Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Un luogo comune ricorrente è che esistano molte ideologie tra loro in conflitto. In realtà in ogni epoca l’ideologia è unica, quella dominante, mentre le ideologie alternative difficilmente raggiungono lo stadio di opposizione, anzi, rimangono al livello di astrazione, per cui gli stessi che affermano di professarle in effetti si attengono all’ideologia dominante.
L’ideologia attualmente dominante può essere identificata nel politicamente corretto, che costituisce una sintesi del liberismo finanziario globalista con la retorica morale della “sinistra”, in nome di una presunta comune lotta ai “populismi” ed ai “nazionalismi”, etichette indifferentemente appiccicate a chiunque metta in discussione le gerarchie coloniali, ed anche a chi semplicemente finga di farlo per riscuotere consensi elettorali.
Un esempio di questa sintesi del politicorretto ce la fornisce l’economista “bocconiano” Roberto Perotti, il quale, a proposito degli sperati finanziamenti del “Recovery Fund”, ammonisce gli Italiani a non trasformare quei finanziamenti europei, che non sono “gratis”, in spesa facile, in occasione di “mangiare”, secondo gli “atavici” mali italiani. L’accesso al palcoscenico finanziario sovranazionale deve essere quindi accompagnato da una palingenesi morale. Ma i liberisti non ci avevano sempre detto che la superiorità del capitalismo sul socialismo starebbe proprio nella sua capacità di coinvolgere l’uomo reale così com’è, compresi i suoi difetti? Ora invece ci si chiede uno sforzo di autoeducazione al cui confronto lo “Hombre Nuevo” di Fidel Castro era uno scherzo.
Queste pretese palingenetiche di Perotti hanno affascinato il giornalista Federico Rampini, che è stato anche uno dei principali esegeti del “pensiero” di Donald Trump, da lui ritenuto un interprete della “pancia” degli USA. Trump ha riscosso molti proseliti per il suo approccio politicamente scorretto e non ci si è resi conto che il politiscorretto non è altro che un’appendice complementare del politicorretto, che ha bisogno di darsi conferme in negativo, visto che in positivo non ne può avere. L’unico modo in cui il politicorretto può dissimulare la propria contraddittorietà e inconsistenza, è infatti quello di creare i suoi “mostri”, i suoi bersagli fittizi. Le palingenesi morali prospettate dal politicorretto non si realizzano mai, in compenso è possibile surrogarle prendendo le distanze da modelli negativi, personaggi-simbolo che hanno la specifica funzione di far indignare.
A comprendere per primo quale potesse essere il potenziale simbolico di Trump, è stato il “miliardario filantropo” George Soros, che ha “creato” il mito di Trump, accreditandolo agli occhi dei “sovranisti” con la propria ostilità. Un’ostilità troppo esibita per non sospettare che si tratti appunto di un espediente per attribuire importanza ad un personaggio gonfiato e facilmente strumentalizzabile a fini di propaganda.
Il Cialtrone della Casa Bianca possiede infatti la stessa qualità del Buffone di Arcore, cioè la capacità di suscitare un odio catartico, come se il fatto di odiarlo avesse la virtù di mondare dai propri peccati. Ci si riferisce ovviamente al Buffone di Arcore dei bei tempi andati, non a quello attuale, ridotto a fare da fattorino del “più-europeismo” e impegnato a distribuire patetica pubblicità ingannevole a favore del MES.
Il Cialtrone della Casa Bianca in questi giorni si è rivelato anche il “Gonzo” della Casa Bianca, poiché, di fronte al montare delle rivolte popolari innescate dall’ennesimo efferato assassinio della polizia, si è convinto di seguire i consigli di chi lo esortava ad imitare il Nixon degli anni ’60 e ’70, quello che faceva appello alla “maggioranza silenziosa”. In realtà la “maggioranza silenziosa” non esiste più, dato che è svanita quell’illusione del ceto medio di potersi identificare con l’establishment. Ovunque il ceto medio si sente in bilico e teme di sprofondare nella povertà e, di fatto, in molti casi davvero ci sprofonda senza prospettiva di risalita, specialmente negli USA.
