La ricorrenza dei cinquanta anni dalla strage di Piazza Fontana è stata l’occasione per la riproposizione dei temi ormai consueti, gli stessi temi a cui siamo stati abituati in mezzo secolo di confronto con quell’evento. La costante di quasi tutti i commenti è stata infatti la riduzione dell’analisi politica all’analisi giudiziaria. Il presidente della Camera, Roberto Fico, ha rilanciato
il proposito di desegretare tutti gli atti relativi alla strage; lo stesso provvedimento già annunciato da Matteo Renzi nel 2014. Si è visto con quali risultati.
Eppure dovrebbe risultare evidente che l’esser riusciti a modificare il quadro giudiziario rispetto alla strage, l’aver ammesso che i colpevoli non erano i “rossi”, bensì dei “neri” in complicità con settori dei servizi segreti, non ha sortito assolutamente l’effetto di cambiare lo schema politico imposto immediatamente dalla strage stessa. Si trattava di quello schema emergenziale tramite il quale si costringeva il movimento operaio, cioè la forza di opposizione per eccellenza, a farsi carico, in nome del ”senso di responsabilità”, della difesa delle “istituzioni democratiche”.
Nel 1969 non c‘era ancora stata la caduta del Muro di Berlino, non c’era ancora il Trattato di Maastricht, ciononostante la politica si rivelava già una categoria subalterna rispetto ad altre. Vi erano già tutte le condizioni per il predominio non solo istituzionale ma anche ideologico della magistratura. La stessa magistratura che ha largamente contribuito a depistare le indagini sulla strage (sia con incriminazioni assurde, sia col trasferimento dei processi in lidi lontani), non ha mai perduto il ruolo preminente e riconosciuto di depositaria della missione di stabilire la “verità”. La verità giudiziaria è diventata abusivamente la verità politica, facendo perdere di vista che lo schema emergenziale imposto dalla strage è sopravvissuto ad ogni nuova ricostruzione dei fatti e ha consentito dapprima l’istituzionalizzazione e poi la neutralizzazione del movimento operaio.
A cinquanta anni dalla strage non si può infatti aggirare l’evidenza di un movimento operaio sconfitto perché costretto a farsi carico prima della difesa delle istituzioni democratiche, poi della crisi finanziaria e della difesa della lira tra il ’76 e il ‘78, poi ancora della difesa della democrazia di fronte alla nuova minaccia rappresentata dal brigatismo rosso.
L’emergenzialismo fu sperimentato in grande stile su scala europea nel 1973, con l’imposizione della “austerity” in base alle fake news sul blocco delle forniture di petrolio da parte dei Paesi arabi. Anche la Germania aveva sperimentato lo schema emergenziale negli anni precedenti, enfatizzando le imprese della RAF; ed anche in quel caso si assistette all’allineamento della socialdemocrazia e dei sindacati alle esigenze della difesa della “democrazia”. Le analisi sul regime tedesco del leader della RAF, Andreas Baader, erano in effetti molto lucide e puntuali, individuando quel regime come una sintesi di nazismo ed imperialismo USA. Le conseguenze che Baader trasse da queste premesse, furono però più religiose che politiche: un sacrificio di esponenti della giovane generazione per riscattare la vergogna dei padri; come se i “padri” non fossero prontissimi ad approfittare vergognosamente di quella ansia di riscatto per trasformarla nel suo esatto contrario in base allo schema emergenziale.
L’emergenzialismo non richiede particolare visione strategica da parte di chi lo adotta, bensì rappresenta l’automatica reazione delle oligarchie quando sentono minacciati, anche solo in parte i propri privilegi; perciò si fa saltare il banco per costringere tutti gli oppositori a farsi carico del caos che ne consegue.
Per effetto dello schema emergenziale il ruolo storico di opposizione della classe operaia, cioè fare da sponda e da referente per la redistribuzione sociale del reddito, è stato non solo perduto ma persino vilipeso e oltraggiato per poter adottare in alternativa la “concertazione”, anch’essa poi mandata in soffitta quando la classe operaia era ormai talmente indebolita da non aver più bisogno dei sindacati per controllarla.
La rivendicazione salariale veniva così subordinata ad un presunto “interesse generale”, alla cui ombra si potevano innescare i processi di deindustrializzazione e finanziarizzazione. Il debito pubblico diventava un’arma in mano agli industriali, i quali potevano disinvestire dalla produzione per investire in titoli di Stato. È la dinamica in base alla quale si spiega la sconfitta operaia del 1980 alla FIAT. Con la famigerata “Marcia dei Quarantamila” si strappava alla classe operaia anche quella che era considerata una sua prerogativa ed una sua roccaforte: la piazza. Giorgio Gaber cantava “c’è solo la strada su cui puoi contare”. Oggi anche la strada può invece diventare un luogo di menzogna sociale.
La caduta del Muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica hanno impresso un’energica accelerazione ai processi di finanziarizzazione; ed anche la fine dei regimi del “socialismo reale” vide la piazza trasformarsi in un’arma della reazione, con i primi esperimenti di “rivoluzioni colorate”. C’era però un precedente ancora più antico di “rivoluzione colorata”:
lo sciopero delle pentole in Cile di cinquantamila casalinghe contro il governo Allende nel 1971; un segnale che il colpo di Stato poi attuato del settembre del ’73 era già in preparazione da tempo.
Oggi in America Latina tutti i tentativi politici di mediazione socialdemocratica vengono attaccati attraverso la messinscena della rivolta dal basso. C’è certamente in queste operazioni un ruolo preminente del Dipartimento di Stato USA e delle sue ONG, ma occorre considerare che il caos è la naturale arma di reazione delle oligarchie.
Le sinistre europee si sono così integrate nello schema emergenziale da non aver più bisogno nemmeno della minaccia del caos per allinearsi. Sono sufficienti infatti emergenze del tutto fittizie e fasulle, tanto che basta lanciare sulla scena qualche personaggio assolutamente improbabile per riuscire a far gridare immediatamente all’emergenza democratica ed alla minaccia del fascismo o della sua versione mediatica corrente, cioè il populismo.