Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
(Riflessioni sul testo di Camillo Berneri: “Mussolini alla conquista delle Baleari”,
reperibile integralmente ai seguenti indirizzi: www.iperteca.it/download.php?id=1636 ;
http://www.liberliber.it/biblioteca/b/berneri_camillo/mussolini_alla_conquista_delle_baleari/pdf/mussol_p.pdf ; www.intratext.com/IXT/ITA3047_P9.ATM-35k )
L’11 febbraio ultimo scorso ha segnato il settantesimo anniversario della fine della guerra di Spagna, un anniversario che intendiamo ricordare segnalando un opuscolo di Camillo Berneri, “Mussolini alla conquista delle Baleari”, pubblicato nel 1937, dopo il suo assassinio perpetrato nelle vie di Barcellona.
La propaganda dei vincitori della seconda guerra mondiale ha mistificato la guerra di Spagna nei termini di una questione essenzialmente interna, la cosiddetta “guerra civile spagnola”. Parlare di “guerra civile spagnola” è esattamente come riferirsi al conflitto del Vietnam nei termini di “guerra civile vietnamita”.
Da queste pagine di Berneri, risulta chiaramente che la guerra civile fu solo un aspetto, e neppure il principale, di un conflitto che fu promosso e condotto dal colonialismo di Mussolini nei confronti della Spagna; una aggressione coloniale che si proponeva un primo obiettivo preciso, la conquista e l’annessione delle Isole Baleari, che avrebbero costituito la posizione strategica da cui minacciare il dominio britannico sul Mediterraneo, che sino ad allora era stato garantito dal possesso della Rocca di Gibilterra, conquistata nel 1704 dalla Gran Bretagna a spese dell’allora “alleato” Regno di Spagna (un secolo dopo la Gran Bretagna sottrasse anche Capri all’allora “alleato” re Borbone di Napoli, ma fu poi Gioacchino Murat - re di Napoli per conto di Napoleone - a riconquistare l’isola).
Le cifre e i dati della guerra di Spagna confermano che essa fu la guerra di Mussolini e che, senza il supporto della Marina e dell’Aviazione italiane, Francisco Franco non avrebbe neppure potuto iniziare il suo attacco al governo repubblicano e, senza l’apporto delle truppe e dell’artiglieria italiane, neppure proseguirlo e condurlo a termine. Fiumi di denaro italiano - mai restituiti - consentirono a Franco di istituire le sue milizie ed il suo regime. L’Italia uscì finanziariamente e militarmente svenata dalla Guerra di Spagna, molto di più che dalla pur costosa guerra d’Etiopia.
Eppure nel settembre 1938, nel corso delle trattative di Monaco, Mussolini acconsentì a lasciare le Isole Baleari.
La Conferenza di Monaco è presentata dai vincitori della seconda guerra mondiale come l’”appeasement” di Gran Bretagna e Francia nei confronti delle pretese di Hitler, e “Monaco” è diventata una espressione usuale della propaganda occidentalista per indicare una resa delle “democrazie” nei confronti dell’aggressività dei “dittatori”.
Monaco costituì invece l’appeasement di Mussolini nei confronti dell’Impero Britannico, una ritirata ingloriosa dopo oltre un decennio di aggressività imperiale. A Monaco sembrò prevalere l’accordo prospettato da Hitler nelle pagine del suo “Mein Kampf”: alla Gran Bretagna l’impero dei Mari ed alla Germania l’impero di Terra nell’Europa dell’Est.
Dopo anni di velleitarismo imperiale italiano, Mussolini si accontentava del ruolo di mediatore tra l’impero britannico e quello tedesco, e tutta l’operazione spagnola si riduceva ad un favore nei confronti della Gran Bretagna, che non doveva più temere che la Spagna repubblicana diventasse un ponte per la presenza sovietica nel Mediterraneo.