Un altro errore indotto dai cattivi consiglieri è stato quello di fare appello all’esercito per fronteggiare le rivolte. Trump evidentemente non si è accorto che le forze armate americane sono oggi in maggioranza composte proprio da minoranze etniche: afroamericani e ispanici; un dato che ha prudenzialmente indotto il Pentagono a rifiutare l’offerta di Trump di gettarsi nella mischia.
All’inizio delle rivolte Trump non ne rappresentava il principale bersaglio, dato che il fattaccio all’origine delle rivolte era avvenuto a Minneapolis, una città governata da una giunta democratica; e negli USA la polizia dipende dall’amministrazione municipale. Ma ora Trump, col suo atteggiamento, si è posto come l’odiosa e odiata controparte dei rivoltosi. In tal modo ha fatto da sponda al tentativo di riassorbire le rivolte nei canoni del politicorretto. Il candidato democratico Joe Biden si è fatto alfiere di questa operazione incontrando la famiglia della vittima della violenza poliziesca, un’iniziativa che gli ha procurato il sostegno dell’establishment repubblicano.
Il mito di Trump, in positivo o in negativo, riesce a sopravvivere ad ogni smentita e ad ogni evidenza contraria, alimentando continuamente leggende. Prendendo a pretesto il comportamento di Biden, alcuni hanno addirittura costruito l’ipotesi che questa ondata di proteste sia in realtà una sorta di “rivoluzione colorata” organizzata contro Trump. Questa interpretazione si basa però su una sfacciata forzatura, poiché è stato proprio Trump a volersi porre come principale avversario del malcontento popolare, ricorrendo immediatamente alle minacce, senza neppure passare per il rituale delle ipocrite espressioni di comprensione per il disagio sociale.
Sempre Trump ha ricondotto la polemica sulla natura delle rivolte agli stretti termini del gioco delle parti tra politiscorretto e politicorretto, poiché ha preteso di attribuire la responsabilità dei disordini a gruppi politicorretti come Antifa che, al di là di una vernice di radicalismo, si muovono nell’alveo di un falso antifascismo che pretenderebbe di individuare il pericolo razzista solo nell’estrema destra, come se il razzismo non fosse alla base delle stesse gerarchie coloniali internazionali, nelle quali ci sono i popoli superiori e i popoli inferiori, i popoli “virtuosi” e i popoli che invece devono redimersi dai “mali atavici” che li affliggono.
Con lo slogan “law and order”, Trump ha evocato nella mente di tutti il titolo di quella annosa serie televisiva in cui si spettacolarizzano e si celebrano squallide vicende di macelleria giudiziaria. Se Trump avesse davvero voluto uscire dal recinto del politicorretto, anzitutto non avrebbe dovuto avallare l’allarmismo dei media e di tutti quelli che parlano di “guerra civile”, riconoscendo che la rivolta è del tutto fisiologica in un Paese che non solo non possiede ammortizzatori sociali, ma soprattutto vanta un sistema repressivo sempre ferocemente esagerato, sproporzionato sia nei metodi, sia nelle pene erogate, tanto che negli USA ci sono più di due milioni di detenuti. Negli USA basta troppo poco, o anche nulla, per essere sbattuti in carcere e finire a fare da schiavo legalizzato in un sistema penale che è un gigantesco business dello sfruttamento del lavoro. Data l’entità del business, non c’è da stupirsi che gli USA abbiano la più alta percentuale mondiale di detenuti in proporzione agli abitanti. Non c’è tanto da stupirsi neppure del fatto che molti cittadini con le rivolte colgano l’occasione per riequilibrare un po’ la bilancia tra il delitto e il castigo o, per meglio dire, tra il delitto individuale e il delitto di Stato.
Negli USA i cicli di rivolte tendono di solito ad esaurirsi in giorni o settimane ed è chiaro che eventi del genere non sono in grado di mettere in crisi la tenuta di un sistema. Il rischio però stavolta è che, grazie a Trump, ci sia persino una sorta di “reductio ad politicorrectum” delle rivolte. La retorica politiscorretta di Trump si è rivelata ancora una volta funzionale al dominio ideologico del politicorretto. L’operazione di riassorbimento ideologico delle rivolte è ancora in corso e non è scontato che riesca; ma certamente è stato proprio Trump a favorirla addossandosi la parte del mostro contro cui convogliare la rabbia popolare.
