Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Un segretario della UIL può permettersi delle piccole deroghe dal politicamente corretto che per un segretario della CGIL sarebbero assolutamente impensabili, dato che i media non gliela farebbero mai passare liscia. Il segretario della UIL, Pierpaolo Bombardieri, ha così potuto dare pubblicamente voce a ciò che molti pensano da tanto tempo, e cioè che il tema dei diritti civili è diventato un comodo diversivo per distrarre dalla questione dei diritti del lavoro.
Si tratta di un problema reale, ma comunque sopravvalutato per quanto riguarda i suoi effetti sull’opinione pubblica. Non è difficile capire che la discriminazione nei confronti del genere femminile si applica alle donne povere e non a Christine Lagarde o ad Ursula von Der Leyen. Analogamente, è ovvio che la condizione omosessuale è drammatica solo se riferita ai ceti popolari e non ai ceti più alti. Queste considerazioni di buon senso non si applicano soltanto alla questione dei diritti di genere o di orientamento sessuale. Allo stesso modo, è ormai chiaro a molti che anche un tema sacrosanto come la difesa dell’ambiente è diventato un’occasione di eco-consumismo e di eco-incentivi per i ricchi e invece di eco-tasse nei confronti dei più poveri; altrimenti non ci sarebbe stato il movimento dei “gilet gialli” in Francia, stroncato da Macron solo grazie al provvidenziale emergenzialismo Covid. Le vere insidie provengono invece da diversivi che l’opinione pubblica è ancora pronta ad accettare passivamente. Ci casca anche Bombardieri, il quale, per dare lavoro ai disoccupati, invoca come al solito i mitici investimenti pubblici.
Sono più di quaranta anni che i sindacati affidano la prospettiva di un aumento dell’occupazione agli “investimenti”. Nella famosa intervista del gennaio 1978 dell’allora segretario della CGIL, Luciano Lama, si annunciava che i sindacati confederali avrebbero sacrificato il miglioramento della condizione dei lavoratori occupati alla prospettiva di aumentare l’occupazione. Dopo più di quaranta anni da quell’intervista, dovrebbe invece risultare evidente che più scende il livello dei salari, più scende anche il livello di occupazione.
L’aumento del salario operaio rappresenta infatti l’unico fattore certo di redistribuzione del reddito a livello sociale, perché se aumentano i consumi dei lavoratori, si innesca anche una ripresa di circuiti produttivi e distributivi che creano occupazione. Insomma, sono i consumi dei poveri quelli in grado di rilanciare l’occupazione. Al contrario, ciò che il padronato risparmia sul salario operaio non va in nuovi investimenti ma finisce inesorabilmente nel circuito della finanza. Dato che agli investimenti da parte dei privati, ormai neanche i sindacati ci credono più, si spera negli investimenti pubblici. Le cose però non vanno meglio neppure nel campo degli investimenti pubblici, che si risolvono immancabilmente in assistenzialismo per ricchi, cioè vanno a sussidiare le imprese col pretesto, sempre più labile, di difendere l’occupazione.
Chi faceva notare queste cose quaranta anni fa, veniva preso per scemo anche nell’ambito delle cosiddette sinistre “antagoniste”. Non è il caso di dimenticare che alla fine degli anni ’70 proprio da settori dell’estrema sinistra fu avanzata la tesi della spaccatura del movimento operaio tra “garantiti” e “non garantiti”.
Oggi però i riscontri empirici e l’esperienza dei fatti non mancano, il nesso tra deflazione salariale e crollo dell’occupazione risulta evidente, quindi potrebbe essere l’ora di smetterla di subire la falsa alternativa tra aumenti salariali e aumento dell’occupazione. In realtà la questione è un po’ più complicata. Non si tratta infatti di evangelizzare la sinistra al verbo del ruolo strategico della difesa del salario, ma di riconoscere la potenza ideologica della destra, la sua inesauribile capacità di mistificare e di interpretare tutte le parti in commedia, alternando, a seconda delle esigenze, la più sguaiata spregiudicatezza con il più bigotto moralismo. Mentre la sinistra è distratta dalle sue polemiche e dalla contemplazione dei suoi innumerevoli tradimenti, intanto la destra, grazie alle sue doti camaleontiche, detiene il monopolio ideologico.
