Il politicorretto è un’ideologia pervasiva che ha la capacità di trascinare anche chi vi si oppone sul proprio terreno, cioè la pedagogia sociale. La tentazione di una contropedagogia che cerchi di ricondurre i politicorretti ai dati di fatto, si rivela quindi fuorviante. Che Greta sia fasulla è in grado di capirlo chiunque, perciò ogni eccesso di spiegazione a riguardo è privo di senso. La priorità di ogni politicorretto è infatti quella di educare, perciò per il politicorretto non bisogna insistere sul fatto che Greta sia sponsorizzata dal Fondo Monetario Internazionale e dalle multinazionali, altrimenti la “ggente” non capisce e perde di vista l’importanza del messaggio ambientalista, magari facendosi irretire dai “negazionisti” tipo il cialtrone Trump.
A questa visione pedagogica viene in soccorso anche la convinzione che capitalismo e ambientalismo siano incompatibili e che perciò quando i capitalisti cercano di strumentalizzare l’emergenza ambientale, in definitiva si diano la zappa sui piedi. Il politicorretto ricorre persino a questi pseudo-machiavellismi.
È sicuramente vero che capitalismo e ambientalismo siano assolutamente incompatibili, ma è un dato che potrebbe essere verificato solo sui tempi lunghi. Nessuna azione politica può permettersi di gestire i tempi lunghi poiché le variabili sono troppe. Il Fondo Monetario Internazionale, dopo aver cavalcato per qualche anno l’emergenza ambientale, potrà adottare qualche altra emergenza, magari la minaccia del Putin di turno. Le masse, nel frattempo “educate” non tanto al messaggio ambientalista, ma a subire la propaganda mainstream, potrebbero bersi anche la nuova emergenza.
Per quanto sia pienamente fondato, il tema ambientale non è in sé rivoluzionario. C’è rivoluzione, o quantomeno opposizione, quando vengono messe in discussione le gerarchie sociali. Il livello di distribuzione del reddito è l’indicatore, la lancetta, del grado di gerarchizzazione della società.
Le “carbon tax”, le ecotasse che il FMI cerca di imporre, rappresentano un modo per trasferire reddito dai poveri ai ricchi, una tassa sulla povertà. Mentre i tempi lunghi sono il regno dell’elucubrazione, oggi la questione immediata è il sì o il no alle carbon tax.
Le ecotasse sono state il motivo scatenante della rivolta francese dei cosiddetti “Gilet Gialli”, un movimento che vede coinvolti soprattutto i ranghi inferiori del ceto medio. Il fatto che, almeno in Francia, i ceti medi si percepiscano come il bersaglio principale delle carbon tax, trova conferma nell’appoggio entusiastico che le grandi multinazionali hanno offerto a questo nuovo tipo di balzello sull’aria.
L’interesse delle corporation per le carbon tax si spiega facilmente col fatto che un gran numero di piccole aziende industriali e agricole verrebbero messe fuori mercato dal costo aggiuntivo delle ecotasse.
A proposito di Greta si è parlato a vanvera di una nuova rivolta generazionale, ma le rivolte generazionali non esistono e lo stesso ’68 non può essere considerato tale, bensì va annoverato anch’esso nelle rivolte del ceto medio. La svista fu dovuta al fatto che la generazione dei padri aveva erroneamente percepito l’aumento del suo reddito come una definitiva promozione sociale, cosa che portò ad un’arrogante e morbosa identificazione con l’establishment, tanto che negli anni ’60 ogni bottegaio o artigiano si illudeva di far parte della stessa classe sociale degli Agnelli e dei Rothschild. Toccò invece alla giovane generazione del ceto medio registrare e rendere evidente la critica delle gerarchie sociali che la redistribuzione del reddito aveva comportato. Il limite grave del movimento del ’68 fu però quello di rimanere ancorato alla visione produttivistica e consumistica del capitalismo, arrivando così del tutto impreparato e inconsapevole all’appuntamento con la restaurazione deflazionistica e pauperistica avviata alla metà degli anni ’70.
Negli anni ’60 il mondo adulto si poneva compatto e omertoso contro i giovani, mentre il confronto generazionale attuale vede invece i giovani misurarsi con un mondo adulto debole, insicuro e conflittuale al suo interno, con figure di genitori e insegnanti che sono quasi tutti nel mirino dell’establishment, eppure sono intenti a litigare fra loro. Se l’insegnante degli anni ’60 svolgeva ancora un ruolo di riproduttore delle gerarchie sociali, gli insegnanti odierni si ritrovano invece al fondo di questa gerarchia, vittime inermi, e troppo spesso collaborazioniste, di dirigenti scolastici la cui “produttività” viene calcolata in base al numero di insegnanti che sottopongono a procedure disciplinari. Lo stato confusionale comincia addirittura sin dall’infanzia. Basta osservare all’entrata delle scuole elementari i conciliaboli delle mamme che tramano contro le maestre.
Dietro le carbon tax non c’è quindi nessuna vera mobilitazione giovanile, neppure un movimento del tipo delle “rivoluzioni colorate”, ma soltanto bombardamento mediatico e connivenza istituzionale, gestiti in prima persona dalle lobby multinazionali.