Nonostante la grancassa mediatica abbia portato al parossismo i toni celebrativi, comincia a farsi strada la consapevolezza che il Recovery Fund, proposto da Francia e Germania e adottato dalla Commissione Europea, sia in effetti una presa per i “fundelli”. In cambio di promesse di futuri aiuti, l’Italia dovrebbe immediatamente contribuire per l’ampliamento del bilancio europeo. Insomma, il dato concreto è che il governo italiano dovrebbe sborsare subito una novantina di miliardi, mentre il resto è fumo. I finanziamenti “promessi” dovrebbero poi giungere nell’arco di tre anni a partire dal 2021 e, ammesso che si riesca a superare le condizioni poste, la differenza tra quanto versato e quanto eventualmente riscosso non comporterebbe una copertura dei rischi del proprio debito pubblico.
C’è chi sollecita il governo ad affidarsi al finanziamento interno del debito pubblico invogliando i risparmiatori italiani ad acquistare i BTP. Ma dopo il successo del BTP “Italia”, il Tesoro non appare intenzionato a ripetere la performance, tanto che ha elaborato un BTP “Futura” dal meccanismo oscuro, aleatorio e complicato, fatto apposta per scoraggiare il piccolo risparmiatore. I “Mercati”, cioè i grandi investitori istituzionali, hanno subito accolto la notizia del BTP "Futura" provocando un aumento dello spread, per festeggiare lo scampato pericolo del vedersi soppiantati dal piccolo risparmio, che in Italia potrebbe assicurare una copertura del debito per centinaia di miliardi. Non c’è ora più nessun timore per gli “investitori istituzionali”, che hanno potuto riscontrare che il loro lobbying all’interno del Tesoro controlla pienamente la situazione.
Il governo italiano quindi continuerà la recita del povero bisognoso, per poi spacciare all’opinione pubblica l’istituzione del Recovery Fund come una vittoria. Esattamente otto anni fa, nel giugno del 2012, il governo Monti fece altrettanto nell’occasione dell’istituzione del Fondo Salva Stati, il MES. Non soltanto il quotidiano “La Repubblica”, aedo ufficiale del governo Monti, presentò il Fondo Salva Stati come un grande risultato, ma anche giornali critici verso quel governo, come il “Fatto Quotidiano”, narrarono di una “sconfitta” della Merkel e propinarono ai loro lettori la fiaba di un inesistente scudo anti spread.
La “vittoria” di Monti consistette nel versamento di decine di miliardi da parte dell’Italia nelle casse del MES per tappare i buchi di bilancio delle banche tedesche, francesi ed anche spagnole. La mistificazione sul MES continuò anche dopo, infatti quella filodrammatica che va sotto il nome di Corte Costituzionale tedesca, tenne sulla corda l’opinione pubblica per altri tre mesi, partorendo con fatica una sentenza che apparve come una concessione. Lo stesso Monti, con felice incoerenza, dimostrò di non credere per niente alla propria “vittoria”, decidendo di non chiedere i finanziamenti del MES poiché l’Italia, per farsi prestare a strozzo una parte dei propri soldi già versati, avrebbe dovuto accettare, come la Grecia, un commissariamento da parte della Troika UE-BCE-FMI.
Rappresentata all’opinione pubblica come un Paese in eterno dissesto, l’Italia continua in realtà a svolgere il ruolo di vacca da mungere o da pollo da spennare. Tra i Paesi che dovrebbero ricevere i maggiori finanziamenti da parte del Recovery Fund c’è infatti la Polonia, che pure non presenta alcun particolare segnale di sofferenza economica o finanziaria. Il punto è però che la Polonia è il Paese di confine della NATO e, come tale, ha diritto ad un trattamento di riguardo da parte di quell’organizzazione di supporto alla NATO che è l’Unione Europea.