Nel settembre del 1939, senza più minacce italiane al suo controllo su Gibilterra, la Gran Bretagna poté invece entrare in conflitto contro la Germania e, l’anno dopo, anche contro un’Italia ridotta ad alleato subalterno di Hitler. Tramite i buoni uffici e la mediazione della Chiesa Cattolica, la Gran Bretagna si assicurò anche la neutralità di Francisco Franco, che abbandonò senza rimpianti al suo destino Mussolini, che pure nel 1936 era stato il suo creatore.
Il Mussolini del 1938 e del 1940 non era più quello del 1936, descritto nelle pagine di Berneri, ma ciò non implica che quel Mussolini aggressivo colonialista non sia mai esistito. Il punto è che l’aggressione alla Spagna rappresentò l’apice delle velleità colonialistiche dell’Italia fascista, ma anche l’inizio del declino, poiché i tempi e i costi del conflitto superarono di gran lunga quelli che Mussolini aveva preventivato. La capacità di resistenza del proletariato spagnolo, nonostante la sua enorme inferiorità in termini di mezzi, costrinse Mussolini a mettere in campo risorse e truppe in un crescendo rovinoso per le casse dello Stato italiano.
I documenti che Berneri illustra sono utili a far capire quale sia stata l’entità dello sforzo italiano in quei primi mesi di guerra e, indirettamente, fanno anche comprendere quali siano state successivamente le conseguenze del dilazionarsi, per quasi tre anni estenuanti, di una vittoria che all’inizio si credeva a portata di mano.
Dalla testimonianza di fascisti “dissidenti” come Massimo Rocca, sappiamo che ci furono forti pressioni dall’interno del regime fascista nei confronti di Mussolini perché uscisse dall’avventura spagnola. Si mossero in tal senso sia un importante ideologo del regime come Luigi Federzoni, sia alti esponenti dell’industria e della finanza, e persino da parte della gerarchia cattolica - che pure aveva consacrato come crociata l’avventura spagnola -, ci si dimostrò disposti ad un compromesso.
L’ostinazione di Mussolini in un’impresa che affossava le sue velleità di superpotenza, fu dovuta probabilmente all’idea di utilizzare la Spagna come merce di scambio con la Gran Bretagna; almeno questa era l’ipotesi prospettata dal ministro degli Esteri Ciano, che rappresentava il partito anglofilo all’interno del regime. In realtà, una volta incassato il favore, la Gran Bretagna non aveva più nessun impedimento a togliere all’Italia il suo impero coloniale africano, perciò nel 1940 riuscì con varie provocazioni della sua Marina a smuovere Mussolini da una posizione di neutralità che egli ormai era troppo debole per contrattare.
Fu Mussolini perciò a traghettare l’Italia dalla posizione di potenza coloniale alla attuale condizione di colonia; ciò perché un colonialista non riesce ad uscire dalla logica del padrone-servo. Se Mussolini avesse ragionato in termini strategici, avrebbe concluso che, una volta tramontata la prospettiva di colonizzare la Spagna, allora il favorire la sua indipendenza sarebbe stato preferibile, piuttosto che lasciarla assorbire nella sfera d’influenza britannica; ma se avesse ragionato così non sarebbe stato più Mussolini.
L’unico modo per difendersi dal colonialismo è quello di estendere la lotta anticoloniale, aiutando l’indipendenza di altri Paesi. Fu proprio questo il programma che Berneri espose dalle colonne del suo giornale di lotta in terra di Spagna: “Guerra di Classe”. Mentre la propaganda della sinistra descriveva la guerra di Spagna in termini di confronto ideologico tra democrazia e fascismo, fu solo Berneri ad affermare che la Spagna era oggetto di un’aggressione coloniale, e che il suo principale strumento di difesa era quello di rinunciare a sua volta al proprio ruolo di potenza coloniale, concedendo l’indipendenza al Marocco spagnolo, che costituiva per Mussolini e Franco la base logistica per l’aggressione al territorio spagnolo.