Nella sinistra si parla sempre più spesso di scomparsa della morale borghese e di caduta o rovesciamento dei valori tradizionali; ma forse i “valori” funzionano proprio per caduta e rovesciamento su facce diverse, come i dadi. La morale borghese non c’è più (ammesso che sia mai esistita) ma il moralismo borghese è più in forma che mai, come dimostra la gerarchizzazione delle nazioni tra “virtuose” e “corrotte”. Il moralismo si dimostra ancora più occhiuto e intrusivo quando si tratta di mondo del lavoro.
Quando il lavoratore pensa ai propri interessi, ciò viene sempre etichettato come una manifestazione di egoismo e di mancanza di sensibilità sociale. Si è sempre pronti a dare addosso ai lavoratori ogni qual volta vi sia il minimo sospetto che si sottraggano ai loro “doveri” sul posto di lavoro. Per concedere un po’ di comprensione ai lavoratori, si aspetta sempre che siano morti sul lavoro. L’egoismo dei ricchi può vantare invece una piena legittimazione morale, sarebbe infatti un egoismo che va a favore della società, appunto perché crea ricchezza. Al contrario, il salario, e la prospettiva di un suo aumento, continuano ad essere imprigionati nelle gabbie del moralismo.
Il denaro è di solito catalogato, con tipico approccio riduttivo, nell’ambito della cosiddetta “economia”, mentre invece è gerarchia, rapporto di potere tout court. Sin dalle sue origini, legate al fisco, il denaro infatti ha sempre avuto bisogno di dissimularsi, di avvolgere il suo potere nell’alone delle suggestioni, delle affabulazioni e delle mistificazioni. Nel caso del cosiddetto conflitto israelo-palestinese si può avere un’ulteriore riprova del potere illusionistico del denaro. Certi eccessi di servilismo filoisraeliano e di razzismo antipalestinese sono talmente rivoltanti da indurre al sospetto. Quando il mainstream concede tanto spazio agli squallidi di mestiere, vuol dire che c’è da nascondere qualcosa di evidente.
Nella Cisgiordania occupata dagli Israeliani nel 1967, l’Autorità Nazionale Palestinese, gestita da Al Fatah, non è in grado di impedire i continui insediamenti di coloni israeliani. Questi coloni sono organizzati in vere e proprie formazioni paramilitari e in più si avvalgono dell’apporto dell’esercito israeliano, che opera restrizioni, brutalità e uccisioni nei confronti della popolazione araba. Il procedimento di pulizia etnica si è esteso a Gerusalemme Est, anch’essa occupata da Israele nel 1967, dove persino i residenti arabi con cittadinanza israeliana vengono sbrigativamente sfrattati. Il partito laico Al Fatah e il partito religioso Hamas, ispirato ideologicamente ai Fratelli Mussulmani, avevano trovato un accordo per indire le elezioni, ma gli USA hanno premuto per rimandarle, in modo da scongiurare la scontata vittoria di Hamas, che riscuote consensi sia per il suo welfare, sia per essere riuscita a sloggiare i coloni israeliani da Gaza. Hamas è considerato dal Sacro Occidente una organizzazione “terroristica”, nonostante sia finanziato da uno Stato coordinato con la NATO, il Qatar, lo stesso che ha finanziato l’aggressione contro la Siria. La situazione sembrerebbe quindi premiare l’estremismo religioso di Hamas e l’estremismo nazionalistico del primo ministro israeliano Netanyahu, che inoltre ha tutto l'interesse a fomentare l’emergenza dato che ha sul capo quattro processi per corruzione da bloccare.
