Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Scongiurata (per ora) la terrificante eventualità di un governo Cottarelli, cioè di un governo del Fondo Monetario Internazionale, resta comunque da fare i conti con la terrificante prospettiva di un governo. Ogni governo è infatti come un lenzuolo che rischia di essere animato dall’ectoplasma del lobbying. Un governo Cottarelli avrebbe significato essere governati direttamente dalla centrale mondiale del lobbying finanziario, cioè il FMI; ma ciò non vuol dire che il lobbying finanziario non abbia altre strade per farsi valere.
In molti hanno notato che il governo Lega-5 Stelle è nato in “coincidenza” con il dispetto antitedesco dei dazi partito da Washington. Dispetti contro i Tedeschi erano stati fatti già all’epoca di Obama (la multa a Deutsche Bank, lo scandalo Volkswagen), ma ora il litigio tra USA e Germania è plateale; e, quando i due tuoi padroni litigano, per i servi, come l’Italia, c’è un po’ più di spazio di manovra. La politica antitedesca di Washington rimane ancora a livello dei dispetti anche sotto l’Amministrazione del cialtrone Trump; ed il permettere la nascita in Italia di un governo inviso a Berlino può costituire un altro dispetto. Certo che se il padrone A (gli USA) ed il padrone B (la Germania) si rimettessero d’accordo, per Conte le cose si metterebbero male immediatamente.
La formazione del governo Conte ha rappresentato la sconfitta (almeno momentanea) del tentativo tedesco di collocare preventivamente l’Italia sotto i vincoli di bilancio imposti dal FMI, visto che l’anno prossimo, con la fine del “quantitative easing” di Mario Draghi, tutto l’impianto dell’euro rischia di accartocciarsi su se stesso. Un’Italia legata mani e piedi al FMI, non solo non avrebbe potuto giovarsi della fine dell’euro e non avrebbe potuto insidiare l’attivo commerciale germanico, ma soprattutto rimarrebbe per sempre vittima della lobby della speculazione sui debiti pubblici, che non è una lobby solo tedesca. La “sovranità” è un concetto astratto, mentre la capacità di spesa è un dato concreto; perciò porre dei limiti alla spesa vuol dire asservire un Paese.
L’ex Presidente Napolitano non ha rinunciato ad una sortita contro l’attuale governo, esortandolo a “non ingannare l’Europa”. L’Europa è un inganno, quindi sarebbe una strana pretesa quella di poterla ingannare. L’europeismo non esiste, è lo pseudonimo di una macchina del lobbying finanziario.
Napolitano avrebbe il sacrosanto diritto di considerare l’attuale governo come una propria creatura. Senza la totale delegittimazione del sistema politico operata da Napolitano dal 2010 in poi, il tracollo di PD e Forza Italia sarebbe stato impensabile. Lo stesso Napolitano ha inferto un’ulteriore accelerazione alla caduta del sistema quando ha avallato la liquidazione del governo Letta per insediare il governo Renzi. Evidentemente il povero Enrico Letta non aveva fatto abbastanza danni: aveva sì dato un contentino al FMI prendendo Cottarelli come commissario alla “spending review”, ma lo rendeva relativamente innocuo pagandolo per non far nulla. Letta, l’uomo che avrebbe voluto “morire per Maastricht” aveva forse cominciato a capire che con l’Europa rischi di morirci davvero, che l’iperbole retorica stava diventando realtà.
Nell’Unione Europea infatti non vi è nulla di più pericoloso che darsi da fare, soprattutto per andare a “negoziare”. Renzi è corso a Berlino e Bruxelles a negoziare margini di “flessibilità” di bilancio ma, in cambio, ha dovuto fare le “riforme strutturali” che gli hanno tagliato i ponti con l’elettorato del PD; non solo con l’elettorato di opinione, ma anche col voto organizzato, che può essere attratto solo da una spesa pubblica a largo raggio.
A parte la farsa degli ottanta euro, i miliardi della flessibilità di bilancio si sono invece concentrati in una pioggia di sussidi e di sgravi alle imprese che hanno sortito un effetto nullo sulla produttività e sull’occupazione. Beninteso, Renzi era tutto contento di fare quelle “riforme strutturali” e di potersi per questo pavoneggiare con la Merkel e con Draghi. Sta di fatto che nessuno del suo partito ha avuto un sussulto di istinto di conservazione e nessuno lo ha fermato perché, appunto, ormai c’era un accordo “europeo” da rispettare. In quest’ultimo decennio il PD non ha fatto la guerra al populismo ed al sovranismo ma a se stesso, al suo ruolo di mediatore sociale che dovrebbe essere tipico di un partito politico. Con Renzi questa guerra del PD contro se stesso ha assunto toni grotteschi, arrivando alla criminalizzazione/ridicolizzazione del vecchio gruppo dirigente ed alla caccia spietata nei confronti di amministratori locali del PD come Ignazio Marino.