Fu, con ogni probabilità, l’influenza staliniana sul governo repubblicano spagnolo ad impedire che venisse applicata la strategia anticoloniale proposta da Berneri, e ciò è conseguente ad una visione che confina il colonialismo a problema di certe aree del pianeta (quello che successivamente a Stalin sarebbe stato chiamato “terzo Mondo”), un problema che non può riguardare i Paesi europei e “occidentali”, in cui il conflitto viene prospettato sempre in base al confronto tra modelli sociali alternativi. Nel cosiddetto “Occidente”, l’anticolonialismo si è ridotto così a “terzomondismo”, pietistica solidarietà con i popoli oppressi, senza accorgersi che certe forme di dominio riguardano tutti e ovunque. In Italia oggi la questione dell’ingerenza degli Stati Uniti viene perciò travisata nei termini del confronto con il modello politico-sociale americano, dimenticandosi che gli Stati Uniti per l’Italia significano le centoquindici basi militari che occupano ed asserviscono il nostro territorio.
La formula staliniana del “socialismo in un solo Paese” ha spostato tutta la questione sul piano ideologico, aggirando il fatto che la Russia è stata - ed è tuttora - oggetto di una aggressione colonialistica. Anche il filosofo Domenico Losurdo, allorché ha rivisitato la figura di Stalin nel suo libro “Stalin, Storia e Critica di una Leggenda Nera”, ha proposto un’interpretazione dello stalinismo come “dittatura sviluppista”, continuando così ad aggirare la questione della pressione colonialistica sulla Russia.
Anche il movimento anarchico ha rimosso la lezione di Berneri sulla questione coloniale, al punto che quando l’allora direttore di “Umanità Nova” Armando Borghi reagì all’aggressione statunitense alla Baia dei Porci con il titolo “Giù le mani da Cuba”, molti compagni lo accusarono di sostenere il regime di Castro. In realtà Borghi non stava affatto sostenendo il regime di Castro, né il suo modello sociale, bensì stava semplicemente applicando l’abicì dell’anticolonialismo, che consiste nel distinguere tra l’aggressore e l’aggredito.
Persino oggi in molti compagni prevale il timore che prendere posizione contro le aggressioni statunitensi e israeliane, possa comportare uno “schierarsi” con l’islamismo. Il problema dell’islamofobia di sinistra comunque non riguarda solo, e neppure principalmente, il movimento anarchico; basti pensare che il maggiore organo di stampa della sinistra comunista ha addirittura prodotto una sorta di Oriana Fallaci di “sinistra”: Giuliana Sgrena.
Il colonialismo ha sempre avuto un’abilità propagandistica nel defilarsi e presentare le proprie aggressioni come la manifestazione di problemi interni ai Paesi aggrediti. Oggi si tratta del pericolo dell’integralismo islamico, ma nel corso della guerra coloniale di Spagna, il mondo venne invaso da una propaganda sul pericolo costituito dall’integralismo ateo degli anarchici, e sulla minaccia costituita dallo “spirito anarchico” del popolo spagnolo. La fotografia dei presunti miliziani anarchici che sparavano su una statua del Cristo, divenne una delle principali icone della guerra, e mai nessuno si è preoccupato di accertare l’autenticità di quella immagine (come del resto oggi nessun giornalista si dà la pena di verificare se sia reale la storia delle antiche statue di Budda fatte saltare dai Talebani in Afghanistan).
La trasformazione iconografica della guerra di Spagna in una guerra tra religione e irreligione, è stata un modo per far perdere di vista sia Gibilterra che le Baleari. Anche quando fatti e icone erano autentici, si è verificato spesso un effetto di ingigantimento di alcuni dettagli a scapito del contesto. È il caso di Guernica e del famoso quadro di Picasso che la riguarda, divenuto il simbolo della guerra di Spagna.