La propaganda ufficiale, compreso il mitico Report, ci intrattiene da anni sul come siano bravi i governi polacchi a spendere i fondi europei, mentre noi non lo sappiamo fare. Il quotidiano confindustriale “Il Sole 24 Ore” ha pubblicato un’intervista ad un eurocrate gestore dei fondi per sapere come mai in Polonia i finanziamenti europei producano tali mirabilie mentre nel Mezzogiorno d’Italia non c’è nulla del genere. Le risposte dell’intervistato si sono basate sui consueti schemi razzistici, a conferma che i Polacchi, a causa dei loro meriti anti-russi, sono stati ormai integrati a tutti gli effetti nella mitologia della razza nordica.
A distanza di qualche mese lo stesso quotidiano confindustriale ci spiegava in altro modo l’arcano: il governo italiano semplicemente non distribuisce i fondi europei destinati al Mezzogiorno per mantenere intatto l’attivo del bilancio primario, cioè quello al netto degli interessi sul debito pubblico. Una volta tanto il quotidiano confindustriale forniva un esempio concreto del ruolo del Mezzogiorno come colonia deflazionistica, cioè un’area del Paese in cui la spesa corrente viene costantemente bloccata per preservare i residui di bilancio.
C’è un caso però in cui il governo sblocca i fondi europei per il Sud con una certa celerità, ed è quando occorre finanziare le infrastrutture per le basi NATO. “Grazie” alla nuova base NATO l’area di Giugliano in Campania si è vista finanziare vari progetti, tra cui un piano di riassetto idrogeologico, in modo da poter sistemare le infrastrutture idriche e fognarie per i nuovi stabilimenti militari.
Pare che le basi militari c’entrino anche nel caso dei fondi europei destinati alla Polonia. Il governo polacco ha infatti invitato gli USA ad allestire una base militare sul suolo polacco in funzione anti-russa; una struttura che dovrebbe essere battezzata come “Fort Trump”. I due miliardi di dollari che il governo polacco vorrebbe stanziare per la base non sono stati ritenuti ancora sufficienti dall’Amministrazione USA, perciò l’iniziativa è in stallo. Con i nuovi fondi europei la Polonia potrebbe convincere gli USA che, di certo, hanno tutta l’intenzione di farsi convincere.
Nella narrazione mediatica il regime polacco viene incasellato tra i nazionalisti e i sovranisti. Sarebbe sin troppo ovvio chiedersi che nazionalismo sia quello che sollecita l’occupazione del proprio territorio da parte di una potenza straniera, cercando di persuaderla pagando persino di tasca propria. Il problema vero riguarda però la stessa categoria di nazionalismo, che si rivela inconsistente ogni qual volta si esce dalla narrativa astratta e si entra nei dettagli. Secondo i commentatori ufficiali, uno dei maggiori indizi del nazionalismo polacco consisterebbe nel rifiuto del suo governo di accogliere quote di migranti. In realtà la Polonia non può diventare in nessun caso una meta di migrazione poiché ha una moneta troppo debole, lo zloty, che in questi anni ha già svalutato molte volte. L’unica possibilità per i migranti di trasformare i loro magri guadagni in qualcosa di più sostanzioso, sta invece nel cambio da una moneta forte ad una moneta debole. Anche se la Polonia accogliesse i migranti, questi per far sopravvivere con le loro rimesse le proprie famiglie rimaste in patria, sarebbero comunque costretti a cercare di passare in Germania. La “xenofobia” polacca rientra quindi nel solito gioco delle parti, mentre il vero obbiettivo è evitare una pressione migratoria alla frontiera tedesca.
I nazionalismi non esistono come soggetti politici e gli attori in campo sono sempre gli imperialismi oppure i sub-imperialismi, cioè gli imperialismi minori a base regionale sotto la tutela di un altro imperialismo. Il regime polacco quindi aspira a svolgere un ruolo sub-imperialistico nell’area dell’Europa Orientale, sotto l’ombrello dell’imperialismo planetario degli USA. Anche in questa circostanza i contribuenti italiani potrebbero svolgere la loro utile funzione di bancomat per finanziare le velleità imperialistiche dei partner europei.
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