Nel gergo politico statunitense, il termine “Honduras” non si riferisce soltanto al Paese in oggetto, ma indica anche una sorta di colonia-modello, in cui è possibile applicare alla lettera il vangelo del Fondo Monetario Internazionale senza suscitare proteste. In questa colonia ideale, eppure reale, le multinazionali possiedono quasi tutto, ma non pagano tasse: un privilegio concesso anche alla Chiesa Cattolica, che ha anch’essa il suo bel patrimonio immobiliare, che ne fa il secondo proprietario del Paese. I salari in Honduras sono inoltre sotto la soglia di sopravvivenza, la vita media è bassissima, la mortalità infantile elevatissima. Insomma, il paradiso della democrazia e del capitalismo.
Dopo la breve guerra tra Russia e Georgia dell’agosto 2008, che dimostrò l’eccessivo ottimismo del piano statunitense di accerchiare e umiliare la Russia, negli Stati Uniti furono mosse alcune critiche al modo in cui l’amministrazione Clinton negli anni ’90 aveva condotto i rapporti con la stessa Russia, pretendendo di trattarla come se fosse l’Honduras (queste critiche furono riportate e commentate nelle Newscomidad del 14/8/2008: “La Russia, l’Ossezia e il modello Honduras”).
Questi richiami sprezzanti all’Honduras devono aver portato sfortuna, poiché, valutando le reazioni suscitate dal colpo di Stato contro il presidente Manuel Zelaya, si può oggi riscontrare che neppure all’Honduras è più possibile applicare tout-court il modello Honduras.
Per capire quanto le cose siano cambiate in America Latina, basta paragonare la reazione attuale della Organizzazione degli Stati Americani, con l’atteggiamento tenuto dalla stessa organizzazione in occasione dell’invasione statunitense dell’isoletta di Grenada del 1983.
Il fantoccio presidenziale USA di allora, Ronald Reagan, giustificò l’invasione di un Paese inerme ed il rovesciamento di un governo democraticamente eletto, con una serie di presunti pericoli per la sicurezza nazionale. Ai giornalisti americani ed europei fu ovviamente impedito di verificare i fatti in base allo stesso pretesto - sicurezza nazionale -, e i giornalisti furono felici, allora come adesso, di collaborare al bene comune. Collaborò soprattutto l’Organizzazione degli Stati Americani, che addirittura offrì una partecipazione formale ed una copertura legale a quell’aggressione.
Mentre oggi i giornalisti euro-americani sono rimasti coerenti con l’atteggiamento servile di allora, l’OSA stavolta si è rifiutata di avallare persino un banale colpo di Stato, che poteva essere benissimo liquidato come una questione interna all’Honduras. Questa era la linea che il segretario di Stato USA, Clinton, aveva adottato all’inizio della vicenda, ma poi la povera Hillary ed il povero Barack sono stati costretti ad adottare un atteggiamento ancora più ipocrita e viscido del loro solito, poiché nessun governo latino-americano era disposto a seguirli sulla versione del golpe come questione interna all’Honduras.
All’ONU le cose sono andate anche peggio per gli Stati Uniti, poiché l’Assemblea Generale, sulla linea dell’OSA, ha negato qualsiasi copertura legale ai militari golpisti, che pure potevano esibire una specie di mandato della Corte Suprema dell’Honduras e, soprattutto, una benedizione ufficiale da parte del clepto-clero cattolico. È vero che un voto dell’Assemblea Generale dell’ONU non conta nulla, ma per gli Stati Uniti rimane comunque da registrare un insuccesso della loro propaganda, che ha trovato credito solo nella credula e servile Europa, dove l’accusa di antiamericanismo suscita più che timore, terrore, anche nella cosiddetta “sinistra radicale”.
L’espediente propagandistico dell’avallo ai golpisti da parte della Corte Suprema e dei vescovi dell’Honduras, non poteva affascinare i Latino-Americani, poiché questi sanno benissimo che il colonialismo non implica soltanto un’aggressione dall’esterno, ma anche una guerra civile all’interno: non esiste colonialismo duraturo senza collaborazionismo. Le eccezioni del vescovo Romero, e dei tanti missionari cattolici uccisi in America Latina, hanno permesso ai media di costruire un mito sul ruolo progressista della Chiesa Cattolica in quel continente.
In realtà, negli anni ’80, la Chiesa Cattolica attaccò senza scrupoli il governo democraticamente eletto dei Sandinisti in Nicaragua, schierandosi con i sanguinari Contras al soldo degli USA; mentre in Argentina la Chiesa offrì complicità ai militari nella vicenda dei desaparecidos. Il papa Woytila corse persino in Cile a sostenere Pinochet, e solo dopo decise di rifarsi una verginità incontrando Castro. Insomma, i Latino-Americani sanno benissimo da che parte stia realmente la Chiesa Cattolica, cioè con i propri interessi finanziari.
Il fatto che anche molti governi latino-americani abbiano dimostrato la stessa lucidità, è stato senza dubbio aiutato dal denaro derivante dal petrolio venezuelano, che il presidente Chavez distribuisce per allargare i suoi consensi politici e diplomatici nel continente. Anche Zelaya, un politico dal passato di filo-americano, si era lasciato affascinare dalla prospettiva che finalmente il potere dei soldi non stesse sempre e solo dalla solita parte.
Non si può ancora stabilire se Chavez sia un vero nazionalista latino-americano, oppure uno spregiudicato avventuriero che si fa forte dell’appoggio della multinazionale cinese Petrochina, ma sta di fatto che egli è divenuto una bestia nera per le multinazionali anglo-americane. La Exxon lo ha persino citato in giudizio davanti alle corti internazionali, per averle sottratto il petrolio venezuelano.
Solo un incallito dietrologo e seguace delle teorie del complotto potrebbe sospettare che dietro i tentativi di colpi di Stato contro Chavez, e dietro le continue accuse che questi riceve dai media e dalle ONG per i diritti umani, ci siano gli interessi affaristici delle multinazionali come la Exxon; dato che è a tutti evidente che gli affari non hanno alcuna parte in queste vicende, e che la Storia non è altro che la cronaca dello scontro tra gli ideali luminosi della democrazia da una parte, e il cieco fanatismo dall’altra.
Quali siano i sinceri intendimenti della Exxon, ce lo ha raccontato un epico film americano del 1969, “Hellfighters”(titolo italiano:”Uomini d’amianto contro l’inferno”), in cui John Wayne aiutava i Venezuelani ad estrarre il petrolio, dato che, poverini, non ce la facevano da soli. Nella sua opera meritoria, John Wayne era insidiato da perfidi guerriglieri comunisti, mossi soltanto da invidia sociale.
Per questo soccorso disinteressato al Venezuela, la Exxon tratteneva appena un modesto rimborso spese, un compenso puramente simbolico, che ammontava al 99% dei profitti sul petrolio estratto. Per la sua opera pia, Petrochina si trattiene invece solo il 50%; segno che si sente la coscienza molto più sporca rispetto agli immacolati Anglo-Americani.
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