In realtà il crimine dell’aviazione tedesca a Guernica si colloca comunque in una presenza marginale della Germania di Hitler nella vicenda spagnola, che fu essenzialmente un’impresa di Mussolini, i cui massacri in terra spagnola sono caduti nel dimenticatoio. Nel suo testo Berneri annunciava che avrebbe voluto in seguito documentare le stragi commesse da Mussolini a Maiorca, ma gli fu impedito di proseguire in quest’opera.
La forte carica simbolica del capolavoro di Picasso è ancora utilizzata dalla propaganda ufficiale per de-storicizzare la guerra coloniale di Spagna, per collocarla appunto nel regno dei simboli, in cui certamente l’icona di Hitler risulta più suggestiva di quella di Mussolini, ma anche molto più fuorviante, dato che i nazisti erano in Spagna per sperimentare le loro nuove armi, e non per attuare un’impresa coloniale, come invece stava facendo il regime fascista.
Il caso della povera Eluana Englaro è stato per i media l’occasione per offrire un quadro idealizzato della società in cui viviamo; una società in cui l’opinione pubblica viene spinta a dividersi su valori “forti”: da un lato la libertà di scelta di morire, a fronte dell’impossibilità di una vita dignitosa, dall’altro lato l’affermazione intransigente della sacralità della vita.
Ora, pur senza nessun disprezzo e nessuna critica verso chi si appassioni a discussioni di questo genere, non si può fare a meno di notare l’irrealismo di questa rappresentazione mediatica, che appare lontana dall’esperienza concreta di chi abbia avuto parenti, amici o conoscenti in condizioni analoghe a quelle di Eluana.
Bisogna dare atto ad alcuni medici intervistati in questi giorni di aver cercato, per quanto inutilmente, di sfatare la mitologia mediatica, tentando di ristabilire la realtà della condizione ospedaliera, in cui il “lasciar morire” costituisce una decisione che appartiene molto più alla routine che allo scontro drammatico di valori.
Anche questa rappresentazione meno idealizzata, e più vicina alla realtà, non tiene conto di pratiche di vera e propria eliminazione dei pazienti, che di tanto in tanto passano come meteore all’attenzione dei media. L’ultimo caso eclatante avvenne proprio nella città natale di Eluana, a Lecco nel dicembre del 2004, quando un‘infermiera venne arrestata con l’accusa di aver ucciso dei pazienti. Queste pratiche di “eutanasia” ospedaliera vengono immancabilmente attribuite dai magistrati e dai media all’iniziativa di infermieri isolati, dotati inoltre di mirabolanti capacità di dissimulare per anni le loro attività omicide prima di essere scoperti.
Ad evitare che il pubblico si ponga a riguardo qualche domanda di troppo, le vicende di questi improvvisati “angeli della morte” scompaiono dai media con incredibile rapidità, per essere immediatamente dimenticati, come se non fossero mai avvenuti. È evidente quindi che gli “angeli della morte” sbattuti per qualche giorno in prima pagina, rappresentano solo il capro espiatorio di un sistema che sa dissimulare molto bene la realtà del suo funzionamento, ed a questo scopo rappresenta un mondo mitico con alternative inesistenti nella pratica. Tutto ciò che non va in questo mondo mitico, viene giustificato dai media con l’alibi della “mala sanità”, cioè il richiamo ad un insieme di inefficienze dei singoli che serve ad assolvere il sistema e le sue motivazioni.
La vicenda di Eluana si presenta, dal punto di vista mediatico, come la fotocopia di casi avvenuti, anche di recente, negli Stati Uniti, dove però la questione dell’accanimento terapeutico poggia su basi concrete, dovute al sistema sanitario basato sulle assicurazioni private. Negli Stati Uniti, quei pochi privilegiati che possono permettersi un’assicurazione sanitaria in grado di coprire ogni periodo e ogni livello di cura possibile, vanno incontro al rischio di essere tenuti in vita dalle strutture ospedaliere fino a che il potenziale finanziario della loro polizza assicurativa non sia stato spremuto completamente.
