Global Progress, un centro studi con sede a Washington, legato a sua volta ad una fondazione dagli oscuri finanziamenti, ha pubblicato un “paper”, un documento, su quei leader “progressisti” che costituirebbero un’alternativa all’offensiva cosiddetta “populista”. Tra questi “leader”, o presunti tali, c’è Emmanuel Macron ma anche personaggi già decotti come Matteo Renzi. L’etichetta che viene usata per accomunarli è quella di
“insurgents”, cioè ribelli, in base allo schema narrativo occidentalista che ci rappresenta il potere vigente, rigidamente oligarchico con una mobilità sociale verso l’alto azzerata, come se fosse invece “dinamico” e sempre in bilico.
Il messaggio ambiguo lanciato da Global Progress consiste infatti nel suggerire che debba svilupparsi una “resistenza” dei progressisti contro l’avanzata di un fantasmatico nemico interno, cioè il populismo. Allo stesso modo in cui rimane vaga nel documento la nozione di populismo, rimangono del tutto incerte e fumose le linee di quel “progressismo” che dovrebbe contrastare i presunti populisti, cioè personaggi minacciosi come Matteo Salvini, che il suo governo se lo è fatto cadere da solo.
L’idea di un Occidente sotto assedio da parte sia di nemici esterni, come Russia, Cina e Iran, sia da parte del nemico interno del populismo, è alla base di un libro del novembre dello scorso anno, scritto dal giornalista Maurizio Molinari, diventato da qualche settimana nuovo direttore del quotidiano “la Repubblica”. La parte “analitica” del libro si accentra sulla descrizione dell’avvento di una nuova guerra fredda, ed è quindi una chiamata alle armi dei guerrafondai occidentalisti puri e duri contro nemici irriducibili che esibiscono i propri propositi malvagi. La Russia e l’Iran pretenderebbero infatti di offrire di venderci il loro petrolio e il loro gas, mentre la Cina vorrebbe addirittura investire in infrastrutture nei Paesi europei. Solo pazzi criminali che aspirano al dominio mondiale oserebbero avanzare proposte così mostruose. Certo, se Russia e Iran si rifiutassero di venderci gas e petrolio e la Cina non investisse da noi i suoi capitali, ciò proverebbe ugualmente i loro intenti criminali.
La parte “propositiva” del libro di Molinari ricalca la consueta retorica “animabellista” dei diritti e di uno sviluppo economico più umano che non si faccia guidare dal criterio numerico del PIL, quindi rappresenta un appello ai politicorretti più rigorosi, da abbindolare con la prospettiva di uno sviluppo economico, che però non deve essere uno sviluppo economico ma qualcos’altro, che non si sa bene cosa sia. Magari questo oggetto misterioso è la stagnazione cronica ma non lo si deve mai ammettere apertamente.
Quest’Europa che sarebbe a rischio di imminente invasione russo-cinese, può infatti discutere all’infinito di crescita e delle sue modalità più o meno politicorrette; quello che è certo è che comunque l’Europa debba rimanere in stagnazione, almeno a giudicare dalla sua politica dei debiti pubblici. Se gli Stati europei emettono titoli del Tesoro trentennali a tasso fisso, è ovvio che si formi una lobby dei creditori interessata a che non vi sia la minima inflazione che possa intaccare il valore degli interessi che riscuotono; e l’unico modo di garantirsi contro l’inflazione è impedire la crescita economica. Col pretesto dell’emergenza Covid migliaia di attività commerciali e industriali sono state distrutte e la persistenza delle misure preventive contro la presunta pandemia ne impedirà la rinascita. Ciò ha permesso alle multinazionali del digitale di aprirsi nuove quote di mercato ma comunque non potrà essere ripristinato lo stesso volume di scambi. Ciò però potrebbe non bastare per garantirsi la deflazione per i prossimi decenni.
La finanza ed il militarismo hanno un interesse comune: tenere vivo quel clima di tensione internazionale, contrassegnato da sanzioni economiche, che impedisca uno sviluppo delle relazioni commerciali con il gigante energetico russo ed il gigante industriale cinese. La saldatura tra la finanza e il militarismo, tra la lobby della deflazione e l’enemy business della NATO, è l’ovvia conseguenza di tutto ciò.
La convergenza di interessi tra business finanziario e business militare viene ovviamente rappresentata in modo “dinamico”, secondo i canoni perennemente allarmistici della narrativa occidentalista, come se la NATO fosse a rischio di sopravvivenza e domani mattina potesse non esserci più. Un giornalista ansioso e indignato chiede al segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, cosa ne pensi del terribile proposito di Trump di ritirare migliaia di soldati dalla Germania.
Stoltenberg risponde con espressione grave, ma non riesce a nascondere che in effetti di questo “ritiro” non sono stati decisi né tempi né modalità: insomma, i soliti annunci a vuoto di cui è specialista il Cialtrone della Casa Bianca.
Del resto Trump è un pagliaccio messo lì apposta per fingere di “dinamizzare” una situazione in cui in realtà tutto è già stabilito. Una bolla oligarchica sradicata e inattaccabile, che distribuisce sempre meno reddito, non può fare a meno di psicodrammatizzare con falsi bersagli la vicenda politica in modo da allestire un finto dibattito ed un’altrettanto finta partecipazione delle masse, i cui esiti pratici sono comunque scontati. Nell’intervista Stoltenberg ci ammonisce infatti sull’importanza della NATO, il solo argine contro la minaccia dei gasdotti russi e delle Vie della Seta cinesi, cioè la sola istituzione che possa garantirci la stagnazione secolare e la deflazione da debiti.
A proposito di debiti,
l’Argentina è nuovamente a rischio di default e non può pagare gli interessi sul proprio debito ai grandi investitori come Blackrock. Per i creditori è preferibile però il default dei propri debitori che una crescita mondiale che rischi di creare inflazione. Tanto ci pensa il Fondo Monetario Internazionale a “mediare”. In definitiva il default è un business. Più sono alti i rischi di default di uno Stato, più elevati saranno gli interessi che dovrà pagare per avere altri prestiti.