Il caso del voto trasversale del parlamento europeo sui
“crimini” del comunismo presenta alcune riconferme ed anche qualche questione irrisolta. Tra le ovvie riconferme ci sono la compiaciuta rottura del PD con la propria tradizione politica ed il carattere fittizio/truffaldino del sovranismo della Lega, che ancora una volta smentisce una delle premesse fondamentali del sovranismo stesso, cioè il non farsi impegolare nelle diatribe ideologiche del passato per non perdere di vista l’obbiettivo prioritario della liberazione nazionale.
La questione aperta riguarda invece il vero movente della criminalizzazione del comunismo da parte delle oligarchie capitalistiche. È difficile credere che i capitalisti soffrano per la sorte dei Kulaki e degli internati nei Gulag. Qual è dunque il vero “crimine” che la memoria del comunismo sovietico è chiamata continuamente a scontare?
Si tratta di un delitto di lesa maestà. L’Unione Sovietica, con la sua semplice esistenza, aveva costretto per quasi due decenni il capitalismo a derogare dalle sue ferree regole di avarizia ed a concedere un po’ di benessere materiale alle popolazioni. La minaccia del comunismo, la sua apparente capacità espansiva, ha determinato infatti la necessità per le oligarchie occidentali di cercare consenso. Ciò ha comportato in alcune fasi persino una condizione di quasi piena occupazione dei lavoratori, una situazione che è arrivata sino all’inizio degli anni ’70.
Solo a metà degli anni ’70, la percezione della crescente debolezza strutturale dell’Unione Sovietica ha permesso al capitalismo di ritornare alle vecchie pratiche pauperistiche e di restaurare le gerarchie sociali attraverso la disoccupazione ed il conseguente ricatto occupazionale nei confronti dei lavoratori. Il successivo crollo dell’Unione Sovietica ha consentito addirittura di rompere gli argini e di avviare sistematicamente pratiche deflazionistiche. La deflazione si è istituzionalizzata con la nascita dell’Unione Europea e della moneta unica, i cui effetti di stagnazione si esercitano non solo in Europa ma a livello globale. La deflazione dell’area-euro è oggi il buco nero dell’economia mondiale. La deindustrializzazione, la decadenza degli standard produttivi e delle infrastrutture, sono stati prezzi che il capitalismo ha pagato per garantirsi la restaurazione delle gerarchie sociali; ma sono stati prezzi pagati senza alcuna remora, sostituendo disinvoltamente la ricchezza reale con le bolle finanziarie. Ad esempio, venti anni fa la Telecom era ancora una delle maggiori aziende telefoniche del mondo, mentre oggi è ridotta ad una piattaforma informatica e qualche call center, di cui una parte è dislocata in Romania per comprimere i costi. L’azienda non detiene più un proprio personale tecnico e deve rivolgersi di volta in volta a soggetti avventizi, con ritardi mostruosi per le riparazioni. Se si volesse minimizzare a tutti i costi il caso Telecom ritenendolo un esempio troppo estremo, allora come abbassamento degli standard aziendali può essere considerata paradigmatica la vicenda della Volkswagen che truccava il rilevamento delle emissioni inquinanti.
La persistenza del mito/luogo comune del capitalismo produttivistico/consumistico, ha impedito per decenni di riconoscere che la sua vera priorità consiste nel perpetuare comunque il dominio di classe. La stessa nozione di capitalismo è rimasta vaga, concretizzandosi solo nel principio giuridico secondo il quale il potere in un’azienda si calcola in base alle quote di capitale; mentre tutto il resto può essere annoverato sotto il capitolo dell’assistenzialismo per ricchi.
Alcuni fanno risalire la controffensiva restauratrice del capitalismo al documento della Commissione Trilaterale del 1975 sulla
“crisi della democrazia”. In quel testo si puntava il dito contro il presunto inceppamento dei processi decisionali all’interno dei regimi democratici e si invocava un’emarginazione delle masse dalla politica per insediare processi di “governance”, un concetto che in Italia venne tradotto come “governabilità”.
La prosa fumosa di quel documento lasciava comunque intendere quali fossero le decisioni allora “paralizzate” che andavano sbloccate, cioè le privatizzazioni e l’eliminazione dei limiti alla circolazione internazionale dei capitali. In realtà accreditare associazioni private come la Trilateral di una capacità direttiva sul capitalismo mondiale è molto azzardato. Il lobbismo privato detiene il suo vero punto di sintesi e di forza in istituzioni, almeno formalmente, pubbliche.
Le informazioni sul deterioramento della situazione interna dell’URSS erano acquisite da organi come il Pentagono, la CIA, la NATO e dal loro complemento finanziario, il Fondo Monetario Internazionale. Non vi è stato neppure bisogno di prendere decisioni, poiché è stata la stessa debolezza del nemico sovietico a far riprendere sicumera e arroganza alle oligarchie occidentali. Il capitalismo non è affatto un sistema impersonale; anzi, in esso sono determinanti sentimenti “umani” come l’avarizia, il rancore, l’odio verso l’uguaglianza e la libidine del comando.
La Trilateral ha rappresentato semplicemente il terminale di pubbliche relazioni di questo nuovo stato d’animo di rivalsa e vendetta sociale. Come avrebbe scritto qualche decennio dopo il ministro di “centrosinistra” Tommaso Padoa Schioppa in un suo
articolo-manifesto del neo-deflazionismo, occorreva insegnare nuovamente alle masse la “durezza del vivere”, cioè rieducarle alla catena delle gerarchie sociali attraverso il ricatto del bisogno e della povertà.