Lo sviluppo di tecniche sempre più sofisticate per mantenere in vita i malati terminali, si spiega così con un preciso interesse affaristico da parte di strutture sanitarie, per lo più private, che sfruttano sino in fondo la copertura garantita ai pazienti dalle agenzie assicurative. Avviene così che, mentre gli interessi delle strutture sanitarie finanziano campagne per la difesa della vita, le agenzie assicurative finanziano invece contro-campagne per il diritto dei pazienti ad una morte rapida e dignitosa.
Nel sistema sanitario europeo, che è soprattutto pubblico, non si verifica un analogo scontro di interessi, perciò qui i casi mediatici montati attorno a sciagure personali come quelle di Eluana servono appunto a raffigurare una fiaba utile ad allontanare la percezione della reale condizione dei pazienti. In queste rappresentazioni mediatiche, non manca mai la voce ottusa e irritante della Chiesa Cattolica, che ormai svolge la funzione di una sorta di pupazzo meccanico da azionare a comando, che fa scattare in una parte dell’opinione pubblica un riflesso di anticlericalismo ingenuo, utile a far perdere di vista la reale condizione dei pazienti.
Non è una coincidenza, ad esempio, che tra i casi segnalati di pazienti in coma irreversibile per i quali si pongano le drammatiche alternative proposte dai media, non vi sia nessun adolescente che si sia rotto la testa andando in motorino senza casco. Questi ricoverati sani e di giovane età presentano sempre stati comatosi che conducono immancabilmente a rapidi decessi, utili ad spiantare, altrettanto rapidamente, i loro organi.
In Europa la sanità, per quanto ufficialmente pubblica, è ugualmente subordinata ad interessi privati; anche se questi interessi privati hanno comunque da recriminare circa un difetto imperdonabile delle strutture pubbliche, cioè l’inconveniente che i pazienti, una volta entrati, non possano sparire nel nulla.
Se si riflette sull’ultima sortita del governo Berlusconi, che ha annunciato di voler imporre ai medici la denuncia degli immigrati clandestini, si comprende che il suo scopo va proprio nel senso auspicato dagli interessi privati.
L’annuncio del governo è destinato a rimanere tale, poiché una legge che imponesse l’obbligo di denuncia ai medici andrebbe in conflitto con la stessa legislazione nazionale ed internazionale vigente. Rimane però l’effetto-annuncio, cioè il timore suscitato negli immigrati clandestini dalla campagna mediatica in corso. Un immigrato che si ricoveri in una struttura ospedaliera pubblica rischia sì di essere sottoposto ad operazioni che abbiano un scopo puramente sperimentale, ma non deve temere di sparire.
Ma da ora in poi gli immigrati clandestini avranno delle remore a rivolgersi a strutture pubbliche e potrebbero più facilmente cadere preda di strutture private che operino in una sorta di tollerata clandestinità, e che gli offrissero “soccorso” accampando motivi umanitari. È chiaro che in strutture del genere sarebbe molto più facile che i pazienti sparissero, per diventare organi da trapiantare o materia prima per produzioni farmaceutiche.
Lo stesso procedimento è stato attuato per sabotare la legge sull’aborto pubblico e per incentivare le donne a rivolgersi a strutture private. Anche qui, a livello ufficiale, la legge non è stata toccata, ma le campagne messe in atto a suo tempo da Giuliano Ferrara su alcuni casi di aborto, hanno determinato in molte donne il timore di trovarsi al centro dell’attenzione una volta che si rivolgessero a strutture pubbliche.
Mentre i feti e gli embrioni nelle strutture pubbliche devono essere distrutti, poiché così impone la legge, nel settore privato i feti e gli embrioni possono trasformarsi in materia prima per le case farmaceutiche, che li utilizzano oggi per tutta una nuova gamma di prodotti.
Più la realtà della sanità diviene cruda ed insensibile alla dignità delle persone, più la fiaba mediatica dovrà rappresentare un mondo in cui si agitino solo astratti valori morali in conflitto tra loro.
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