Anche l’attuale governo, se davvero vorrà andare a Bruxelles a “negoziare”, si aprirà ai cavalli di Troia del lobbying, dovrà dare qualcosa in cambio per ottenere qualcosa; e quel “qualcosa” ottenuto ancora una volta sarà sperperato e bruciato dall’altro “qualcosa” concesso. Si va ai negoziati con il proposito di insegnare al papa a dir messa, di spiegare alla Merkel i veri interessi della Germania (come se la Merkel non fosse a sua volta una semplice cinghia di trasmissione del lobbying); poi ci si ritrova avviluppati nella rete degli impegni presi.
L’aspetto più inquietante delle dichiarazioni di Giuseppe Conte al parlamento ha riguardato proprio il suo proposito di “negoziare con i partner europei”. Se l’attuale governo avesse un po’ di realismo negozierebbe il meno possibile; anzi, si farebbe vedere a Bruxelles il meno possibile. Ma gli esseri umani sono vanitosi e tendono ad illudersi che sedersi allo stesso tavolo significhi essere considerati degli interlocutori alla pari. Piddini non si nasce, ma si diventa attraverso l’infezione lobbistica del negoziato.
L’ennesimo “governo del cambiamento” si è andato a scontrare con le normali emergenze”. Se il dibattito sull’ILVA di Taranto continua ad assumere gli stessi toni spesso esasperati ed esasperanti, è perché risulta astratto; risente cioè di un’assoluta mancanza di contestualizzazione. Anzitutto bisogna capire quanto ha inciso, e quanto incide tuttora, nella vicenda il fatto che lo stabilimento ILVA confini con strutture militari, tra cui una base NATO. Quale che sia il governo in Italia, la NATO ha fatto capire chiaramente che non
intende mollare la presa sul Sud del Mediterraneo.
La presenza dello stabilimento ILVA a Taranto è per “caso” diventata di troppo? Ostacola con la sua presenza l’espansione delle strutture militari?
Circa tre anni fa l’allora Capo di Stato Maggiore della Marina ventilò l’ipotesi di un assorbimento dei lavoratori dell’ILVA nel personale civile della struttura militare dell’Arsenale di Taranto.
Che si tratti di un progetto abbandonato o di un progetto lasciato in sospeso, oppure di una boutade di pubbliche relazioni per far vedere quanto possono essere buoni e utili i militari, ancora non è chiaro.
Un’altra questione non da poco è cercare di stabilire quanto incida la presenza militare nell’inquinamento dell’area. Un’ILVA capro espiatorio? Certo è che nessun perito di tribunale si sentirebbe di rovinarsi l’esistenza chiamando in causa una fonte di inquinamento di origine militare. E poi col segreto militare ci sarebbe poco da fare persino se la magistratura fosse al di sopra di ogni sospetto.
Oltre la vicenda del sito di Taranto, c’è la questione della siderurgia in genere. Può esistere una siderurgia senza le sovvenzioni statali, una siderurgia di “mercato”, oppure rientra nel novero delle fiabe liberiste?
In nome del mercato si delega la produzione della gran parte dell’acciaio alla Cina, dove però i colossi dell’acciaio sono tutti statali e vanno verso una crescente cartellizzazione, sempre all’ombra della mano pubblica.
Non sarebbe molto meno oneroso per la spesa pubblica italiana una siderurgia nazionalizzata piuttosto che foraggiare il rapinatore privato di turno?
In molti settori industriali tenere in piedi la finzione del privato ha un costo esorbitante per il bilancio dello Stato che deve tappare i buchi; ma questi “sprechi” di denaro pubblico possono essere catalogati sia come costi dell’assistenzialismo per ricchi, sia come costi della lotta di classe contro il lavoro.
La fiaba liberista ci narra di governanti spendaccioni che acquistano con la spesa allegra il consenso delle masse. La realtà è l’esatto opposto: lo Stato infatti spende e paga il pedaggio alle multinazionali di turno per poter mantenere i lavoratori dei centri siderurgici sotto la spada di Damocle della perdita del posto di lavoro. La produzione siderurgica comporta infatti la presenza sul territorio di concentrazioni operaie e, per i governi, il problema è di evitare che queste concentrazioni operaie diventino, come in passato, roccaforti e punti di aggregazione dell’opposizione sociale.
Un’altra passeggiata tra le nuvole riguarda le cosiddette “bonifiche ambientali”. Persino nell’ipotesi più ottimistica, cioè che l’inquinamento di Taranto sia esclusivamente di fonte industriale e non militare, ogni bonifica costituisce un’avventura di cui non si possono quantificare costi e tempi. E ciò senza tener conto dei rischi ulteriori che comporta l’andare a smuovere strutture che hanno sedimentato scorie tossiche in stratificazioni storiche.
A sentire certi discorsi sembra che il disinquinamento sia come confessarsi e farsi la comunione per ritornare puri come prima. In realtà ogni bonifica è un azzardo e le tecnologie in grado di renderlo meno azzardato non sono del tutto certe e affidabili, anche se, ovviamente, il business ambientale tende a far credere il contrario.
La storia infinita della mancata bonifica del sito di Bagnoli è stata risolta semplicisticamente dalla magistratura nei consueti schemi del caso di corruzione. Ci si propina la solita fiaba moralistica secondo cui sarebbe stato solo l’inquinamento delle anime ad impedire il disinquinamento dell’ambiente.
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