Da più parti si fa notare che il sionismo, con la sua aspirazione ad uno Stato ebraico, implica necessariamente le attuali pratiche di apartheid. Del resto quando il sionismo nacque alla fine dell’800, le pratiche di segregazione etnica, religiosa e razziale non erano considerate politicamente scorrette. Nell’800 inoltre l’appartenenza religiosa era indicata sui documenti di identità, perciò erano gli Stati a farsi carico della certificazione dell’identità ebraica. Il sionismo si avvaleva quindi della sponda di un antisemitismo istituzionalizzato. Oggi l’identità ebraica risulta invece evanescente. Centinaia di migliaia di russi sono immigrati in Israele in base ad una “Legge del Ritorno” che considera ebrei anche i “pronipoti” di un ebreo, cioè nulla di realmente riscontrabile, tanto che ci si è ritrovati persino dei neonazisti.
C’è anche da considerare che un apartheid applicato ad una larga parte della popolazione risulta insopportabilmente costoso. In Israele, e nei territori da essa occupati, la popolazione “ebraica” e quella araba numericamente si equivalgono, con una tendenza demografica che pare stia portando ad una maggioranza araba. In queste condizioni il sionismo sarebbe destinato all’estinzione per mero effetto di incertezza anagrafica e spinta demografica. La stessa questione se l’antisionismo sia o meno antisemitismo appare quindi superata dai fatti, dato che l’antisionismo tende a diventare una scelta astratta, come essere anti-ghibellini o anti-bonapartisti. Per fortuna c’è il denaro del contribuente americano a coltivare l’illusione. Ad esempio, uno degli ultimi atti del cialtrone Trump è stato di finanziare un’Università ebraica sorta abusivamente nei territori occupati.
Ma i toni arroganti di Trump sono solo l'ultimo tassello della questione, il più folcloristico. Gli insediamenti israeliani nei territori occupati sono infatti finanziati da una miriade di fondazioni statunitensi, in gran parte espressione di associazioni evangeliche. Si tratta di fondazioni non profit, che si avvalgono quindi di un’esenzione fiscale. Con questo diluvio di denaro esentasse è possibile reclutare ogni sorta di facinorosi e delinquenti comuni che si prestino ad interpretare la parte degli ebrei estremisti, finanziando anche attività imprenditoriali. In Israele il finanziamento statunitense all’apartheid è un fenomeno ormai noto. Dopo una serie di indagini sul percorso dei soldi, anche un importante quotidiano israeliano come Haaretz se ne è diffusamente occupato.
Il fenomeno del finanziamento non profit agli insediamenti nei territori occupati è pressoché ignoto all’opinione pubblica italiana, mentre viene illustrato spesso sulla stampa estera, tanto che è stato oggetto di un resoconto addirittura da parte del New York Times. Si tratta comunque di notizie che rimangono ai margini della comunicazione ufficiale, perciò possono sfuggire ad un pubblico che si ferma alle prime pagine ed ai talk show.
Questa pioggia di denaro statunitense già dovrebbe porre dei dubbi sull’effettiva natura dello “Stato Ebraico” attuale, ma siamo appena alla superficie del problema. Si scopre infatti che gli evangelici, con il loro “volontariato”, forniscono persino la manodopera necessaria alle attività agricole e imprenditoriale degli insediamenti coloniali nei territori occupati.
Le associazioni evangeliche non hanno nulla a che vedere con le chiese protestanti tradizionali, ed esibiscono il più classico repertorio biblico-apocalittico, a base di battaglie finali contro Gog e Magog; battaglie che dovrebbero per l'appunto avere la loro origine in Terrasanta. Il repertorio dei fanatismi e delle cazzate ha però un supporto molto concreto, cioè il finanziamento del governo federale statunitense, che sostiene le associazioni evangeliche come strumento di penetrazione imperialistica. Il caso del presidente brasiliano Bolsonaro, che si è giovato del supporto delle associazioni evangeliche insediate in Brasile, è abbastanza risaputo, mentre è molto meno noto il caso israeliano. Con una partita di giro, il finanziamento pubblico alle associazioni evangeliche diventa poi finanziamento privato non profit alla colonizzazione dei territori palestinesi. Il tutto è stato documentato in un libro di Axel R. Schäfer, “Piety and public funding”, nel quale l'autore non può fare a meno di notare che, ad onta della loro retorica individualistica e liberistica, gli evangelici americani si nutrono sin dalle loro origini dell’assistenzialismo del finanziamento pubblico. Per la serie: se non si segue il denaro, si rischia di parlare di nulla.
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